Frammenti di maestro, editoriale di Sebastiano Aglieco

Frammenti di maestro, editoriale di Sebastiano Aglieco.

    

    

Insomma…perché si debba scrivere poesia e come scriverla – impari da solo? qualcuno ti insegna? e che dici veramente quando scrivi poesie? – a me sembra un tema da non trascurare. E’ assodato, poi, che, il motivo per cui non si legge poesia, è perché la scuola non la insegna come si dovrebbe; perché i ragazzotti che diventano grandi e scrivono, non cercano maestri ma padrini, prontissimi a mollarli nel caso di sopraggiunta fama; da cui ne consegue la nascita di buoni versificatori e cattivissima umanità.
E non è questo, in fondo, che vuole la scuola di oggi? Lo stato non vuole la formazione di burocrati, dirigenti di un sapere controllabile? E allora bisogna ancora considerare seriamente se la minima buona azione valga la più bella delle poesie[1]; se la poesia, cioè, non vada fatta transitare, almeno in parte, nella sfera dell’Utile, oltre che del Bello; se non se ne debba vietare la pratica finché non sia subentrata l’età della guerra e della privazione. Se non sia meglio strapparla agli strumenti di tortura della scuola, ai fini letterati, alla parafrasi, ai pagliacci e alle piazze. Se non sia meglio abbandonarla in mano ai pazzi e ai bambini, che quantomeno la salverebbero per innocenza e ignoranza.
Ecco: forse faccio scrivere poesie ai bambini perché credo in questa possibilità di rinascita e redenzione.

    

Diritto a scrivere

Scriveva un mio bambino:

Un muro divide,
divide due vite
che restano separate.

Un muro
che quando si
distrugge, rotola
come fari abbaglianti
come volare
al di là
del mondo murato.
                         (diritto a superare)

E’ una bella immagine che vorrei utilizzare per dire che cosa dovrebbe essere la scrittura praticata dalle persone in crescita, e quindi dai bambini e dai ragazzi, soprattutto: un mezzo per superare, per immaginare i possibili orizzonti della vita: guardare meglio, essere meglio.
La scrittura è un potentissimo mezzo per dire del mondo, e siccome noi facciamo parte del mondo, scrivendo finiamo per raccontare anche qualcosa che riguarda nel profondo noi stessi. E’ un mezzo così potente la scrittura, che la gente scrive a dismisura, più che leggere.
A scuola il gesto dello scrivere, almeno in quest’ambito, dovrebbe essere slegato dalla censura della valutazione; la scrittura dovrebbe essere espressione di una volontà, di una gioia a dire di sé, delle cose, degli altri, della vita. Perché, infine, la parola ben esercitata, è gesto di ri /conoscenza, realizza un tramite tra sé e gli altri. Prima di tutto tra sé e un maestro che si fa carico di traghettare, di portare la persona in formazione verso una sua maggiore consapevolezza.
Ma, si sa, l’esercizio della propria libertà è cosa assai pericolosa – che però la scuola chiede all’adolescente come segno di maturità, senza poi tirarsi indietro quando ci sia da constatarne l’immaturità o l’inutile e pericolosa rivolta – . Esercitare la libertà del testo e della lettura nella scuola, vuol dire in primo luogo, far sentire ai propri allievi di essere capaci di poter essere liberi nella vita, di vedere con altri occhi. Non si ricorderanno di aver scritto poesie – la scuola ci mette molto poco a far dimenticare – si ricorderanno di te, dell’esempio di libertà di un maestro.

(…)

Un bambino maestro:
i cinguettii lo risvegliano
dal quadro nudo.

Parlando con questo bambino, abbiamo scoperto che, il quadro a cui si riferisce, è un’opera di Picasso del periodo classico: due figure enormi corrono tenendosi per mano, nello sfondo un cielo azzurro. L’avevamo guardato insieme, non ricordo per quale motivo, ma me ne ero dimenticato.
Ecco: la scrittura è resa possibile da chi ti accompagna, da chi ti tiene per mano e ti porta da qualche parte. Condizione di questo stato, è essere “un bambino/maestro”; la scrittura deve essere anche gioia, libertà del saper cogliere i sommovimenti del cuore.
E infine: scrivere vuol dire anche saper leggere; stare in contatto con le parole degli altri, che se differiscono dalla nostra per la forma, non ne differiscono per le domande: perché identiche sono le domande di chi scrive e di chi legge. La scrittura, come la lettura, non si esaurisce con la scuola; scrivere, come diceva Rilke, è un’attività legata indissolubilmente a un sentimento di urgenza e di necessità. Non formiamo né poeti né scrittori ma menti libere di cogliere le relazioni profonde tra le cose.
Scrittura è anche frattura, benedetta frattura. E’ espressione di un dolore attivo, dal quale può derivare la pietas verso le creature che ci circondano e verso noi stessi:

punto
cade, cade come una
goccia rossa, fiamma
nel vuoto, come un punto
nel quaderno pieno di parole

E’ il testo di una bambina che esprime con queste parole il suo diritto a scrivere.

    

Degli angeli

Come spiegare tutti questi anni, questo tempo che ci trasforma senza un perché? Eppure guardiamo gli altri che cambiano, ricordiamo le cose della Storia, sappiamo della nostra nascita e della nostra fine…
No, non è questo – questo lo sappiamo già – non capiamo perché compiamo certe azioni, quale oscuro segreto preceda il nostro fare, per istinto o per semplice calcolo non importa. Non può capire, un maestro, il perché di tanta costruzione, tanta geometria nel caos di un cuore. Occorre conservare il disordine eppure mostrare i limiti della palizzata. E perdersi in questo continuo arare la terra, seminare, separare il grano dalla gramigna sapendo che non sempre è possibile e che non tutti i semi hanno il progetto di nascere. Portali fuori, stanarli. E perché poi?
Tu ci inganni, mi disse una volta un bambino in lotta col padre. Tu ci aduli con belle parole e insegnamenti, ci porti dove tu hai deciso di portarci.
Certo, sì, maieutica, aveva capito perfettamente. Esiste un inganno nella maieutica: la verità non è vero che si cerca ed è ciò che hai trovato; la verità esiste già; solo che non ti indica la strada, te la suggerisce, e alla fine tu credi di essere arrivato alla liberazione con le tue gambe. Invece ti hanno portato in una casa che non sarà mai quella definitiva.
Ma quale liberazione? E’ solo un avvicinarsi allo steccato, capire che se lo superi sei “altro”, sei fuori, sei l’anima selvaggia che si rifiuta di abitare la città. Un bambino è un essere eterno, ha detto Luigi Cannillo, un poeta, espressione che condivido appieno.
C’è una traduzione più semplice della parola illuminazione, frutto degli studi più recenti: consapevolezza. Che vuol dire: non vado più da nessuna parte perché ormai so, e sapendo, ho proclamato la morte della morte.
Ricordo che eravamo a teatro con i genitori e i bambini a vedere uno spettacolo su Mozart. Dietro di me una signora ascoltava la conversazione tra me e il mio alunno che polemizzava. Mi disse: – Lei è un insegnante, credo di aver capito… Sa, studi americani dimostrano che questi, da grandi, diventano i migliori – .
Abita di fronte alla mia finestra quel ragazzino. E’ rimasto a parte, forse di parte. Vedo la sua finestra ma non lo vedo. Una volta, era ancora un bambino, lo vidi accovacciato sulla balaustra, sospeso nel vuoto, che piangeva. Mi spaventai e lo chiamai piano per nome. Gli andai a comprare Il barone rampante e glielo regalai. Probabilmente qualche insegnante glielo avrà fatto leggere dopo, a scuola, e per obbligo, quel libro e non so se in quel momento lui abbia compreso la metafora del messaggio. Era uno che scriveva con grande fatica perché avvertiva nella scrittura una forma di assolutezza. Un “non si può barare”.

*

Il mio angelo nasconde le ali nella giacca, forse perché sono troppo grandi o buffe. E’ come me, come il mio astuccio, come il mio libro, ma soprattutto come me, più bello fuori che dentro. Bianco e nero, che quando piange si riprende le lacrime, che quando si emoziona chiude l’impermeabile, che quando c’è il sole si mette al buio e al freddo, che copre le pezze dei pantaloni, che di nascosto si ubriaca e che non esce mai dal suo angolo buio. Lui che è lui ma non vuole esserlo, che comincia sempre a costruire un muro ma non lo finisce mai.

*

Furono gli ultimi testi di questa classe, costruiti per variazione dopo aver letto le poesie di Rafael Alberti, “Degli angeli”.
Ecco che cosa fa la scrittura: ti stana. Ne hai paura, timore, vergogna? Non lo so, ma intanto ti stana. Li recitammo a teatro questi testi, insieme al gruppo dei grandi; quelli cresciuti col teatro per necessità loro – nessuno di questi ragazzi ha mai sognato di fare l’attore, tranne uno, rovinato alle superiori dal cosiddetto teatro della scuola -.
Avevamo inventato figure di angeli spauriti, con grandi ali di tulle che ci costruì una mamma collega. Devono essere rimaste appese in un teatro vicino La Spezia, quelle ali, dopo essere approdate in uno sperduto paesino della Valfortore, in Campania, per il festival di Teatri Giovani, INVENTO.

*

Caro diario, vorrei parlarti delle emozioni che ho vissuto, emozioni tristi…ma c’è sempre una persona, il maestro, che mi ha aiutato a superarle. Ho provato anche emozioni allegre che ho condiviso con i miei amici ma è il maestro che mi ha fatto capire che cos’è la vita. Io non sempre sono attento alla lezione perché penso a giocare e a volte parlo con qualcuno. In classe durante la pausa ci sfoghiamo per i pensieri inespressi e li cerchiamo di comunicare ma spesso non ci riusciamo. A volte sono confuso per le cose che il maestro propone; per riflettere, per metterci in difficoltà ma lui lo fa per farci crescere perché sa che noi ce la possiamo fare. Noi siamo anche molto sensibili e certe volte la sensibilità ci aiuta.

*

Ecco, rileggo e mi chiedo spesso: chi è inciampato in quegli ostacoli? Loro si sono scorticati un poco le ginocchia mentre la mia pelle è diventata sempre più sottile. “A volte sono confuso per le cose che il maestro propone”…
A volte agisco come un guerriero che si lancia nel campo di battaglia con la corazza che gli cade a pezzi, e più avanza più sente le frecce che gli sfiorano la carne: la resistenza dei bambini, l’incomprensione degli adulti, l’indifferenza della grande maschera che se la ride, guardandoci tutti, perché sa che fra poco niente di questo sarà consegnato al tempo ma solo a un ricordo svagato, archiviato …
Sopra ogni classe aleggia sempre la grande maschera sghignazzante di un grande burattinaio. Ma che cosa dovremmo dire allora? “Sentite bambini, oggi non si fa lezione. Oggi si esce e si gioca in giardino tutto il giorno. Costruite tane sui rami, dentro il tronco degli alberi, scavate una buca e create sette di poeti estinti. Fate come in un film che non vi ho fatto mai vedere per timore: inventatevi un terribile signore delle mosche. Siate selvaggiamente liberi”.
Di questo si tratta? Di diventare selvaggiamente liberi? Anche in questo caso la maschera sghignazzante si burlerebbe di noi, perché lei ha persino previsto il gioco del non esserci, dello starsene a parte, diversi, come quel ragazzino appollaiato alla sua finestra, visione di un barone rampante che si rifiuta di scendere sulla terra e si crea un mondo alternativo di rami e alberi. E infine? Che succede a quel ragazzino, INFINE?

*

Non ha particolari caratteristiche; è un angelo buono quando dona; quando vuole, perdona, non litiga e si commuove. E’ fragile, pieno di pensieri racchiusi come una prigione. Ci vuole una chiave per farli uscire, ma la chiave bisogna procurarsela, cosa che il mio angelo ha difficoltà a fare. Il mio angelo rabbioso è quando si arriccia le labbra perché è andato male qualcosa, difficilmente piange ma se ha coraggio lo racconta, così si calma. Ma ci pensa e ci ripensa, come a qualcosa di indimenticabile. Il mio angelo è diverso dagli altri, è quasi come me. Il mio angelo non cambierà, resterà sempre così come sono io.

*

Proiezione di se stessi. Angeli: altri noi stessi, probabilmente quelli veri, che ci abitano accanto. Senza ali, e neanche senza desiderio, con quella faccia finale e assoluta del bambino che siamo stati e che ci permette di crescere solo quando la vita lo farà addormentare. Senza più debiti, se ne abbiamo ancora da scontare. Infanzia resa, finalmente.

*

Caro diario, oggi ho un po’ di paura perché appena sono entrata in classe ho visto il maestro arrabbiato. Ora dentro di me mi sento sola al buio. Guardo fuori le nuvole che danzano libere e io invece rinchiusa con i miei sentimenti, penso alle cose brutte del passato e agli innamorati di san Valentino o alle meravigliose famiglie. Ho tanti pensieri ma in questo momento anche emozioni. Il maestro ha messo una musica che mi fa pensare alla tranquillità ma questa musica è falsa perché non è così il mondo. Adesso il mio spirito mi parla e ho ancora paura, come gli alberi fuori dalla finestra, spogli, marroni, secchi. Il cielo è azzurro come gli occhi di un bambino che è morto nel passato, l’erba verde come i vestiti che si stracciano e si buttano per terra. La musica cambia, adesso non è più falsa. Il maestro è più tranquillo perché sta vedendo la tranquillità in noi. In questo momento sono tranquilla come le nuvole che danzano, i miei sentimenti mi fanno sentire protetta, ho acceso la luce, ho aperto la cameretta perché ho detto tutto.

*

Spesso i bambini mi descrivono come una persona arrabbiata. C’è un bambino, quest’anno, che mi rivolge lettere piene di affetto e in cui sottolinea ciò che gli appare chiaramente dal mio viso. Non posso permettere di farmi vedere dagli estranei mentre sono in classe, di farmi giudicare per ciò che appare. Solo i bambini e le persone che ti conoscono bene possono dire qualcosa di te. Forse questo bambino mi sta dicendo che sono stanco…
Ecco. Farsi vedere. Una collega, l’altr’anno, mi rimproverò che i bambini della sua classe ora avevano paura di me perché avevo urlato. Le dissi che mai i bambini hanno avuto paura di me e che la loro pietà è infinitamente più grande di quella degli adulti, della loro specialità a giudicare le persone da una parola, un’espressione, un gesto fuori posto. Ci fu uno scontro.
Quando ti vedono in difficoltà, i bambini si avvicinano e magari ti scrivono che ti vogliono bene e che sei il maestro più gentile del mondo. Come mai? Cosa sa cogliere lo sguardo di un bambino che l’adulto non può più? La pietà e la comprensione? Il non appartenere ancora totalmente a questo mondo?
Si sente, poi, in questo testo, la negazione della falsità, dell’ipocrisia del mondo: “la musica è ma”… Si può, allora, in una classe, far finta della falsità del mondo? Sì può giocare a immaginare che esista, o che non esista ma solo nella finzione della teatralizzazione e nel rispecchiamento. Ed è il maestro lo specchio del mondo, con il suo giocare a nascondersi, ad arrabbiarsi, a farsi rincorrere. In questo modo i sentimenti saranno esercitati a sopportare la violenza delle borse, dei governi, delle gerarchie, delle armi delle bestie interessate solo a negare la vita.
Chi mi insegna veramente ad essere libero? Certamente nessun adulto, né tantomeno un maestro! Non s’impara la libertà. La libertà si può solo esercitare con un gioco. Accanto. Perché niente avviene senza rispecchiamento: è legge naturale dei neuroni a specchio, della necessità biologica del rivedersi nelle forme che ci sono più simili, senza le quali non sappiamo che strada prendere se non quella di un desiderio represso e mai portato a compimento, alle porte di un grande Nulla che già è pronto ad abitare il nostro futuro. “Ho acceso la luce, ho aperto la cameretta perché adesso posso dire tutto”…

*

I pensieri sono lacrime dolorose
Il cuore è forte ma non c’è
Come le lacrime
L’uomo si trova su una strada quando piove
Lui sembra che è felice ma non c’è
Cuore senza lacrime
Il tempo passa e la scuola finisce

Gli uomini passano
La vita è semplice
Il cuore brilla di una vita
Che non cambia
Ma il maestro è sempre lo stesso
Piccolo pensiero che non cambia mai
Vivere con una madre e poi
Non vivere più la vita
E il pensiero di vivere da solo

*

Queste parole sono di un bambino che non sapeva scrivere, i suoi testi erano mozziconi di parole, di frasi sgrammaticate, e questo testo è un puzzle.
Ma io ho sempre pensato che dietro la scorza ruvida di un testo c’è già una voce balbettante e riconoscibile. Non è un testo riscritto, ma un testo ripulito, ed è quello che dovrebbe fare un insegnante. Ogni cosa cambia, perfino la madre, ma un maestro c’è sempre. È chiaro che anche i maestri se ne vanno, loro per primi, ma la parola si costruisce nell’istante minimo del gesto, in quel preciso momento in cui qualcosa, o qualcuno, ti accompagna. La scrittura avviene sempre quando siamo vicini, anche se percepiamo la solitudine del gesto. Perché, chi è vicino, non sempre si vede.

*

L’angelo della morte è metà bianco e metà nero. Ha gli occhi accoglienti, come una calda casa. Non ha naso, né bocca umana. Vestito di rosso, ti entra nel cuore e ti trafigge come il bacio di tua madre. Rimani immobile e dopo piangi. Ha una lunga veste. Rossa. Nera.

*

A volte qualche adulto mi diceva: “Sono tristi questi testi. Sembrano appartenere a bambini più grandi…” È vero. Ma è vero anche che le età della nostra vita si sommano e che siamo contemporanei solo in parte. A quale altra età è contemporaneo, allora, un bambino? Lui che vive ancora la scorza informe di un’età in cui la stella non si è totalmente liberata del suo involucro?
Io credo che il bambino, più che l’adulto, senta il rischio della separazione e della perdita. Come se il corpo potesse improvvisamente retrocedere, come un piccolo animale che si oppone ferocemente a una forza bruta e grida il suo desiderio di sopravvivere nel mondo. Così quando un bambino ti prende con immagini forti, è perché non avverte il peso della censura dell’indicibile, lo affronta con l’innocenza e la sprovvedutezza delle bestie; accoglie in sé parole che nessun maestro gli potrebbe mai insegnare… “ti entra nel cuore e ti trafigge come il bacio di tua madre”…
Quale può essere la reazione di un adulto dopo aver letto queste parole? Una certa misura dell’allarme, certo.
Ma cos’ha questo bambino?
Niente psicologia, per favore. Alla larga!
La mia semplice risposta, piuttosto: “E’ sano, è sano più di altri, perché sa ascoltarsi”.

*

Un angelo che non va e non torna
sta fermo, ti segue
non parla a nessuno
se non a quelli che conosce
o quelli che vuole conoscere.
E’ un suono che si trasforma in voce
che rinuncia un po’ a sé per difenderti
anche lui ha bisogno di difesa, come tutti
anche lui ha i suoi amici
li va a salutare, parla, stanno insieme
e poi torna, come tutti.
Alcune volte ti dà consigli che non vuoi
ma non è questo che fa la differenza
è quello che succederà.
Vola nei pensieri
vola nelle idee, vola, vola.
Non è un angelo bello e buonino
che non fa male a nessuno
anzi, a volte ti fa del male, ti ferisce
e non è importante ciò che dicono gli altri
ma quello che dici tu, e lui.
La cosa più importante che ti arriva
è il suono che si trasforma in voce.

*

Ecco il bambino formica. Ecco il bambino cicala.
Ecco il suono che si trasforma in voce. Ne ragionavo stasera, con il mio amico Luigi Cannone. Cos’è la voce? Ed ecco la risposta: “il suono che si trasforma in voce”. Soffio, pneuma, musa, angelo….sono così diverse le risposte di queste importanti entità poetiche da quelle di un bambino? E non è che le grandi immagini della storia, i grandi pensieri, non si siano veramente formati nell’età in cui le cose, per spavento, dovevano avere il primo nome che le trattenesse? Le Erinni trasformate in Eumenidi. L’inenarrabile che ha nome perché altrimenti ci trascina nella non storia, nel non detto, nel non dicibile.
Allora questi angeli, come diceva Rafael Alberti, ci appaiono come le radici quadrate dei nostri pensieri; sono le possibilità, sono gli sguardi leggermente strabici che imprimiamo sulle cose, quella possibilità che dà la poesia di rimettere a posto lo stravolgimento sociale, il patto condiviso per cui la cosa è la cosa, e non è la cosa della cosa.
Eppure la cosa, nella sua apparente immobilità, fermata nell’istante della nostra breve percezione – perché tutti la possano condividere per ciò che è – è esperienza soggettiva, altro dal nostro sguardo e dallo sguardo di tutti. Quante volte posso descrivere un albero? Quante volte è possibile dire che quell’albero esiste nella solitudine della sua esistenza e che questa solitudine può specchiarsi nella mia come se io e l’albero fossimo due fratelli che si riconoscono? Uno angelo dell’altro.
Tutto è udibile abbassando il velo di Maya. Il mondo dorme e noi lo svegliamo alla vita della parola tutte le volte che ci mettiamo a osservarlo con lo sguardo strabico della parola e dell’arte. Perché tutto, nell’arte, è parola strabica. E questo miracolo avviene già nello sguardo di un bambino.

*

IL MIO ANGELO è
quello che mi dice
quello che parla
quello che ha pazienza
quello che mi aiuta e aiuta
quello che vuole
quello che vuol bene
quello che mi manda avanti
quello che mi fa affrontare i pericoli
quello che ama.

Quello che perde la pazienza
quello che è gioioso
quello di mille colori
quello che non si ferma
quello che è timido
quello che si ferma
quello che mi dice: “tu sei stupida”
e che manda giù tutte le lacrime.

*

Cercami, in qualsiasi momento; nell’odio, nel dolore, nell’amore, nella felicità, nella gioia, nei tuoi pensieri, nella speranza. Non abbandonarmi mai, non tradirmi mai. E infine: non ingannarmi mai. Io sono qui, sempre, in questo luogo che tu chiami vita. Ma la vita non finisce mai, neanche quando tu ridiventi l’angelo che eri.

*

Non so più ricostruire, è chiaro, la genesi di questi versi. So che vengono dalle poesie di Rafael Alberti, ma non so più dire che cosa sia successo prima, nel frattempo, e dopo. Il dopo, in realtà, non interessa. Il dopo, soprattutto a scuola, non interessa a nessuno perché si ricomincia sempre. Il dopo spaventa, ridicolizza tutto ciò che abbiamo fatto, per cui, spesso, abbiamo perso il sonno e la pazienza. Perché, al massimo, possiamo solo inseguire con la memoria le labili tracce del nostro operato; l’essenziale che rimane, fuochi fatui che si sono dispersi nella notte che accoglie tutte le cose future.
Eppure è l’idea del dopo che spesso fa la differenza, che ci separa dall’innominabile. E’ il dopo che ci costringe a nominare ancora a costo di vedere le cose come non ci piacerebbe vederle. Succede quando vedi i bambini che si stanno facendo ragazzi, quando ti vengono ancora a trovare o quando li hai seguiti per anni; vedi i loro pensieri cambiare, il cominciare a dimenticare, a immergersi nel grande velo del mondo, a ritrovarsi cambiati dentro lo stesso corpo, a idealizzare la vita che è già stata. Il dopo è ancora cercarsi, ritrovare, forse, l’angelo che eri, perché la vita non finisce mai, ricomincia sempre.
È, centrale, forse, l’intuizione della presenza, ormai fuori dal tempo, di un porto sepolto e custodito dove il tradimento non era contemplato, dove tutti i sentimenti potevano esprimersi senza essere giudicati, senza dover pagare il pegno alla comunità che ancora, in qualche modo, garantiva la nostra formazione.

*

IO VI RIVELO CHE NIENTE,
E DICO NIENTE, E’ IMPORTANTE QUANTO
LA VITA.
IO VI DICO CHE
OGNI OROLOGIO SEGNA IL TEMPO,
MA IL MIO NO.
IL MIO OROLOGIO SEGNA LA VITA
E IL RESPIRO.

IO VI DICO, NON UCCIDERE…
…MA CREA.
UNA CLASSE STA VIAGGIANDO,
VIAGGIANDO, VI DICO,
VIAGGIANDO DOVE SOLO
IL PENSIERO PUO’ ARRIVARE.

*

Eppure Witmann non l’ho letto a loro. Ho sempre avuto paura di Withmann perché la sua energia non ha forma ed è troppo sensuale. Nega il funereo della vita, la sua implosione quando le forme si contorcono perché hanno paura di sparire. Witmann è un fanciullo, ma senza la puerilità di un fanciullo e con tutta l’esuberanza erotica del fauno. È un Rimbaud senza il rancore finale di Rimbaud; la Nazione all’inizio; un esercito di formiche con un unico cervello esplosivo; è LA CLASSE CHE STA VIAGGIANDO DOVE SOLO IL PENSIERO PUÒ ARRIVARE, come un unico cuore che avanza, concorde, verso l’indefinito cammino di un appartenere, per destino, al mondo di tutti, ma con la volontà dell’infanzia di non seguire il tempo dell’orologio.
Questo bambino ha scritto il suo testo tutto in maiuscolo, con i caratteri cubitali dell’affermazione nel mondo, della presenza che non vuole assoggettarsi alla necessità della massa ma solo al tempo della vita e del respiro.

*

O angelo che il male pensi
sia la carezza di una cosa.
O angelo che il bene pensi
sia la carezza di un cuore che pensa

Il pensiero ti circonda
La strada che dagli occhi passa dalla bocca

*

Una nuova vita, una vecchia vita, l’ultimo respiro, qualcosa di lungo, immenso, due buchi, aria, il respiro del vento, un linguaggio da comunicare, brezza, tante lettere per descrivere una parola, il respiro del mare profondo, il respiro di una nuova era, tempo, parole, per descrivere, il respiro universale, un’ombra, un respiro inesistente, buio, qualcosa che non si vede. STA TUTTO NELLA MIA TESTA, CUORE.

     

__________________________

[1]    Un verso di Piero Jahier.

I testi proposti sono tratti da FRAMMENTI DI MAESTRO, un libro ancora inedito di Sebstiano Aglieco.

          

Lewis Hine, "Jo Lehman, 7 anni, venditore di giornali, New York", luglio 1910, in apertura "Ragazzo che porta cappelli", Ney York, febbraio 1912, Met Museum
Lewis Hine, “Jo Lehman, 7 anni, venditore di giornali, New York”, luglio 1910 – in apertura “Bambini in fabbrica n. 440”, Sud Carolina, 1908, Met Museum

15 thoughts on “Frammenti di maestro, editoriale di Sebastiano Aglieco”

  1. grazie all’autore per il dono che ci ha fatto con questo articolo veramente profondo, acuto e commovente.
    grazie grazie

  2. Sì, un articolo che tocca la questione dei cuori di poeti e bambini, fratelli, sempre sottovalutati e al margine delle decisioni, quelle le prendono “i grandi”. I poeti e i bambini viaggiano altrove. Soffrono a piccole (o grandi gocce), con quel riserbo che li rende un po’ invisibili e un po’ liberi. Di che? Di restare poeti e bambini, il più possibile. Grazie, Aglieco. Attendiamo il libro.

  3. Occorre essere angeli con le ali nascoste nella giacca per essere veri maestri. Rari, come Sebastiano. maestri che non insegnano, ma accompagnano con sensibilità le “persone in crescita”, facilitando la limpida espressione del sé, prima che il velo delle sovrastrutture lo renda opaco. Un maestro che di fronte alle spiazzanti parole dei suoi bambini rimane in stupore e continua a tenerli per mano, rendendoli consapevoli della loro libertà, della loro infinita ricchezza creativa. Solo così si spiega questa scrittura di pensieri incontaminati, di verità potenti.
    Annamaria Ferramosca

  4. Io non ci credo, alla costanza dell’esercizio. Credo solo alle parole e prima di tutto, all’esperienza. E’ vero, crescendo a poco a poco, alle cose importanti, alle esperienze costruttive si sovrappongono le necessità, prima fra tutte quella di vivere per come ce l’hanno insegnata. Ma bisogna che ci siano i maestri. Quelli come te o i semplici passanti, e comunque qualcuno che ci ricordi di continuo quanta potenza risiede nelle parole. Ci vuole qualcuno che ti acchiappi almeno una volta nella vita e ti racconti perchè leggere, e scrivere è una cosa che ti appartiene e che non devi mai abbandonare. A chi questo è stato negato la vita risulta una prigione.
    Un maestro deve aprirti una porta nel cuore, deve consegnarsi al maestro che c’è dentro ogni bambino, e custodirlo quando la scrittura farà male; spiegargli che in realtà sta crescendo.
    I bambini a una certa età, quando cioè capiscono che gli adulti spesso e volentieri li temono, sanno che presto dovranno crescere, per somigliare un pochino di più a loro. E a questo oppongono una forte resistenza, quella che li porta ben presto a interrogarsi sulla morte. Perchè sanno che quel momento, quello di crescere comporterà un pochino anche dover morire.
    Chi questo può esprimere, ha già avuto un gran dono.
    Grazie di averlo fatto. Il tuo lavoro non si perde.
    Gabriella

  5. Trovo bellissimo questo editoriale e ne scrivo mentre lo sto ancora leggendo. Sono ancora a metà. Ma è qui il punto giusto: poi non ne scriverei più, per qualche ragione. Colgo dunque l’occasione al volo, a mezz’aria a mezza via, come vuoi. E ti ringrazio. Poi sarebbe troppo tardi. ….Lo chiamerei forse “gli angeli della poesia”, angeli (annunci) balbuzienti, strabici, soprattutto plurali, le cui ali sono ancora solo gemme, non possono pertanto rimanere impigliate in quella “tempesta che spira dal paradiso” che trascina l’Angelo della storia di Klee-Benjamin….e non vedono solo rovine. Forse ti scriverò ancora e forse no. Questo pezzo comunque vale molti trattati di poetica: ne sono sicuro.

  6. Gentile Giuseppe, grazie. Io sto cercando di pubblicare il manoscritto intero, ma gli editori che si occupano di faccende di scuola sono interessati ad altro ….

    1. Non ti arrendere! Maestro, Poesia, Bambino sono parole meravigliose, ma anche meravigliosamente lontane dalle logiche dell’editoria moderna. Mi schiero dalla tua parte (ma quanti siamo…?).

  7. Sono sicuro che riuscirai a pubblicare presto questo scritto. Comunque, qualche tempo fa ho pubblicato un libro da Liguori e lì ho qualche conoscenza. Se vuoi posso proporglielo.

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