Gli obbedienti di Francesca Del Moro, Cicorivolta ed. 2016, recensione di Sergio Rotino: appunti su obbedienza e delazione.
L’universo lavorativo ai giorni nostri. Un coacervo di angosce, privazioni, ricatti, paure cui sottostà il corpo e la mente di chi lavora, senza trovare sostegno alcuno. Un universo in cui è lampante, prima di ogni altra cosa, la perdita di orizzonte da parte del lavoratore. Una perdita cui ne segue un’altra, quella della dignità dentro e fuori gli uffici e le fabbriche. Perdita ben stigmatizzata da Francesca Del Moro lungo tutto Gli obbedienti, sua ultima raccolta in ordine di tempo (Cicorivolta edizioni, 2016).
Ma prima di ogni cosa, dietro i novantacinque testi che compongono questa frastagliata narrazione in versi, quasi una dantesca discesa agli inferi, è possibile leggere quella che possiamo chiamare “la rinnovata ambivalenza dell’arbeit macht frei”. Il motto faceva belle mostra di sé a Dachau, Auschwitz, Flossenbürg, Gross-Rosen, Sachsenhausen e Terezin. Lo si ricorda campeggiare sopra l’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz. In ognuno di questi luoghi esso negava apertamente il suo significato. Ora, lungi da proporre diretti parallelismi fra i testi de Gli obbedienti e lo sterminio di ebrei, zingari, omosessuali, oppositori politici perpetrato dalla follia nazista, quello che la raccolta propone è proprio l’uso della frase in ambito lavorativo, con le stesse coordinate. Lungo l’intero arco del libro essa viene cioè caricata di un continuo, doloroso constatare quanto torni a essere beffarda l’affermazione che il lavoro rende liberi.
Primo Levi scrive: “il disconoscimento, il vilipendio del valore morale del lavoro era ed è essenziale al mito fascista in tutte le sue forme. Sotto ogni militarismo, colonialismo, corporativismo sta la volontà precisa, da parte di una classe, di sfruttare il lavoro altrui, e ad un tempo di negargli ogni valore umano”.
Lo vediamo accadere nuovamente nella nostra contemporaneità proprio sui luoghi di lavoro, in forme ancora meno trasparenti e per questo più perniciose. Oggi come oggi l’arbeit non rende liberi, non strappa al genere umano le catene della povertà anzi, nei modi più incredibili esso lo rende più povero, economicamente e moralmente. Trasforma gli uomini in un branco di succubi. Peggio: la dinamica dell’attuale sistema di precarizzazione, li rende schiavi, ci trasforma cioè in merce fra le merci. Siamo disposti a tutto pur di avere una minima stabilità, siamo disponibili a essere acquistati al minimo prezzo. Una guerra fra poveri, fra disperati, che porta alla diffidenza verso i nostri simili e sui luoghi di lavoro prepara alla delazione intesa come sola via per la sopravvivenza. In un’epoca para medioevale (ma tecnologica), l’uomo si sposta dunque verso l’abiezione, si contrappone al resto dei suoi pari in uno scontro uno contro tutti. Lascia da parte il capo, attacca chi soffre come lui.
È di grande, rapida efficacia la metafora che Del Moro prende in prestito da Adenauer per stigmatizzare quanto detto sopra. Gli uomini non sono più uomini, ma pecore. Come tutti gli ovini, ottusamente si lamentano, belano (“Anche se è nera/o vestita da lupo/sta in fila e bela.”); epperò sono tutt’altro che creature miti, capaci di solidarietà. Infatti anche se “Vanno insieme/senza guardarsi/con gli occhi torvi/volti in avanti/i dorsi sempre/proni ai bastoni/i denti stretti/il passo deciso”, ecco che “in un attimo/ciascuna diventa/predatore o preda/del proprio vicino/in un attimo/ciascuno può finire/divorato dal branco/sono il risultato/di una mutazione/incredibile/sono pecore/pecore carnivore.” L’umanità non è più umanità. Agli occhi dell’autrice essa si trasforma nella “lunghissima coda/di una bestia mostruosa”. Ma la bestia è comunque l’umanità geneticamente trasformata oppure abilmente riportata indietro di secoli.
Schiavi assassini dunque, costretti da se stessi a essere tali; così legati dalla catena della disperazione alla propria scrivania da aver perso nel peggiore dei casi l’autopercezione di sé (“sei così schiavo/che neanche sospetti/di essere schiavo”), convinti di poter attuare ancora il libero arbitrio quando invece sono “cornuti mazziati e contenti”. In un verso Del Moro li descrive fortinianamente come “massa indistinta degli schiavi”, richiamando in ribaltamento gli schiavi che firmano Ringraziamenti di Santo Stefano in Una volta e per sempre. Schiavi tanto amorfi da essere certi che le parole di chi comanda non debbano essere mai confutate, anche quando ribaltano e nullificano l’equilibrio fra diritti e doveri. È l’ingresso definitivo nel mondo del lavoro di quella che si definisce “post-verità”, un virus letale capace di portarci ad accettare quanto viene detto pur riconoscendolo come pura menzogna. Un virus che spinge a credere giusto quanto in realtà lede la correttezza dei rapporti all’interno della società civile. Tramonta così definitivamente il noi che ragiona per il bene comune, sostituito da un io capace di pensare solo a se stesso, a quello che conosce meglio, che gli sta attaccato addosso: le proprie necessità (“Il saldatore appena assunto/e il muratore in pensione/discutevano in treno/di dignità sul lavoro,/di giustizia e rispetto.//Ed era tutto un proliferare/di prime persone,/plurale il vecchio/e singolare il giovane.”). È però da tempo che ognuno pensa per sé, che nessuno ha il coraggio di guardare alla comunità e lottare con e per essa. Senza dirlo apertamente, Del Moro butta lì con falsa leggerezza un evento e una data da cui “gli obbedienti” hanno preso il sopravvento: “Si guadagna molto poco,/c’è la famiglia e si sa/che chiunque ha bisogno/delle sue comodità.//Così ciascuno era solo/quel giorno a Mirafiori/davanti al proprio voto.”.
Probabile non sia con l’accordo del 2011 che ci si è spostati pienamente verso un tipo di pensiero egoistico, poi succube e delatorio. Di certo col referendum di Mirafiori si è sdoganato la possibilità di non mettere sempre prima di ogni cosa coscienza e bene comune, ma il proprio interesse certamente. Ancora più di ier l’altro, ci dice Del Moro in questa raccolta ricca di spunti e di rimandi, oggi non si è mai in torto quando si pensa “alle sue comodità” (“Raccontava tutto fiero che il giorno del patrono/molti non si erano presentati al lavoro./Ma lui, tra i pochi ad aver accettato,/si era alzato la mattina alle quattro.//Rincasando tra i bimbi con lo zucchero filato/e le coppie a passeggio con le bancarelle,/il tramonto era bellissimo come un regalo/per chi sa di aver fatto il proprio dovere.”). Perciò gli ideali non servono e possono essere riposti “come occhiali/nella custodia”, perciò si accetta che il padrone, pardòn l’imprenditore, ci declassi da uomini a massa amorfa (“e lui fa un largo gesto della mano/in direzione delle schiene curve e dice:/“Lei queste le chiamerebbe persone?”»). Siamo schiavi perché abbiamo accettato di esserlo. In cambio non abbiamo più nemmeno la certezza che quelle comodità così tanto desiderate ce le si possa permettere.
Resto molto perplessa. Mi pare di leggere un testo riferito alle giustificate rimostranze degli anni in cui non esistevano i sindacati, dunque direi nel IX secolo e metà del XX. Ma forse non ho capito… E’ certo possibile che sfuggano alle leggi aziende e industrie tipo ILVA, che poi producono scandalo e correzioni. E’ anche vero che mai sarà possibile un totale adeguamento da parte delle aziende e/o di qualsiasi datore di lavoro a tutti i diritti e bisogni del lavoratore, e dell’ambiente. Se poi ci si riferisce ai lavoratori nel mondo (non ho letto le poesie), certo siamo ben lontani dall’Eden dei lavoratori. Come siamo lontani (per fortuna) dall’Eden sognato da Lenin e Stalin. Siamo sulla Terra e in un’epoca in cui non avrei mai pensato né voluto trovarmi, io, nata durante la seconda guerra mondiale, e cresciuta a pane fatto in casa, lesso di scarto, vestitini rimediati, padre tornato dalla prigionia malandato e disoccupato a vita. Poi mi sono riscattata, ma che fatica! E niente è stato donato, regalato, né attribuito per “diritto”, secondo qualsivoglia ideale politico. Ho la pesante sensazione che mentre assisto al crollo dei comportamenti di ognuno verso gli altri, di un egocentrismo corrosivo e stizzoso, da parte di chi pensa ci sia un atteggiamento lamentoso, querulo, che gira intorno a soluzioni, che, ahimè, sarebbero troppo poco democratiche, al punto in cui siamo. Ma non ho letto le poesie. La copertina è bellissima, eccezionale. Forse lo sarà anche il contenuto !
Saluti.
A.C.