Historiae di Antonella Anedda, recensione di Luigi Paraboschi
Anch’io, come Roberto Galaverni che su “La Lettura” di qualche settimana fa – estrapolando questi versi dalla ultima poesia della raccolta- scriveva:
“E’ duro il cammino verso ciò che è chiaro,/ l’ho capito col tempo, forse è soltanto questo il dono/ di invecchiare “.
Vorrei partire da essi per riconoscere nella scrittura di Anedda una presa di coscienza del destino umano con occhi più disincantati, che la inducono a scrivere a pag.8:
“l’alba ci fa coraggio/ questa luce che sale ci spinge ad ascoltare/ dissolve ciò che deve, dice : ora/ comincia a perlustrare/ te per prima, scollando dalla mente la pelle del passato/ prendendo senza ira/ il tuo nulla tra le dita /.
Ho messo il grassetto a una parte del verso perché mi ha colpito la mancanza di ira verso noi stessi che è ciò che ci può permettere di sapere invecchiare con maturità e saggezza, e forse sta in questa dote di saperci perdonare, di non rivolgerci a noi con astio, di saperci accettare, la chiave per capire meglio tutto l’andamento di questo lavoro di Anedda che appare in libreria dopo tanto tempo di silenzio poetico.
In una poesia successiva, la stessa che figura sul frontespizio del libro troviamo:
“…eppure non ha senso/ rimpiangere il passato,/ provare nostalgia per quello che/ crediamo di essere stati./ Ogni sette anni si rinnovano le cellule :/ adesso siamo chi non eravamo./ anche vivendo – lo dimentichiamo /– restiamo in carica per poco// “
E’ il tempo ed il suo scorrere la principale ossessione di noi umani e per sentirci sollevati basterebbe dire con l’autrice:
“…che il tempo dunque non c’è e dobbiamo dire ora e poi/ solo per non impazzire, un anno dietro l’altro/ piegando i giorni dentro i calendari/ pensando i loro numeri appiattiti/ quando invece ronzano pieni di larve e miele “
Credo non sia la rassegnazione alla condizione umana quella che la spinge a usare queste parole sconfortanti, bensì la consapevolezza che già si poteva intuire dalla chiusa dell’ultima poesia del suo primo libro “Residenze Invernali,” del 1991 ove scriveva:
“in nessun tempo c’è bisogno di noi/ le notti verticali/ e il viale dei tigli, la lepre/ trasparente nel cespuglio/ la schiena-ombra di chi allora sostava/ ora soffiano stanchi/ sulla tempia del secolo”
Ma se allora c’era ira in quella rassegnata rinuncia, e una sorta di sofferenza silenziosa in quel “non c’è bisogno di noi”, ora sembra che si sia aperta un poco la speranza e lo possiamo leggere qui:
“… di colpo allora quella tregua consola/ anche noi scettici, come quando un inverno/ affacciandoci per caso ad un balcone abbiamo visto/ lo sciame della Tauridi fendere a sorpresa il cielo buio // “
Lo sguardo di Anedda che si poteva cogliere attraverso la lettura di tutti i suoi lavori precedenti non si poteva dire amaro, anche quando si posava su avvenimenti doloranti come la guerra, la povertà e la miseria, (mi riferisco in particolare al libro “Notti di pace occidentale“); è sempre di compartecipazione alla sofferenza umana che le passa sotto gli occhi, lo definirei da sempre laico, ma in questa raccolta ho la sensazione che si sia fatta strada in lei una visione di attesa, un modo di osservare la vita che cerca di spingere verso l’alto l’attenzione del lettore:
…” non so l’ora precisa-/ ma è inverno, pomeriggio/ si accendono i lampioni nei cortili./ Sul ponte che unisce i reparti più lontani,/ altri visi, altri corpi sfavillano tra i vetri/ in un moto sospeso che ci acquieta/ come una nave in porto dopo una traversata “//
Anche se il linguaggio ha una semplicità espressiva che in altri lavori precedenti non appariva così chiara, Anedda questa volta sa perfettamente usare i termini adatti allo scopo e non posso non pensare che quel riferimento alla nave che approda dopo una traversata non rimandi a personali stati d’animo interiori ansiosi di riposare, di prendere fiato e che le permettono quindi di dire:
“in questo cielo curvo che ci appare in pace… fino alla stella irraggiungibile …all’improvviso invece in un angolo del letto/ è apparso il sole, scavava silenzioso una sua strada/ verso un luogo dove s’irradia luce/ e non esistono pronomi//.
Ho usato ancora il grassetto perché le parole che ho scelte sono per me il segnapassi di un cammino interiore verso l’acquisizione di quella tolleranza cui facevo cenno in apertura, condizione indispensabile, questa, per l’autrice, che afferma
“succede a volte che siamo vivi/ di provare una pace inspiegabile/ forse la letizia/ di cui parlano i santi, e che non chiede niente/ è solo attenta, premuta sulla terra, distante dalla stelle “//
Ma è la poesia Galassie quella nella quale si realizza il connubio perfetto tra l’anelito verso l’alto e la tensione tutta umana (anche nel sogno ) vero la terra a la vita:
Sognavo di osservare la terra da lontano/ vedevo i prati, la luna , la risacca/ e come ogni marea scalzasse terra dall’acqua./Volevo raggiungere Saturno, il mio pianeta/ di fuoco e di piombo, dunque nutrivo la malinconia/. Ruotavo nella nebbia per cercarti ed eri giù/ tra i vivi. Amavi chi non ero o non sarei mai stata/ ma là nel vuoto, in quella luce siderale vedevo/ l’autunno che filava foglie di verde-rame/ sentivo il tonfo del vento sul lenzuolo/ mentre una voce chiamava un’altra voce/ e questa rispondeva qualcosa nella sera- che avanzava con l’ombra sulle sedie./
Ero lassù già in gloria/ già vinta dai lumi dei pianeti/ eppure mi struggevo ancora viva d’invidia per la vita //
Credo di poter dire che in questa raccolta Anedda vuole manifestare un suo desiderio di ricerca dello spirituale, che deve per forza passare attraverso la spogliazione del corpo:
“pensarci senza pelle rende buoni/ Per il paradiso forse non c’è strada migliore/ che ritornare pietre/ senza saperci cuore/
ma occorre spogliarsi anche nel pronome Io per arrivare alla perfezione della comprensione del mondo ed alla liberazione interiore. Lo leggiamo in questa:
“il documento torna salvato, lo schermo torna grigio,/ lo stesso grigio topo del cielo./ Adesso mi alzerò per sparecchiare./ Vorrei disfarmi dell’io è la moda che prescrive la critica/ ma la povertà è tale che possiedo solo un pronome./ Al massimo lo declino al plurale. Dico noi/ e mi sento falsamente magnanima./ Dire voi o tu mi dà disagio come accusare./ La terza persona mi confonde ogni volta con il sesso./ Alla fine torno all’io che finge di esistere,/ ma è una busta come quella usate per la spesa/ piena di verdure o pesce surgelato./ Io con l’io mi nascondo/ chiamando a raccolta quelle che sappiamo:/ abbiamo paura, ancora non è chiaro come finirà la storia./ Dunque riapro la finestra dello schermo/ ritrovo il documento, esito davanti alla tastiera./ Salvo in una nube l’insalvabile.”
Forse temevamo che la ricerca interiore fosse terminata, ma ora con questi versi ci rendiamo conto che invece “la finestra è ancora aperta“ e Anedda “ ritrova il documento “ e alla fine lo affida ad una nube per “salvare l’insalvabile“.
Se in una poesia del libro a questo precedente “Dal balcone del corpo“ mi avevano colpito queste parole “Non siamo quello che ci piace credere/ Fingiamo fino all’ultimo finché ci scorre vita“ sento di poter chiudere questa lettura di Historiae con la sensazione, vorrei dire la certezza, ma non oso farlo, che la poetica di questa artista ha acquisito una libertà interiore che fino ad ora non possedeva e che le permette di sperare, come scrive, che l’osservazione priva di giudizio /sia una forma data a noi umani per amare.