Ho ucciso, una volta, il tempo, poesie di Tommaso Grandi, con una nota dell’autore.
Tommaso Grandi è nato a Modena nel 1985. È laureato in Lettere Moderne e in Italianistica, laureando in Scienze filosofiche e collabora con il FestivalFilosofia. Si occupa di filosofia teoretica ed estetica, di letteratura moderna e contemporanea e del rapporto tra letteratura e filosofia. Oggetto particolare della sua ricerca sono il pensiero e l’opera di Giacomo Leopardi, la poesia contemporanea e il dibattito esistenzialista post-heideggeriano. Suoi testi poetici sono apparsi su blog e riviste online. Crede nella compenetrazione di filosofia e poesia quale mezzo privilegiato d’indagine, da volgere alla comprensione della totalità del reale.
La furia è silenzio, nel turbine, è impatto con un flusso costante e imperturbabile. È agitazione vorticosa, cinica, schiacciante e, tuttavia, invisibile. È flusso sincretico, omologante, globalizzante di una contemporaneità osmotica e incalzante. È l’estrinsecazione dell’antica e reiterata resilienza umana alla finitudine. È un divenire che si storicizza e dai recessi dell’umana contingenza emerge in un’attualità pressante, che spinge all’adesione incondizionata, alla fluidificazione dell’io nel modello dominante.
Il verso, è il passo indietro. È presa di distanza dal vortice, sospensione esistenziale in limine, terra di confine tra intuizione e contemplazione. È continuo fuggire e rifarsi furia, allontanarsi e, nello scivolare, riaggrapparsi al flusso. È prospettiva sulla fine dal fondo del gorgo e sguardo che dall’abisso anela al mondo. È logos e alogos, nulla reificato, voce della contingenza e voce dell’essere. Voce, semplicemente, nella caduta. TG
Il pendolo
Era la crisi criptica dei mille baci,
bassi passi che passeggiavano rintronanti
nel petto affaticato faticamente esposto
ai mutili muti ritiri e rientri e tiri e ritenti
tentennando a tre euro e settantacinque,
settantacinquenne aprioristicamente
protratto, di contratto alle sette e venti – e
cinque cronici – di acidi ialuronici,
bruciando Bologna e Modena in quell’ictus
che mi han detto che è un io, ma per me è
uno iato malato tra niente e poesia e
poeticamente niente e nientificante poesia,
ancora:
ho ucciso, una volta, il tempo.
*
Nisi solvere fluxum
Nisi solvere fluxum, Odette, flessi ci risolviamo in niente: stretti alla flessuosità del vortice, multiformi evidenze empiriche di obliteranti scorrere, sempre al corrente della verità – la Verità!, dio la verità! – come delle digestioni post-prandiali della domenica in famiglia, del tonfo sordo di un proiettile a Mosul intercettato via facebook da inerti ipermnesie fiorite come d’incanto sul finestrino in plexiglass dell’undici, Sant’Anna-Zodiaco-Iraq e poi Maldive and back: e poi respiro, una, due volte: flexum, m’aggrappo al turbine – non val cosa nessuna i moti tuoi, né di sospiri è degna la furia – ma ecco, il dolore, le mani che bruciano al contatto e d’ogni fermata faccio eco come di un principio di realtà. Spaccami, Odette, tu che hai capito il mondo, sbranami, sbrindellami come infiniti frattali di violenza e di burocrazia imperante, spaccami, ora che sono sopito, sotto, rotto, gnoseologicamente fractum nel tentativo tardivo di una finale in -ivo, della chiusura Odette, porca puttana, spaccami come si ammazza l’ombra: con altra ombra: con il simile: il modello: con un polo d’imperante burocrazia e poi frangimi: οἵη περ φύλλων γενεὴ τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν, ma più uguali, Odette, più stanchi.
*
Il breve passo indietro
Giacevo – eppure mi muovevo – immoto,
spaccato, disperso ormai
come dispersa è l’ombra
piccola che inanità mia rifrange
– ogni estate, ancora e sempre –
sui muri grigi e neri alla stazione,
quando s’agita la furia quieta
del mondo ed io la guardo: in bilico.
Ero – appena e poi mai più – qualche cosa
nell’agitato mare del rincorrere,
una meta intermedia
e temporanea, fragile e puro
e instabile elemento della fine
rubato ad essa dalla vastità
del vortice, dalla vita che spinge
a alzarsi, a esistere.
Vivevo – la maladie la mort du monde –
nel muoversi degli altri,
nell’urto tetro di usi, costumi,
nel linguaggio come un avverbio – peut-être –
e nel definirmi per osmosi
vomitavo desiderio sulla via
del divenire, appeso al mio dolore
come a un miracolo senza fine.
Sono – per ora, chissà – l’irrelato,
il breve passo indietro,
la mano che nella caduta anela
al vuoto: odo – talora – disperdersi
l’eco del mio passare,
la crosta grattata via
da una ferita antica, d’estate.
E anche questo dolore sarà vano.
*
Sospeso
Ecco, ecco dice l‘aurora: ora auspico
piccoli cola latini, dimora
scura di animi persi, fini, di spiriti-lame
affilati all’oblio dell’infinita vanità del tutto:
manifesta, s’erge ora la frattura
e divora-ama lo sprofondante,
costantemente – fratto – depositarsi,
magma osceno di un passato-memorabilia
gnoseologicamente in pezzi, il mio
– ed ecco sùbita la pretesa di realtà -,
l’io, macché: il conveniente manifestarsi
di quello spoglio être che qui picchietta
impertinente, nichilista penitente,
che sfatto si pro-tende nello slancio – vano
vanto del vuoto: prendimi! E poi:
Dietro la stazione, là dove languono spogli
quei due palazzoni appiccicati, là frangono
le nuvole frastagliate da est, nord-est, laggiù
l’eco di una narrazione sus-surrata sul vuoto:
#narrazione 1, oltre le mura
C’erano lumi, di eterodosse cavalcature
[rotte come mosse come nessi come fuochi
(as sus-chords blowing into the void of a plain harmony),
senza sesso senza colore senza idee senza rumore]
cavalcanti il cavalcavia a fatica,
recalcitranti all’ombra muta (solo tre pioppi nereggianti sullo sfondo strappato,
«come per mezzo di un taglio a traverso»),
che in-consapevoli – la consapevolezza è qui solo un’illusione, refuso di un modello antico,
dell’adesione solo formale a un fascismo borghese – si recavano a braccia tese verso la grande
città: