Ho parlato alle parole, di Luca Buonaguidi, oèdipus ed, recensione a cura di Gabriella Modica.
L’entusiasmo che spinge all’esperienza, accompagna gli esseri umani fino a un certo momento della vita. Da quel momento, per proseguire bisognerà scegliere tra due direzioni più una di riserva, e la questione su cui verte la scelta da operare è: conformarsi a una vita qualunque o seguire la propria vocazione? La seconda opzione è una necessità, ed è strettamente imparentata alla proverbiale questione di vita o di morte. E la morte, sia che scegliamo l’una o l’altra delle direzioni è la riserva, ma anche un percorso obbligato. Perché a vario grado, vivere e lasciarsi vivere dalla propria personalissima ragione di vita implica l’alta probabilità di doversi conoscere a fondo, tanto da temere di non riuscire a toccarlo mai, quel fondo. Tanto da temere, per l’appunto di morire. E se non si è abbastanza coscienti di aver imboccato la strada giusta, il rischio è quello di portarsi a rinunciare davvero, volontariamente alla vita perché, ciò che si scopre di se stessi può sembrare molto al di sopra della propria portata. Sperimentarsi a fondo, è qualcosa di molto affine, alla morte. Solo che ha un seguito.
Posso abituarmi a morire?
…
Gli sguardi,
riversi sull’asfalto,
le mani in tasca
per vent’anni
varcando i sorrisi
e i turbati visi.
Turbinio statico
di calca di colpa,
di vizio di vita, di nebbia di notte
a colpi di tosse
strozzati dal vento;
quei segreti maestri
dai passi felpati
sotto pioppi di seta.
Il domani
mi appare ancora
un nuovo nato
che sorge senza morte,
un chiaroscuro di nuvole
che limpide soffiano
il cielo,
la domanda cosmica
che siede in una stanza.
Porto il lutto
della morte di Dio,
emorragia luminosa
che squarcia la foglia
nell’orfana fibra
che vibra di vita.
Porto il lutto
nato in un giorno
di quiete sconvolto
da troppa pioggia,
epica stanca
che versifica gesti.
Respiro sabbia amara
e non so fare la guerra,
diserto la diaspora
d’un mondo
che s’incrina e si muove
senz’amore,
sono furioso
lontano dal mare
e sono inutile così
che scoppio d’amore
tra i sogni piombati
dal suolo di dolore.
Scrivo adesso
come stessi davvero per morire
e non muoio,
mi capita ogni sera
e poi mi addormento
e poi mi sveglio.
Posso abituarmi a morire?
…
Il percorso di entrambe le strade è speculare. Ma ciò che vede il poeta, sebbene appartenga a tutta l’umanità, è ciò che spesso l’umanità che ha scelto di prendersi ciò che viene, non riesce o non vuole vedere. O ha dimenticato che certe aree le appartengono allo stesso modo di come appartengono a chi le dona attraverso, in questo caso, la poesia.
Di questo parla Buonaguidi.
Del parlarsi senza tregua nel tentativo spesso vano di centrare il bersaglio, di centrarsi laddove un confine vero e proprio, non c’è e dove, oltretutto siamo eccezionalmente bravi a mentire a noi stessi, anche nelle domande che dovremmo farci.
D’apolidi Istanti
…
Torno infine a spogliarti nell’aria
come lo spicchio di luna
scopre notte dopo notte
il cerchio che la compone
elevandola più luminosa.
Per oggi la terra mi chiede il tuo nome:
io, timido, le indico il cielo.
Tu che entri, irradiami
Il cuore
geme, langue, grida
le verdi asprezze,
la mia deriva.
In un fosco bosco
ho seminato germogli di parole,
nebbia fra le gote,
un bacio che non è amore,
il passo d’un brivido breve,
una scintilla lieve,
ombra desta nella fitta aurora,
un nerogrigio di cui non so godere.
Poi la lieta stanchezza
sulla cima di un
picco inesplorato
e i cupi versi passati
ora passi d’una distanza percorsa:
sono io questo o chi?
La ricerca del vento
già muove l’aquilone.
Tutto è ora chiaro e puro
come nelle belle poesie,
coscienza d’un attimo
che già si perde nel cogliersi:
viola vertigine di perfezione,
scoglio che accoglie le onde,
nodi di pelle che formano nuvole.
Ecco la mia smisurata bestemmia.
Tu che entri irradiami
perché ora so riflettere la tua luce.
Questo vede il poeta su se stesso, e specularmente questo è il resto della società che ha scelto un percorso qualunque (che tanto si campa lo stesso, verrebbe da aggiungere).
Il lavoro di Buonaguidi è un reportage dalle zone calde di questa immersione, dove il suono viaggia sulle onde corte, cortissime della novità che si dissolve non appena intuita, perché sovrapposta di continuo alle frequenze della memoria che nella poetica di Buonaguidi e non solo, ha un andamento circolare e non lineare.
Frequenze che si fanno segnale chiaro solo nel momento in cui chi le percepisce -e quindi le produce- accetta un fatto rilevabile e documentabile: la sproporzione tra la piccola luce dell’uomo cercatore di nuove forme della parola, e la grande ombra che essa proietta.
Siamo noi a decidere se stiamo percorrendo una discesa o se stiamo planando sul nostro involucro umano. Quel che è certo è che a quello che incontriamo, in questo viaggio non siamo più (o affatto) abituati:
Il Dio sorridente
La parola perfetta non esiste,
è l’etereo canto
dentro al silenzio notturno,
lo scoglio che contempla
l’assalto bianco della marea,
il Dio sorridente
richiamato dall’antica domanda:
Di tutto questo amore
qualcuno prende nota?
Buonaguidi cerca, sperimenta, chiede incessantemente a tutti. Specialmente ai suoi maestri, ai suoi grandi riferimenti, fin dall’inizio: Reta, Loi, Carifi. Ognuno di loro presenta un oracolo da interpretare mentre il quarto, Bigongiari, dà la risposta definitiva che, ovviamente, è: “domanda se una rosa basta”.
Basterebbe una rosa, se nella sua visione perfetta fosse contemplato anche il niente.
Questo è ciò che più di ogni altra cosa Buonaguidi cerca, sperimenta e chiede.
Compito dei poeti
A volte credo di pensare:
se non avessi più niente da dire,
– niente –
potrei scrivere del niente che non dice?
Compito dei poeti
è sì osservare la candela
e attendere la rêverie,
ma compito dei poeti
è anche esser sentinella
del niente che ci forgia,
la falce non richiesta
nel buio che ci accade.
Compito dei poeti
è infine cantare
l’avvenuta sventura del grano
che s’oppone al deserto,
il ritirarsi dei mari
scavalcati dalla terra negra,
il nascer spezzato del giorno
con la sventura del tatto.
Percorro il fitto grano opaco
e riconosco il compito affidato: ci vorrano parole di morte
e vomiteremo il cielo indigesto
e tutte le visioni
e sarà tutto infinitamente poetico
perchè la morte
saltella sul verso
con gambe di cavalletta
ed assalta il grano in terrore
lo morde e lo depone
ronzando la Rovina
che arriva ed arriva
decisa a morire
a sua morte.
Quasi tutta la silloge è percorsa da questa domanda: cos’è, e dov’è il niente? E se questo esiste, è possibile scriverne? E ancora, è possibile scriverne attraverso l’utilizzo del metro canonico?
Questo è forse l’interrogativo più insidioso.
Eppure è lì, che si finisce, ogni qualvolta il nostro sperimentare, il nostro cercare si affanna a trovare nuove strade espressive. Alla fine si torna a guardare indietro, a quella memoria degli albori, dell’ancor prima di nascere, dell’inconosciuto, del non deciso, dell’ipotetico niente.
Si potrebbero interpretare le immagini di atmosfere rarefatte e nebbiose dei versi di Buonaguidi, come il loro stesso risvolto: i non luoghi del mezzo tecnico-poetico, delle nuove forme della parola, come riserva di risorse, come luogo in cui esistono ancora molte porte da aprire, quel niente apparente che è presente ma anche passato, in cui la memoria è, di fatto, il suolo su cui i nostri passi si alternano senza che ci accorgiamo neanche più del nome delle strade.
È intuitivo che anche il niente ha un suono. Un suono non razionalizzabile. Un suono, il cui senso non appartiene a questa dimensione del mondo.
Sul fondo dei miei passi
…
Le mie parole
hanno il suono
di sigarette spente
sull’asfalto bagnato,
calpestate
per andare oltre,
calpestate
per esser lasciate accese
sul fondo dei miei passi.
E di certo, in questa prospettiva deve avere anche un ritmo. Ed è sempre ai suoi maestri che Buonaguidi ad esempio si riferisce in questo nuovo stadio del percorso, nella silloge: se dunque è vero che devo cercare il niente, e che questo niente lo trovo a grande difficoltà in ciò che posso interpretare come niente, allora forse questo niente, è davvero delimitandolo all’interno di un ritmo, di un metro, che posso, essendo un portatore, narratore dell’animo umano, trovarlo e raccontarlo
Sempre che di niente realmente si tratti.
Un’affermazione come quella precedente potrebbe anche implicare il fatto che, se il niente può essere identificato e versato all’interno di un metro classico qualunque, allora anche cambiando direzione e scegliendo non di seguire la propria vocazione, ma una strada qualunque a patto di giungere a conoscerla profondamente, allora il risultato non dovrebbe cambiare, e quel niente allora assumerebbe la sua vera valenza: il niente non esiste o è molto più visibile di quel che voglio vedere.
Allora il problema è ancora quello: è possibile scrivere del niente?
A questa domanda Chi scrive non crede d’aver risposta. Forse il niente è la pienezza del presente. E vale la pena di leggere la Silloge “Ho parlato alle Parole” di Luca Buonaguidi ascoltando “Dialoghi del presente” di Luciano Cilio, cui, tra gli altri, il nostro dedica i suoi versi.
L’Universo Assente
a Luciano Cilio
Dalla marea annegato
sei scoglio albino strappato al sole,
roccia arsa dal bruno vespro,
dissolta e spirata
su spiagge eterne dell’eden.
Sei sale emerso dal liquido informe,
prezioso avorio depositato sulla riva
nei giorni in deriva,
lieto grano
nel silenzio assordante,
livido faro
nella notte dell’uomo.
L’onda del tempo ti ha predato
eppur altre spumose onde di vita
ti hanno raccolto.
Le mie stanze quotidiane
risuonano le note in cui evocasti
l’Universo Assente
in stretti dialoghi con un presente
che pur mi concede
scintillanti bagliori,
le tue visioni.
La tua musica
è una preghiera
a cose più alte di me.
Luca Buonaguidi. Ho parlato alle parole, collana Intrecci, oèdipus Edizioni, Nocera Inferiore.