Dalla raccolta inedita “Il girone dei morti assiderati”, di Giorgio Linguaglossa.
Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. È autore di tre libri di poesia: Uccelli (1992), Paradiso (2000) e La Belligeranza del Tramonto (2006). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, con Dante Maffìa, Giuseppe Pedota e Maria Rosaria Madonna il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicandolo nel n. 7 della rivista. Nel 2001, pubblica il racconto lungo Storia di Omero nel volume Via Pincherle – Modelli narrativi a confronto e, nel 2005, il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. È del 2003 il libro di saggi, Appunti Critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte, Roma, Libreria Croce. Come saggista è presente in Linee odierne della poesia italiana, a cura di Roberto Bertoldo (2001), ha curato la sezione critica dell’antologia La poesia degli anni Novanta (2002); nel 2007 pubblica il saggio Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia, Firenze, Passigli e, nel 2010, La nuova poesia modernista italiana (1980-2010), Roma, EdiLet. Nel 2010 esce il romanzo storico Ponzio Pilato, Milano, Mimesis. Nel 2011 esce per EdiLet Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010). Del 2013 “Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea.” Società Editrice Fiorentina.
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Il poeta morto
«La notte è la tomba di Dio e il giorno la cicatrice del dolore».
V’erano scritte queste parole in alto sopra la prima porta a destra;
una voce risuonò nell’androne: «Benvenuto nella galleria del dolore!»;
fu così che mi decisi… ed entrai.
C’è un bosco pieno di foglie parlanti che gridano:
«il presente è il passato e il passato è il presente».
C’è un chiasso del diavolo. Tante parole quante
sono le foglie. Una quercia mi parla:
«apri la prima porta a destra – mi dice – e segui la via della mano destra
che porta a sinistra».
Apro quella porta:
ci sono tre vascelli a vele spiegate
che un vento fuori cornice gonfia tumultuosamente.
Ma restano immobili. Anche il mare crestato
è immobile. Ogni dettaglio è nitido e percettibile
come seppellito nell’ambra da un milione di anni millimetri;
apro la seconda porta a destra:
c’è una colluttazione di ombre che entrano
dentro altre ombre e ne escono; lottano furiosamente
per il palcoscenico della mia anima;
«ma non c’è nulla per cui lottare, sono già morto!»,
pronuncio con un filo di voce;
“farsesca costipazione di ombre”, penso con tristezza
che anche loro sono morte e non possono udire le mie parole.
Attraverso come a nuoto la stanza; apro una finestra:
c’è una statua sulla piazza deserta
portici risucchiati dal vuoto
pontili su un mare di basalto
città di cristallo…
A tentoni nel buio della stanza apro un’altra finestra:
C’è una torre su un cortile deserto che
puoi udire il tonfo di una farfalla che cade dall’alto
e il lucore fosforescente di una luna gialla
che si posa sulla toga di un imperatore triste…
mi precipito alla cieca in avanti, apro una terza finestra:
c’è un calendario dal quale si staccano i fogli, un orologio,
una lapide sulla quale v’è inciso il mio nome e cognome
e la mia data di nascita… una scrittura annerita che gratto con l’unghia:
«Benvenuto nella cicatrice chiamata Terra»
«È tutto qui? – mi chiedo – non c’è nient’altro?».
L’angelo della nebbia piange in un angolo in ginocchio.
La notte profuma di tomba; anche la rugiada profuma di tomba;
La cicatrice chiamata Terra è un immenso campo santo di lapidi
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Il tedio di Dio
Guardavo al di là dei cancelli arrugginiti: transenne, cavalli di frisia e fili spinati.
«Qui ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra,
sono colpevoli di tracotanza – mi disse una voce dal buio –
assiepate ad altre ombre vivono nell’ombra».
Oltre le transenne c’era il sole bianco.
«Il tedio di Dio è un sole bianco che si è inabissato», mormorò una voce
tra le ombre.
“È un pensiero folle”, pensai e passai oltre le ombre maledette.
«La notte è la locanda di Dio, dove Dio prende alloggio per il sonno»,
disse un’altra voce da un altoparlante nascosto chissà dove.
“Vivono di notte – pensai – le ombre bianche della polizia segreta
che sono state dismesse come un abito”.
Sopra la spalliera della sedia accanto alla sciarpa rossa del giorno
c’è un salotto scarlatto: ad una gruccia sono appese le ombre delle uniformi,
pallide linci dagli occhi squamosi;
Kafka suona il clarinetto e Mozart fa l’impiegato del catasto,
il sole bianco tramonta
tra le alghe verdi dello stagno, uomini della polizia segreta
con uniformi militari perlustrano la palude
alla ricerca del sole inabissato.
Illumino con la torcia tascabile il buio:
periferia di una città inesistente, palazzi e strade di vetro,
archi e pontili trasparenti precipitano nel vuoto senza spazio,
bambine giocano col lullahop accanto a statue cristalliche.
“Ma non c’è anima viva”, penso ma è appena un pensiero:
mi metto una mano sul cuore
e mi accorgo con orrore che esce dal retro dello sterno.
«Il riso è il paradiso dell’Inferno»,
disse un’altra voce da un altoparlante posto in alto, sopra un parapetto;
ma ero sconcertato e mi affacciai a una finestra:
c’era il mare azzurro.
«Il bacio di Dio è un sole bianco – dissi tra me – che si è inabissato»;
“è un pensiero folle – pensai – non è quello che volevo dire…”
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Il bacio di un Dio notturno
Stridii di corvi sugli hangar di lamiera, squillii di uccelli noctiluchi
che sbattono la testa cieca contro il metallo…
“gli uccelli ciechi sono il bacio di un Dio
notturno, che si nasconde, il frutto del suo tedio”;
pensai questo pensiero sconsiderato,
ma non c’era più tempo… per me, per noi,
per i miei compagni di prigione,
per le guardie invisibili appostate dietro le torrette blindate
sul camminamento di ronda del muro alto…
Giriamo di nascosto la manopola della radio…
rumore di fondo, ronzii; pioggia nera sugli hangar,
dalle finestre tra le sbarre saettano fasci di luci
nel buio, riflettori vorticano nello spazio, voci di altoparlanti
ritornano nell’imbuto muto dei microfoni,
sibili di pantografi, sfrigolii di fili elettrici dell’alta tensione,
scricchiolii di lamiere divelte e percosse…
inavvertitamente, accendiamo la radio…
Proprio a quel punto, tra una marea di canzonette
comparve la voce:
«torna indietro e cancella»
mi disse; ma non era lo speaker.
«Perché?», sussultai;
«torna indietro e cancella»,
ribadì la voce dall’aria.
Così, tornai indietro e cancellai con cura
le tracce…
«Adesso puoi andare», mi disse la voce, e rientrai in cella
tra i miei compagni del sonno.
Carnevale delle ombre
«Benvenuti al carnevale delle ombre!»,
disse l’angelo Achamoth. Ed entrammo nel corridoio del carnevale.
Le statue bianche si avviarono sotto un giogo di ferro
e calcestruzzo eretto tra le finestre
lungo un corridoio cieco alle cui pareti pendevano
migliaia di volti in cornici dorate.
Dalla porta entrano in molti, dicono «buongiorno e addio»,
e ritornano nel buio da dove sono venuti;
altri figuri vogliono entrare dalle finestre, bussano ai vetri delle finestre,
lottano anche loro con le ombre; vogliono
diventare ombre.
Una triplice voce ci parla dai microfoni degli altoparlanti:
«Benvenuti nella galleria dei quadri morti»
«Lasciate i vestiti su questa spiaggia».
E noi lasciamo i vestiti sulla spiaggia ed entriamo nel mare
fino alla cintola.
Entrano in noi lentamente le ombre bianche
come un inchiostro nella carta assorbente;
la voce ritorna nel microfono, il microfono cammina nella sala d’aspetto,
il quadro si attacca alla parete, il mare si ritrae dalla spiaggia,
le ombre si staccano dai corpi, si allungano e camminano nel volo
dei gabbiani bianchi.
Dio scrive sull’acqua le parole che vuole nascondere,
un testo senza parole?, un pentagramma senza note?,
l’ascensore del silenzio sale nel sole assente,
il sole assente entra ed esce dal sole bianco.
Madame Hanska nell’atrio fa entrare le parole morte
e scaccia con un frustino le parole vive.
Le ombre prendono possesso delle statue bianche, ombre
anch’esse di altre pallide ombre; pallide linci di pallide ombre.
Portano una maschera bianca sul volto.
I geroglifici delle stelle vengono incontro
alle maschere bianche che portiamo sul volto.
Una Poesia visionaria, surreale, un viaggio sognato e a(gognato) sotto l’occhio s(morto) di un Dio annoiato, “un sole bianco che si è inabissato”. Molto belle le immagini e la voce narrante, tanto che ho dimenticato fosse Poesia leggendo, presa dalla curiosità dell’evento successivo, porta dopo porta, finestra dopo finestra e i gioghi di ferro e calcestruzzo attraversati dalle statue bianche verso un corridoio cieco. Tanto pathos, una stanza dietro l’altra, fra mare, ombre riottose, altoparlanti e quei gabbiani bianchi in volo. E molto altro. Splendide. Un caro saluto
Dietro un parlare scorrevole e di forma vicina alla prosa, questa narrazione di metafore (ché d’un susseguirsi e accavallarsi incessante di allegorie e di metafore si tratta) assiepa cose evidenti e cose oscure.
Tra le evidenti i riferimenti da Dante a Kafka; il volo “at a glance” nel mondo dei giudicati e insieme dell’assurdità del giudicare; il gioco ad uscire e rientrare nella veste del morto ovvero del giudicato, e insieme quella sorta di immunità fisica – o di finzione – che il sognatore sente nel corso d’un incubo, così che può, a tratti, essere indifferente al dolore proprio o altrui, o astrarsi da ogni tipo di domanda, perché tutto appare già fintamente logico razionale.
Ma questa lettura “onirica” conduce a significati oscuri e forse indecifrabili. Qua è là una chiave di lettura sembra aprire una porta: l’eone Achamoth avverte che qui ci son tracce di Gnosi (misteriosa conoscenza del sacro) ma subito scendono le tende d’un’ingannevole leggerezza. Questa sensazione che ci sia un oltre che il lettore è impotente ad indagare turba, confonde e un poco irrita. E credo che per l’autore questo sia il segnale d’un obiettivo raggiunto.