Il decalogo della parola (prosa e poesia), di Benny Nonasky.
La parola è una tecnologia biologica*. Regola gli equilibri tra gli uomini ed è magica perché ha il potere di far accadere le cose1. Il linguaggio è la rappresentazione della realtà. Le cose esistono perché hanno un nome, perché siamo noi a dargli fattezza reale pronunciandole. Se vogliamo esser puntigliosi fu Eraclito a teorizzare un’identità tra l’essere e il linguaggio utilizzando il logos, cioè quella legge che mantiene l’armonia nel cosmo. Se il logos permette di determinare una visione ordinata del mondo, questo comporta comunque la possibilità di scatenare un’opposizione (detta polemos). Come un’intestina lotta dell’uomo tra fare il bene (il Paradiso) e compiere azioni disoneste (l’Inferno), così il logos si scontra continuamente con il suo contrario – che, in quanto tale, non può fare a meno dell’altro poiché vive in corrispondenza dell’altro e, di conseguenza, all’assenza del primo, il secondo non avrebbe necessità d’esistere; e viceversa. Così è un dialogo. Un discorso senza replica o risposta è un monologo, non offre dibattito, blocca la condivisione e impedisce di creare una rete sociale e pubblica. Come afferma Hans Magnus Enzensberger: da un dialogo non è possibile uscire indenni: poiché in esso gli attori sono due o più interlocutori, interviene, di fatto, un’interazione che modifica per sempre la storia di coloro che hanno partecipato al dialogo2. Per Enzensberger la parola è il motore degli equilibri psicologici ed emotivi dell’uomo. La parola genera l’esistenza e l’evoluzione della cultura. A livello scientifico, ogni volta che parliamo o che ascoltiamo, il nostro cervello accresce il numero di connessioni (le Neurexine) e si rimodella. Ed è per questo che la nostra visione del mondo muta continuamente: aumentiamo la nostra conoscenza scoprendo sempre cose nuove. Il cervello è un aggeggio molto fluido e modellabile, non è statico né privo di potenziamento. I memi, cioè gli infiniti saperi che l’uomo ha accumulato durante la sua Storia, non sono pilastri invincibili: cambiano col mettere alla luce nuove evidenze. I memi ereditati si possono riscrivere e ovviamente migliorare, oppure perpetuare3. Esattamente come i geni, ci possono essere contenuti nocivi o non nocivi. La cosa che più mi affascina del linguaggio è la capacità d’interpretazione. Ognuno di noi descrive a suo modo e, anche se l’immagine è quella lì, senza possibilità di ricavarne una prospettiva diversa da qualsiasi angolo la si osservi, come nel caso di una sfera, un esempio: il mondo, possiamo far scaturire un’innumerevole quantità di refusi. La parola non ha un governo prestabilito. La metafora e l’allegoria sono principi attivi di un’esternalizzazione interpretativa. La poesia è a conoscenza di tali mistificazioni. La poesia è la scoperta di qualcosa che non c’era, è intuizione4. Posso dire che la poesia è un qualcosa che colma le distanze, che stabilisce legami sentimentali con qualcosa di nuovo, che ogni immagine rivista rilascia. La poesia modella il linguaggio, lo fa suo e attraversa l’intera origine della Storia umana in una continua rivisitazione del logos e dello spazio e del tempo. La ricerca e lo studio del linguaggio, col suo continuo contaminarsi e cicatrizzarsi, tra tradizione e sperimentazione, è una necessità primaria per la poesia. Anche se lo trovo arrogante e troppo chiuso nel suo Io universale, Brodskij vedeva bene quando affermava che quando leggi le opere dei grandi poeti hai la sensazione che non stiano più rivolgendosi alla gente […]. Quello che stanno facendo, in realtà, è rispondere alla lingua, in termini di bellezza, sensualità, saggezza, ironia, vale a dire quegli aspetti della lingua che il poeta riflette come uno specchio limpido5. I grandi poeti, come la prosa fluente di Walcott, la semplicità solenne della Szymborska, il vociare di Murray, la sacralità di Darwish, il cuore tenero e politico di Neruda, la musicalità di Lorca, la nostalgia di Ungaretti, la freddezza di Celan, la schizofrenia dei versi di Adonis, superano le barriere della superficialità, portando la parola ad un livello specifico di arbitrarietà – esistono solo le loro leggi, la loro sublime visione del mondo. Spesso mi portano alla commozione. Sarò delicato di cuore, ma capita che salto in aria e vorrei, sì cazzo, vorrei mettermi al balcone e leggere a tutti, passanti, uccelli, auto e pizzaioli, ciò che di grande è stato detto. Perché credo che una volta scritta, la parola, la poesia diventa proprietà di chi la legge e che, con i propri refusi, la interpreta. Sono anch’io dell’idea che la parola sia un virus: essa si trasmette e si replica (e il suo habitat è il cervello)6. Ma sono anche convinto che la parola sia frutto dell’ambiente in cui viviamo, delle esperienze che facciamo. La nostra Storia. La parola non può esistere senza la sua controparte: ciò che la genera: la natura: il primordiale. Se gli oggetti del mondo sono per l’uomo oggetti mentali, ovvero una rappresentazione simbolica della realtà7, noi stessi, esseri biologici, siamo invece una rappresentazione materiale di una natura in lenta e costante implosione. Il linguaggio è un albero: ha radici che affondano nella terra – da cui prendono il necessario per sopravvivere e creare – e un corpo che cerca di divorare il cielo – la ricerca, con vari mezzi, di costruire la realtà. A differenza di Brodskij che sosteneva che le immagini e tutto il resto sono suggerite dalla lingua, nel suo processo di dispiegamento8, Io sono convinto che le immagini e tutto il resto siano una conseguenza della natura e delle cose che ci circondano divenendo, dopo vari passaggi simbolici e neuronali, lingua e messaggio interpretativo. Se la parola fosse solo un prolungarsi del Sé medesima, sarebbe solo una ripetizione costante di frasi già fatte e mera retorica. L’osservazione, l’ascolto, offrono al poeta la possibilità di interrogare la struttura del cosmo e trovare risposte sempre diverse e strabilianti da comunicare e tramandare. Il poeta non deve guardare la terra sedendoci sopra, ma lo deve fare come una sonda spaziale che scatta foto dal silenzio ancestrale. Ciò che rimanderà saranno granelli di polvere sospesi in un raggio di Sole9 che delineano un aspetto, pongono una domanda, facendo imbizzarrire la mente e la sua razionalità – paradigmi, tabù, volgarità. La parola è la più leggera delle cose e le contiene tutte. L’azione è direzione e istante, la parola è tutte le direzioni e il tempo10. Spacca i limiti. Usandola bene, crea nuovi percorsi stradali. L’educazione dei pronomi, l’arroganza del verbo essere, la ridondanza degli aggettivi, la continua diatriba tra sostantivi e avverbi. Che faremo Bel Verso, Linea Sottile, che stai tra la poesia e il nulla?11 Far parte della gente e la sua quotidianità e passato. Come siano utili i ricordi; è imprescindibile il vuoto del futuro. Immergersi dentro, a tentoni, e trovare sempre una musa con cui cantare. Non dire che la poesia è morta perché tanto sono i poeti a morire (e con essi il linguaggio brutto e catatonico). Sto cercando la perfezione. Solo così mi sento a mio agio. Ogni verso il giusto troncamento. Ogni parola un’enciclopedia. Capire che anche Van Gogh aveva posizionato, precisamente, al punto giusto le costellazioni che in quel momento sostavano sul suo quadro12. Sono convinto che l’ha fatto per sé stesso e per mettere alla prova la gente. E nessuno lo aveva compreso fino a poco tempo fa. Bisogna metterlo in conto. Scriviamo e dialoghiamo per cercare un domani diverso e migliore. Anche in metrica alessandrina o nel verso più pazzo e libero da chissà che cosa. Ascoltando la Kinderszenen op.15 di Schumann. Pensando al vento che semina continuamente e la parola che cambia il destino dell’uomo. Con la grammatica evoluzionista dell’universo. Una stella nell’aria di rosa, un lumino nell’oscurità13.
.Il decalogo della parola.
a tutti voi di Srebrenica
Ci sono parole che brucano vermi nel loro significato,
parole non garantite dal pianto della luna, da
madri sommerse dalla tragedia evidente e
da un giglio che scrive poesie d’amore per i
suoi petali rosa clitoridei.
Le parole incrinano la leggerezza del cuscino.
Pensavi di sognare: era l’ululato nelle zone
d’ombra, la rassegnazione nel perdonare, la
valanga di corpi oltre la valle,
sopra la valle –
ormai la valle è solo corpi, corpi
distesi e distesi, una valanga di corpi
ad ammirare il graduale innalzamento di
polvere che il tonfo decerebrato comporta.
Le parole ridefiniscono l’atmosfera,
sferrano discorsi precisi, taglienti
come briciole di vetro,
come un tavolo e su uno schermo –
in diretta da Vienna: cadevano, cadevano
bimbi e uomini cadevano e
<<Nessuno ha portato i pop corn?>>
Le parole timonano la fisionomia del mondo,
mettono le piastrelle sui defunti e
issano pareti dove stendere fotografie
perché tutto è un ricordo da scontare
perché su ogni foglia c’è un burrone che attende la mosca
perché la benzina fu donata per i campi di sterminio
perché nei bastardi lugli la sera cala prima e
i figli scomparsi cantano nenie vivaci nei
cuori sbiaditi, maltrattati, mutilati.
Ho sempre pensato di sognare e al
risveglio non riconoscere più niente ed
essere felice di non sapere chi sono
né chi non sono.
Ma le parole ricalcano il percorso del
mercenario che le usa.
Genocidio di massa,
nello sterminio di massa,
nel massacro di massa,
(non ho diritto di dirlo, ho dovere farlo)
le parole trovano il loro risultato e l’assenza.
Sta nello zampillo urinario del toro,
nei gesti confusi prima di quel ti amo,
su una nuvola corvina: il coraggio:
il prenderti per mano e salire oltre,
capire il risultato e l’assenza.
È come un’alba tiepida, lontano il crepuscolo,
lontano i nitriti delle giumente avvizzite, anche se
alle porte del paese qualcosa stava per confutarsi –
e lo sapevano e lo sapevano e lo so –
come un’alba tiepida, mirifica.
Le parole sono lesioni sulla lingua incandescente,
treni merce stracolmi di viandanti e chitarre;
chitarre che stropicciano gli occhi e
cade una goccia che precipita nel vuoto e
cade una goccia che si sta per frantumare.
Lì, nell’attimo macabro della caduta,
che le lettere incontrano il loro fulgore.
Lì che il mare trasporta i propri lamenti.
Lì, l’attimo dopo, il frantumarsi, che
li rende cronache e cisterne e
migrazione e tormento.
Cade una goccia.
La parola.
___________________________
NOTE
1 da un’intervista di Giuseppe O. Longo, informatico e scrittore
2 da una sua intervista del 2008
3 tesi dell’etologo e divulgatore scientifico Richard Dawkins
4 da un discorso della professoressa di retorica e scrittrice Jorie Graham
5 da “Conversazioni”, edizione Adelphi (2015)
6 dal romanzo “The ticket that exploded” di W. Burroughs
7 da un discorso del neuroscienziato e profossore francese Stanislas Dehaene
8 da “Conversazioni”, edizione Adelphi (2015)
9 frase ripresa dal libro di Carl Sagan, astronomo e divulgatore scientifico, “Pale Blue Dot”, la prima fotografia scattata alla terra dalla sonda Voyager 1
10 Adonis, dalla poesia “Una tomba per New York”
11 M. Strand, dalla poesia “Il taccuino di Sargentville”
12 “Notte stellata sul Rodano” (1888)
13 G. Pascoli, dalla poesia “L’imbrunire”
*[Le note 1,2,3,4,6 sono riprese dal libro NOVERAR LE STELLE, cosa hanno in comune scienziati e poeti, di Marco Pivano. Che vi consiglio di leggere.]