Ghirlande sacre e profane, inediti di Mario Fresa con una nota introduttiva di Rosa Pierno.
Far precipitare il tempo, con tutti i materiali esistenziali e gli oggetti concreti, in un catino e osservare i nuovi legami determinati da tale casuale caduta, la quale avvicina ciò che sembrava non connesso, ricreando, questa volta, il senso di una indeterminazione, è ciò che caratterizza la nuova ricerca che Mario Fresa sottopone ai suoi ammirati lettori. Non si parlerà per questo testo di una riattualizzazione del mito di Orfeo, declinato al presente, vicenda che s’intreccia con il vissuto del poeta Fresa, ma di una scrittura che sa gettare sul tavolo da gioco tutti i materiali e da lì ricominciare per costruire con magistrale perizia l’epopea di un singolo individuo nell’età contemporanea. Il valore dell’operazione – che vuole attestarsi al livello dell’Ulisse joyciano (e non solo per certe marche disseminate nel testo come il “luogo-viso”) – è vertiginoso per più rispetti: anzitutto, la modalità di un pensiero che tutto afferra e coordina per vie impensate. Il lettore è chiamato allo sforzo che la vera letteratura esige: il lavoro della mente, la quale coordina ogni cosa formalmente tramite lo strumento linguistico, rispetto alla selva del reale, in cui noi agiamo come palline all’interno di un flipper, è qualcosa che va continuamente costruito e compreso nel suo farsi e che va continuamente smontato, perché nulla deve sedimentarsi, senza ricevere nuova linfa. Nulla viene abbandonato, ogni materiale è ribattuto nella fucina linguistica. Il registro sostenuto e il registro del linguaggio comune si trovano allineati e intersecati al punto da non far percepire dislivelli, allo stesso modo in cui il mito convive con il prosaico, con un quotidiano non solo imbibito da azioni di poco rilievo, quanto fronteggiante questioni filosofiche (dalla democrazia all’economia, dal sistema dell’arte alla presenza dell’infanzia nell’adulto). Sulla superficie del piccolo lago che tutto assorbe si formano immagini cangianti come quelle dell’aurora boreale, mentre manubri di bicicletta e rami fuoriescono dall’acqua, ergendosi dai detriti accatastati sul fondo: è lo schermo della poesia. RP
Mario Fresa è nato nel 1973. Ha pubblicato le seguenti raccolte di versi: Liaison (2002, Premio Giusti Opera Prima); L’uomo che sogna (2004); Alluminio (2008); Uno stupore quieto (2012). Ha curato varie traduzioni dal latino e dal francese e ha collaborato alle riviste «Paragone», «Nuovi Argomenti», «Caffè Michelangiolo», «Gradiva», «L’Almanacco dello Specchio».
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Ghirlande sacre e profane
1.
Orfeo ha vinto Plutone, chiedendogli con tenerezza: «Ma come siamo nati?». Gli abbellimenti sono più lucidi che mai, e poi fioriscono sempre, come la lotta tra Jacopo e Giulio, tra il 20 dicembre e gli inizi di febbraio. Decisi di scivolare, senza dirlo a nessuno, in mezzo agli Obbedienti che dormivano già da qualche ora. Li carezzavo a ripetizione: così mi rispondevano, dal profondo della loro lingua, con un sorriso da statue semi-viventi, colte in un raro momento di confidenza. Si ricordarono, allora, delle piccole piaghe nascoste proprio sotto i polsini immacolati, dei cuori delle spose conservati in una vecchia scatola dal taglio lunato, sulla quale, da mano ignota, fu aggiunto con la penna: Ti amo, nonostante i pettegolezzi. La strada è segnata da cortesi frasi di incoraggiamento, da mani dolcemente piegate dal tuo soffio canterino, dallo sciolto mulinare dell’incendio che si produce quando si apre, come un prezioso libro di offerte, una profonda attesa o quando, senza capire perché, si ascoltano domande misteriose: «Oh, come sarebbe, e per quale motivo?»; «Ho capito proprio bene?»; «Ma dorme o finge?». Discendiamo. Si cerca un po’ di pace tra i cerchietti luminosi di questa partitura. Sono carico di pesi, ma resto fuori, fuori da te, colmo di gioia, sulla balaustra pazientemente costruita dai servi innamorati, trasformandomi, per te, in un lustrale cibo da divorare in pochi istanti. Taglieremo l’ingorgo delle Ombre. Ognuno è un mendicante. Ognuno, prima o poi, vuole vederti.
2.
In mezzo c’è la solita figura del padrone. Davvero ti dice: «io sono come un soldatino». Cioè sei quasi una giornata lunga, o un respiro toccato in silenzio dal dio geloso? Mentre si libera, allora, torna in albergo come se niente fosse e scivola in un bianco freschissimo. La risata iniziale ha cancellato, infatti, certe inutili premure: vuoi suonare o rimanere giovane, gli dico io? E questo frequentarsi così? La famosa prima maniera io l’ho da subito preferita, e lo sai bene; e se non avessi chiamato, io… Giacca sulla spalla e niente complicazioni. Il Governo si interesserà delle nostre prove e farà finta di nulla, come sempre; e sarà meglio così. L’intervista, perciò, la gestirai come vuoi tu. E se ti ha portato lontano, sbagliando direzione, ci sono sempre i famosi vasi cinesi da atterraggio; più cortesi che utili, le loro poche funzioni, e pronte a rovinarli presto, quei ragazzi, lasciando quasi sempre, al telefono, una risposta ambigua: come un bambino che fa il modesto e ti tiene prigioniera nel salone di una battaglia appena cominciata. È l’ora in cui i diamanti gridano al sortilegio. I disegni, malamente attaccati alla parete, noi li guardiamo solo per ridere. Devo pensarci io. Le talpe, come ricordi, non conoscono i saldi di fine stagione. I poveri sono timidi come i ciliegi. Infatti mi ripeti che non esistono gli uomini anti-urto, soprattutto nelle case più antiche delle altre: quelli, cioè, senza domestici e senza le strane preoccupazioni della nostra collega Tina e dei suoi cinque bambinetti cattivi: c’è un traffico assurdo di future misericordie, di collegi mai risolti; più facile è comandarci se siamo amici. Le piante si nascondono sotto il perdono che dici di accordarmi. Ma non ti credo. Altrimenti, si capisce, tu non cammineresti piegato e non ti specchieresti, ogni volta, sulla vetrata del ristorante: e se non me lo dico io che sono bella, chi me lo dice? Dovrei mica aspettare gli altri? Come previsto, l’altro sorride perché ha inteso il nostro interesse per la pittura. Se non rido, vuol dire che uscirò prima del previsto. Be’, non si preoccupi: con un nome così, è davvero l’ideale, per lei; e poi si presta a molti giochi di parole: dai Germani alle membra, dall’ingorgo alle cornamuse; eccetera eccetera. D’altronde, saprai bene che in mezzo alle levatrici, come racconta lui, c’è sempre il diavolo a spiare; perché, semmai, non si fida della sua verginità. E allora si spiegano molte cose. Ma insomma: come la ami, tu, la democrazia? Studi poco, non sai cos’è un voto? Ma io preferisco la clausura alle elezioni. Furore e debole violenza. Con una roba del genere, mia gentile, ci affronteremo di petto, noi tre, solo una volta: ma quella buona, però.
3.
L’osservazione è più precisa, come vedi, quando sei stanca. Si disegnano, adesso, in lontananza, le forme delle coppie lanciate in corsa coi loro panni freddi e immacolati, e i sandali scintillano sui fianchi delle spiagge; le donne, così accucciate, si ritrovano a commentare, quasi ridendo, i quadri dell’augusto Tommaso: si entra nelle case borghesi come un dipinto feroce, noi due, per governare i triangoli dei pettegolezzi, l’aria ferma degli sguardi, l’oro incatenato della lotta per l’ultimo posto riservato ai più sciocchi, ai più storditi; dunque, ai più fortunati. La sera stessa si era persa la testa. Troppi mercanti, colpi d’occhio selvaggi, fischi sordi, gorghi dell’immensa preghiera che risalivano su, verso il soffitto nero e massiccio, dove tutti ammiravamo Circe e la sua truppa così poco vestita, mentre i Vigili severi volevano multarla, senza se e senza ma! Allora va’, le dico, madre mia, cammina, riunisci queste nerissime nuvole che intorbidano l’amata tua costellazione e fammi un po’ sapere cosa dicono i bambini di oggi, quelli che sanno scegliere presto e bene, ma scrivono confusamente il loro nome sopra le etichette e si dimenticano, poi, di richiamare il loro padre rimasto chiuso fuori casa, per errore o forse no; e allora i Funzionari, solo per questa distrazione, hanno gettato via, senza rispetto, gli involucri dei loro corpi che all’improvviso esplodono e poi ci fanno nascondere e fuggire per la vergogna di non aver saputo fare nulla, proprio nulla per salvarli, per avvisarli almeno….
4.
Come puoi vincere, prosegue lui implacabile, contro di te? D’accordo, mi ripeto, è durato un mese e mezzo; alle mie amiche farà tanto piacere. Se restiamo, però, dovremo affrontare una mandria di animali ignoti che si chiamano, ad esempio, Bruno e Maria Luisa: siamo il solo colosso che può avere qualche speranza di ridarvi la vita. Al loro fianco, il bimbo grida e muove un po’ la testa sulla bici rubata al fratellino: tra la casa e l’ufficio, mi ripetono facendosi l’occhietto, siamo quasi felici nella nostra solitudine, lo sai? Però, subito aggiunge, me lo prometti che rimarremo amici, che non ricorderemo l’altro o l’altra con un odioso sentimento? O isola mia chiara, così bollente, così nemica, così ammonita. Questi si chiamano fatti! ed è per questo, credo, che ti viene proprio da piangere quando ti parlo di certe cose.
5.
Tutto il mondo culminante che lui sente privato, come un dovere compiuto, mescolando ciò che dice tua madre nel ripensare che la mano non fu respinta: su cosa ti posavi? Qualche sola tranquilla faccenda per te, animella, così crudele e trascurata: quindi morte ci guarda e ci numera, come i nostri nemici? Fare politica, noi due, ma che, scherziamo? Non so nemmeno se sono arrivati. E qualcuno vorrebbe intervenire, risarcire, togliere tutto di mezzo in una volta: cancelliamo queste inutili tue resistenze, e così saremo amici. La distanza è un discorso più complicato, e non so, guarda, se poi ti piace parlarne un po’ al telefono (ma come: gli animalini sì, e la questione di quella specie di appuntamento al buio, no?). Si è deciso che rimarremo qui: batteremo più lontano, rotondissimi: semmai, ci spieremo solo così, dal centro al bianco; pare incredibile, ma forse sarà più bello davvero, in questo modo… Lo vedi che il caldo non ci impedisce di? Lasciale andare e non guardarle con timore. Anche se chiedono, gli arriveremo più vicino, al violento colore che investe lui e te, e allo sfondo che già dall’interno ci immagina, vedi, quasi sottili e bruni, coi bambini che sorridono e che d’istinto, come in un’auto-antologia, ti riconoscono come piccoli sosia, o come tetri uccellini minori, in una continua mutazione di affetti che sono diventati più tranquilli e misteriosi, in questo sguardo-universo, quando alziamo la testa e dice: ma insomma, lo possiamo portare, sì o no, il secondo? Lei lo distrae, signora. Tu giustifichi e tuttavia, com’era prevedibile, quello capisce poco o niente. Nemmeno io, se è per questo. Alla fine, l’uno e l’altro si spingono come acute bianchissime linguette e poi guardano attente, nella sala, se per caso ci riconosce qualcuno, che ne so, che poi domani ripeterà dirà: hai visto, è? Dalla cuccetta alla carta? Si fatica, riversi, però anche ridendo un po’ di noi, della fine di agosto: e chi glielo dirà, chi lo potrà spiegare? Tu non sarai felice. Salire e carezzare il luogo-viso. Desidero ancora misurarti con le ali, nell’aria eterna e lucidissima che per il troppo calore ci paragona ai rami, alle strade che non riconosciamo se non si cade all’improvviso, sull’incendiato ricordare disperato, sul caldissimo fogliame che contrasta col chiarore della tua mente che sorride.
Molto interessanti questi testi di Mario Fresa. Sono d’accordo certamente con Rosa Pierno, ad esempio quando parla di “una scrittura che sa gettare sul tavolo da gioco tutti i materiali e da lì ricominciare per costruire con magistrale perizia l’epopea di un singolo individuo nell’età contemporanea”. Ma quali materiali? Certo quelli di un “pensiero che tutto afferra”, ma anche sicuramente quelli sedimentari dell’esperienza personale e della cultura dell’autore, comprese le certo numerosissime letture. Perché dico questo? Perché leggendo queste prose (in prosa?) o prose poetiche ne ricevo una sensazione suggestiva: come di una sorprendente collazione (quasi un cut ‘n’ paste) di brani tratti da una narrativa fantastica, da romanzi apocrifi (o forse veri, vai a sapere) o racconti che avrebbero potuto essere “stilisticamente” proprio così, oggi come in un qualche allora (in me, insomma, echi, echi di certa letteratura italiana del dopoguerra e oltre). Bravo Mario.
avevo lasciato un comento ieri ma non o vedo. Sapete che fine ha fatto?
Era nello spam… ora l’abbiamo recuperato e è visibile. Ci scusiamo per l’inconveniente.
La redazione