Il femminino e la sua voce di Antonella Lucchini, recensione di Alessandra Piccoli

Il femminino e la sua voce di Antonella Lucchini, Il seme bianco Ed, 2017, recensione di Alessandra Piccoli.

    

    

Antonella Lucchini ha scritto tre libri, tre libri in uno suddivisi in cinque blocchi. Le sue poesie vanno guardate, prima di essere lette, e poi sentite con organi diversi. Il primo blocco parla sicuramente alla pelle e lo fa con un erotismo psichico, tagliente, che si rivolge a questo organo di senso che è anche tessuto che protegge da eventi esterni, che cambia colore, che comunica desideri e paure, spesso attraverso il sangue.

Sei la macchia rossa in mezzo
al petto
quando rintocca l’inverno
ai vetri.
Mi consoli le vene rapprese
se il sangue si fa aceto
e mi sommerge.

Pelle che si addensa, che si tinge, che alza i peli, quindi.

Parli piano
ad ogni mio sottopelle
e lo spolpi.

Il linguaggio è carnale, raffinato, i richiami agli strumenti d’uso quotidiano e alla cucina e all’atto del mangiare non solo per nutrirsi sono potenti, scuotono l’immaginario dei sensi, urlano: sono viva, mi senti?

Amo definire le poesie di Antonella “circolari”.
La fine coincide con l’inizio, la morte tocca la vita e risale, l’autrice si attraversa, tocca il proprio dolore, lo trasforma in piacere e rinasce.
Il femminino (non solo sacro) è cerchio, è tempo, carne e voce che ritorna: eco dal passato.

Il secondo blocco parla ai polmoni, al petto:
panico, vertigine, sibilo, vento. Respiro, il vento è respiro.

Io non sono una vertigine, dice, no, non lo sono: io devo avere il controllo per non morire schiacciata e mi attraverso percorrendo ogni via, cercando la fuga fino ad uscire, fuori.

Il petto è lieve
ospitale
per il suo pugno rosso.
Sono viva.
Sono sempre viva,
anche quando sono sulla soglia
ad aspettare la guerra.

Il terzo blocco è fatto di quell’Eros denso che parla alla bocca, alla lingua, agli umori del corpo.
Le parole sono asciutte, pure ma intrise di metafore intelligenti, calcolate. Ogni verso è perfetto, bilanciato e studiato nelle assonanze.

Mi tieni in bocca
e mi sgrani
zolla dopo zolla.

Lo fa con le dita, con mani forti che spaccano la terra, i corpi, per entrare e fondersi con l’altro ritrovando il proprio piacere, mandorla del femminino, lo fa attraversando il maschio, per poi ritornare al sé, circolarmente.

Il quarto blocco parla al cervello, alla psiche.
Si fa pettirosso, che attraverso le stagioni vive, sopravvive, muore.

Arriva la primavera, perché la poeta non è immune, arriva con la potenza gravida di un’aria che ha le doglie.
L’estate scoppia furente e lascia una sete senza tregua, dice, l’agosto gratta il cuore.
L’autunno secca dentro, l’autunno è lupo.
E poi la neve sul bozzolo appena sfatto, e come morte spella tutto.

Fatti non foste a viver come bruti, il quinto blocco, della milza, del dolore. Nel titolo c’è tutto, sono poesie sul femminicidio, sul corpo rifiutato, maltrattato, straziato.
La terra fertile, Gea, madre di tutto e generatrice di equilibrio spaccata dal potere maschio.
Eva, piena di lividi, Angelica dal culo grosso, Marinella che andava bella alla chiesa dell’amore, Antonella racconta queste donne che sono tra noi, come Alina (Occhi di migrante) ma anche sempre troppo distanti come le bambine di Aleppo che i nostri occhi non vogliono vedere.
Perché la poesia non rimanga solo parola ma si faccia denuncia, soprattutto memoria.

“Le donne muoiono con gli occhi aperti
anche se fuori piove”.

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in apertura Auguste Renoir, “Paesaggio con ragazza”, 1890, Metropolitan Museum New York

 

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