I Canti dell’Interregno di Pina Piccolo, Lebeg edizioni, 2018, note di Paolo Gera: tutti gli dei e i poveri del mondo.
Da una parte sono registrati giovani destini che hanno un nome e il momento terribile del loro schianto: Carlo Giuliani, 20 luglio 2001, ucciso a Genova dalla polizia durante le manifestazioni contro il G8; Alex Geemes, Alaj Abeba, Kwame Yulius Francis, Samuel Kwaku, Christopher Adams, Eric Affum Yeboah, 18 settembre 2008, braccianti agricoli, uccisi dalla camorra a Castel Volturno; Binitubo, Esther, Chinelo, Blessing, Ayomide, Ozuoma, Nzube, Grace, Nwando, Kebe, Favour, Redeem, Loveth, Marian, Ugochi, Precious, Osato, Ljeoma, Joyce, Balogun, Queen, Olabisi, Promise, Kemi, Vivian, Amineet, 6 novembre 2017, tutte tra i 14 e i 18 anni, ritrovate morte in un’imbarcazione approdata al porto di Salerno, probabilmente annegate perché – c’è scritto sui giornali – “soggetti più deboli”; Shaima Al-Sabbagh, 24 gennaio 2018, attivista del partito egiziano “Alleanza popolare”, caduta vicino a piazza Tharir, durante la commemorazione della fallita primavera araba. Le pallottole di gomma possono uccidere quanto quelle di piombo.
Là sopra invece, lontane, indifferenti, obsolete, stanno abbandonate come vestigia di marmo o burattini di legno le antiche divinità del mondo e le creature mitologiche. Chac, Oshun, Oceano, Demetra, Zeus , Efesto, il Buraq, l’ippogrifo, i tritoni, non hanno più un dialogo con l’umanità, ci voltano le spalle, neppure pretendono ancora riti crudeli che ai loro occhi avevano il senso di confermare un ordine universale, perché nuovi dei si sono impadroniti della nostra sorte. Bilancio, Profitto, Rifiuto, Assurdo. Tutto più semplice oggi. Il disprezzo dei diritti e la dissipazione delle esistenze deve confermare, senza problemi di assetto metafisico, il sistema economico e politico della società secolarizzata. Anche i protettori più recenti, Zorro e Superman, impotenti, hanno appeso al muro mascherina e mantello. Ma già si sapeva che erano collusi con l’industria dell’intrattenimento di Hollywood.
Ecco, tra questi due estremi si muove con passi dolenti e tensione spasmodica la poesia di Pina Piccolo. È una poesia civile che foscolianamente non vuole lasciare che l’oblio stenda il suo drappo funebre sulle memorie e che con rabbia pasoliniana vuole denunciare quanto la crisi antropologica del Secondo Millennio possa pretendere in termine di insensato annichilimento.
Mi sono sentito in dovere subito all’inizio di raccogliere l’invito della poeta nella sua raccolta: “Gridateli i nomi perché la parola crea mondi e racchiude l’essenza”. La posizione è importante e mettere questo elenco all’inizio, piuttosto che snocciolarlo o diluirlo in altro luoghi di questa recensione, corrisponde per me all’intenzione condivisa dell’urlo. La gente è distratta in ogni momento dagli schermi portatili e dalle ineludibili connessioni e così per richiamare l’attenzione occorre farsi sentire nel modo più forte possibile. Quello che ho subito apprezzato nella parola di Pina Piccolo è la rinuncia alla descrizione di un proprio mondo personale e intimo – quanti poeti contemplano un po’ compiaciuti i nodi e gli sviluppi febbrili di un io così ipertrofico da fagocitare il mondo – per dedicarsi alla denuncia indignata delle sofferenze degli altri. Non si tratta però di una compassione pietistica. “ I canti dell’Interregno” partono da una coscienza politica che ha la sua ascendenza nel pensiero gramsciano dei “Quaderni dal carcere”: “La crisi consiste precisamente nel fatto che il vecchio sta morendo e il nuovo non può ancora nascere; in questo interregno appaiono una gran quantità di sintomi morbosi”. I versi si affilano allora, in una descrizione assolutamente attenta e documentata dei segnali della degenerazione, che è tanto radicale da sconvolgere non solo il mondo degli uomini, ma gli stessi cicli naturali; addirittura ne viene colpita l’abitudine ad una stabilita morte, dolce e necessaria: “ Se ne accorse perfino la cicala /che qualcosa non andava./Dopo lo squarciagolarsi alla calura/nel DNA serbava la memoria /del previsto calo graduale/ e poi l’addormentarsi dolce senza risveglio;/ora, invece, nell’arca di un guscio/gli schizzi/le ammorbavano il sogno.” ( in “Le prime avvisaglie del diluvio”).
L’universo evocato da Pina Piccolo ha già in sé le caratteristiche di un’apocalisse consumata, evoca gli scenari di Cormac McCarthy ne “La strada”, dove il padre e il bambino consumano la loro stentata esistenza tra una natura violentata e un’umanità ritornata antropofaga. Il rabdomante, figura che ritorna più volte nei versi di questa raccolta, non può più mettersi alla ricerca di acque sotterranee e sorgenti, ma la sua bacchetta punta verso i detriti metallici della violenza ideologica :”un fucile seppellito/ per non esser restituito,/l’acciaio di un delitto/ vergine all’arrotino,/gioielli sepolti/ dal Capitan Uncino,/speranze sepolte/ in cassaforte,/ravvolte/ nella logica/ del cemento armato,/recintate/ nel quadrato del filo spinato,/spianate/ dal carro armato/ striato di stelle/ o stellato di falsi martelli.” (in “Ridi rabdomante”)
Ma l’oggettistica capitalista si aggiorna costantemente alla luce delle innovazioni tecnologiche ed ecco allora apparire un Elm Radar 2226, come un antico gigantesco guardiano di bronzo, potentissimo sistema di rilevazione di disperazione umana, macchina che mentre segnala l’avvicinamento delle imbarcazioni dei clandestini tritura la salute degli autoctoni a lei prossimi e l’integrità dell’ambiente in cui è stato assurdamente inserita. “Trascorsi millenni,/riconfiguratesi innumerevoli volte/ le terre di Asia, di Europa e di Libia,/ora il radar Elm-2226,/novello Talos/made in Israel,/dalle coste di Sardegna/ figli di Asia e di Libia/e senza impronta di riso/alle patrie galere li condanna.” ( in “Una storia europea: genesi del sorriso sardonico di Guy Fawkes”).
Importante è allora che il percorso vada a ritroso e che con politica lucidità la scrittrice divida la sua raccolta in sezioni che partono dal presente per tornare alle poesie del periodo 1974-81, come se in questo ricorso alla memoria ci fosse il tentativo disperato di comprendere le radici di un sistema spietato e violento. Ma ancora più indietro, per spiegare indifferenza e richiesta di sangue, si risale all’origine del tempo e al mito. È la sezione che con uno sconvolgente scambio vocalico viene titolata: “Cosmagonie”. Queste pagine racchiudono una poesia visionaria e fiammeggiante che come senso generale mi ha riportato al modello esemplare de “Il matrimonio del cielo e dell’inferno” di William Blake. Il linguaggio creato da Pina Piccolo è un riuscito ibrido tra reminiscenze classiche e neologismi brutali. Lo stile ermetico non prende ispirazione da misteri e riti iniziatici, ma allude ironicamente al grande imbroglio del sistema neocapitalistico e delle sue alleanze nascoste, le coperture mistiche sono diventate quelle finanziarie, le risposte mancanti non sono state risucchiate dalla Pizia, ma da Monsanto, da Wall Street, dalla Bundesbank. Il piano, estremamente lucido, è quello di partire dalle origini mitiche dei fenomeni per allacciarle alle vicende attualissime degli uomini: questa impossibilità di darsi ragione della crudeltà presente, evocando i panorami primigeni dell’esigenza di divinità terribili o consolatrici, è a mio parere la caratteristica più originale della poesia di Pina Piccolo. Come in “Ventisei rose di mare” dove il sacrificio rituale delle adolescenti, delle korai, ritrova oggi la sua conferma non per un’offerta di sangue innocente alla divinità, ma alla logica del mercato e alla nuova spietata religione economica. Ma già Ifigenia non era una semplice merce di scambio perché ancora una volta si alzassero i venti di guerra?
L’elemento naturale che collega il tempo sospeso del mito a quello del presente devastato è il mare che immagino Pina Piccolo ami profondamente e per cui sia sconsolatamente addolorata. I pesci che popolavano il Mediterraneo all’epoca della Grecia di Omero sono uguali e diversi da quelli del 2018. Uguali nella forma forse, ma antropizzati nella loro struttura dalle eccedenze umane e in una sola parola, plastificati. Poveri pesci. Il mare in un secolo interminabile di conflitti e migrazioni, ha conosciuto stragi, oltraggi, invasioni, è stato testimone di tragedia e di morte. Il mare porta sulle nostre terre l’ospite povero che ha gli occhi muti del pesce che ha visto tutto. Ed è così che, insieme a Pina Piccolo, voglio fermarmi sulle sponde di Lampedusa o di Lesbo.
Ma non ho intenzione di concludere con lo stralcio dei versi: a una raccolta che parla di atroci smembramenti bisogna lasciare lo spazio di speranza in cui possa inserirsi un’intera poesia, perché la speranza non può nascere che dall’aprire gli occhi sul mondo circostante e dalla riflessione attiva sul dolore degli altri.
MEDITERRANEO 2011: TERZO CAPO D’ACCUSA
(In onore dei sedicimila ‘esemplari’ di homo migrans
annegati nel Mediterraneo dall’inizio del secondo
millennio dell’epoca comune)
Per noi non si mossero elicotteri dalle eliche
[schiamazzanti
a lanciarci una fune d’argento,
né invisibili aerei senza pilota
a calarci la scala di Giacobbe.
Per noi non si scomodò il Burāq
dalle grandi ali bianche e la morbida sella di velluto.
Per noi non arrivarono balene dal ventre capiente
salvatrici di burattini infingardi o di profeti
poco propensi a proclamar sventure.
Per noi non decollò il tappeto di Sindbad
elegante e aerodinamico a rapirci ai cavalloni.
I cigni non si unirono in stormo
formando un’aerea rete in cui impigliarci.
L’ippogrifo certo non interruppe il suo viaggio verso
[la luna
a recuperare cervelli smarriti di cavalieri.
Né gli yacht di politici abbronzati
si affannarono a raggiungere
così poco ambita preda di campagne elettorali.
Per noi non ci furono né santi né jin
nessun Tritone ci allungò il suo tridente,
nessun Superman per noi sfidò
i marosi arrampicandosi leggero sulla schiuma,
né alcun messia si mise a camminare sulle acque.
Per noi non emerse Colapesce inabissatosi nel Mare
[Nostrum
deluso d’amore e stanco di sentire le sragioni degli umani.
Per noi non si lanciarono a velocità folli motoscafi,
né motovedette che solcano solerti quello sputo di mare.
Nessuna sirena ci avvinghiò tra le morbide braccia
per portarci su un’isola felice,
né alcun profeta separando col bastone le onde
creò un corridoio di salvezza.
Non ci acciuffò dai capelli l’angelo custode,
né ci avvicinò il diavolo per proporci patti.
Nessun delfino, amico dell’uomo, ci sorrise
portandoci in groppa al Luna Park.
Nessun pescespada restò fedele al nostro fianco
mentre venivamo arpionati da Wall Street.
Nessun campione olimpionico di nuoto
venne a farci da testimonial,
né giornalisti a tenere conferenze stampa.
Per noi non ci furono rocambolesche gesta,
né squadre di salvataggio, né eroici furori.
Gli squali del Mar Rosso con il tam tam dell’acqua
fecero sapere ai loro cugini del Mediterraneo
che era in arrivo un succulento banchetto.
E i tonni si rallegrarono ché quel giorno
non ci sarebbe stata una loro mattanza.
Di noi nessun griot decanterà
né il lignaggio, né la discendenza.
Per il nostro corpo non ci fu la linea piatta
dell’encefalogramma a segnare
la fine della lotta, il termine della rotta.
Sulle onde scivolò silenziosa solo la Mesektet
imbarcazione della notte
«dai gloriosi rivestimenti»
– dice Il libro dei morti –
«i suoi colori d’ametista e di smeraldo
di diaspro lapislazzuli e il lustro dell’oro»
sacra al dio Ra che ci raccolse
per proseguire il viaggio.

A bilancio: profitto (pro- fitto di incongruenze visto che tutti siamo umani quindi temporanei), r-ifiuto ( incapaci di percepire il puzzo di cancrene ormai così profondamente diffuse nel tessuto sociale e nella terra che ci ospita da non comprendere alla fine in quale pericolo ci troviamo tutti), as-surdo ( o meglio sordo e sordido, questo girare il dito nella piaga che è anche la propria, niente è scollegato o parcellizzato, se una multinazionale andrà in tilt, altre la seguiranno come birilli sulla stessa cors(i)a di gioc ).
” Il disprezzo dei diritti e la dissipazione delle esistenze deve confermare, senza problemi di assetto metafisico, il sistema economico e politico della società secolarizzata. Anche i protettori più recenti, Zorro e Superman, impotenti, hanno appeso al muro mascherina e mantello. Ma già si sapeva che erano collusi con l’industria dell’intrattenimento di Hollywood.”
E chissà che si dismetta anche la vetrina che, tra l’altro è un mettere sotto silenzio e blindare tipico della ceramica e noi…non siamo in fondo fatti tutti della stessa argilla?
Diceva una canzone del maggio francese, ripresa poi da De Andrè: anche se non ve ne siete accorti, siete del tutto coinvolti. Sì, è vero, siamo tutti coinvolti e probabilmente i gesti estetici/ etici che facciamo sono soltanto il tentativo di prenderci per i capelli con le nostre stesse mani per tirarci fuori dalle sabbie mobili. Ma forse no! Forse sono bagliori di resistenza che bisogna avere la forza di continuare ad emettere.