Il lavoro – per e di Giancarlo Sissa.
Giancarlo Sissa è nato a Mantova nel 1961. Vive a Bologna. Come poeta ha pubblicato nel 1997 “Laureola” (Book Editore), nel 1998 “Prima della tac e altre poesie” (Marcos y Marcos), nel 2002 “Il mestiere dell’educatore” (Book Editore), nel 2004 “Manuale d’insonnia” (Aragno), nel 2008 “Il bambino perfetto” (Manni), nel 2015 “Autoritratto (poesie 1990-2015)” (italic/pequod) e “Persona minore” (qudulibri). E’ presente in diverse antologie fra cui L’occhio e il cuore, poeti degli anni ’90 (Sometti, 2000), Il pensiero dominante, poesia italiana 1970-2000 (Garzanti, 2001), Le parole esposte, fotostoria della poesia italiana del novecento (Crocetti, 2002), Poesia della traduzione (Sometti, 2003), Parole di passo, trentatre poeti per il terzo millennio (Nino Aragno, 2004), Trent’anni di Novecento (Book Editore, 2005), La linea del Sillaro (Campanotto, 2006), Vicino alle nubi sulla montagna crollata (Campanotto, 2008), Calpestare l’oblio (Argo, 2010), 100Thousand Poets for change primo movimento (qudu libri, 2013), I volti delle parole (Fondazione TitoBalestra onlus, fotografie di Daniele Ferroni, prefazione di Sebastiano Vassalli, 2014),”Non ti curar di me se il cuor ti manca” (qudulibri, 2015 e 2016), Sulla scia dei piovaschi – poeti italiani tra due millenni (Archinto, 2016), “Passione Poesia – Letture di poesia contemporanea 1990-2015”(Edizioni CFR, 2016), “Centrale di Transito (ceci n’est pas une anthologie)”(Giulio Perrone Editore, 2016), “Officine della Poesia 1. Bologna” (Rosada 2018, Kurumuny Editore) Le sue poesie sono tradotte in diverse lingue europee. Ha collaborato come diarista e attore con il Teatro delle Ariette. Con Alessandra Gabriela Baldoni ha fondato la Compagnia di Teatro “La Porta Azzurra” che propone il work in progress “Rosaspina, il tempo del sogno”.
Ho fiducia che chi leggerà questi materiali li riconoscerà come tracce di un percorso non solo autobiografico e che si riterrà libero di fare i collegamenti che preferisce da testo a testo. Figlio di un operaio e di una casalinga ho iniziato a lavorare a dodici anni, al pomeriggio, dopo la scuola. Durante le scuole medie facevo il “piccolo” di un idraulico poi, al tempo del liceo, ho lavorato come “scompositore” in una tipografia (dove fra l’altro ho imparato a parlare a rovescio), durante i mesi estivi in campagna, la raccolta dei pomodori o i cantieri più vili e assolati, nelle nuove periferie, dove lavoravo come aiuto del manovale.
da “Manuale d’insonnia” (2004 Nino Aragno Editore)
dal poemetto NOI
II
… noi a studiare con fatica – strano,
figli d’operai! – e lavorare fra traslochi
impalcature e campi di pomodori noi
traditori in cerca di guai fra stronzi
contadini, piccoli industriali e ancor
più stronzi capomastri e manovali
o cani incazzati a morderci i pedali
delle bici in fuga su sterrati e strade
bianche e cimiteriali banche o estrattoconto
inesistenti e dunque esistenziali – i criteri
mortali dell’esclusione, della condanna
definitiva e silenziosa – noi a scoparci
a turno la più graziosa figlia del tale
direttore, fidanzata del futuro spacciatore
noi che non importa – non importava allora –
di bruciarsi via l’estate e la vita d’ora
in ora o l’altra – ma quale? – benedetta
maledizione: uno fracassato in vespa, uno
in volo dal cornicione, uno suicida
con due colpi di pistola nel petto – due, pensaci,
in successione … strano dispetto! – e tutto
senza voce, senza data o un poco di merdosa
compassione, tutto dato per scontato
il morire soprattutto per non fare
la rivoluzione – ecco qui i bambini
ragazzini del boom economico quello
settentrionale, quello del nord socialista
e industriale, quello di chi guai a chi sta
male! … prima la seicento poi la Giulietta
frigo, lavatrice, forno, televisore
e il vuoto di un’euforia da incorniciare
e niente e nessuna poesia ma la banda
dei bersaglieri in piazza la domenica
mattina e la messa di Natale e così via
… ovvero, e di lì a poco, migliaia di morti
in un guizzo di cielo sereno e silenzioso
a dare muto nome al muto veleno – ma
non si chiama sorte … quella socchiude
sorridendo le porte, fa come qualcuno
che ama e non perdona … no, questa
suonava un tamburo per convenzione
nero, vale a dire senza suono e ustionato
come le stragi di stato e altrettanto
poco sincero ma vero vero vero … –
In carriera poi, si fa per dire, ho collezionato non meno di trenta lavori diversi, dal camieriere all’archivista fino all’Educatore, questa volta e da molti anni “professionale”.
In effetti, se non fossi convinto da sempre che il cambiamento è possibile per ogni essere umano e che il senso profondo della professione educativa è fatto della presenza autentica di ognuno di noi nella relazione non avrei fatto l’Educatore. Se fossi un Utente di non importa quale Servizio e sentissi o sapessi che la persona che ho di fronte non crede possibile una vita migliore anche per me non la vorrei come interlocutore, non mi fiderei di lui o di lei. Le bambine e i bambini abusati e maltrattati, che abbiano tre o sessanta anni, hanno bisogno di sapere e di sentire che qualcuno crede in loro e che la loro fatica e il loro dolore hanno un senso. Un Educatore è sempre un testimone attivo di questo sconcerto e di questa speranza. E questo, per me, ha molto a che vedere con la poesia.
da “Il mestiere dell’educatore” (2002 Book Editore)
Posso giocare a calcio
per ore con i bambini
e sentire quasi amore
per lo sgambetto per la finta
o il tiro a rete persino
per il loro afrore
e resistere alla sete
urlare torna, fallo, marca,
non devo spiegazioni
in fondo come loro intento
a sudare le mie tentazioni
o bere a collo dalla bottiglia
appena riempita alla fontana
ma solo a partita finita,
posso togliermi la camicia
e inginocchiarmi sul pavimento
a spingere una automobilina
su una pista di cartone
inventare una stupida canzone
e sentirmi contento
o aspettare la merenda
alzare il dito ammirare
sfinito il caso della pallina
da ping pong in equilibrio
sul dizionario di francese
placare risse, asciugare offese
recuperare dal bidone
il quaderno di matematica
fare finta di capirne d’informatica
sentire quando il dolore
si fa lato scosceso della realtà
guardarli in faccia con lealtà
ascoltare le madri, stringere
la mano ai padri ogni volta
stupito di non avere mai capito
perché se mi sento vivo io
con i loro ragazzi loro
debbano poi lamentarsi sempre
di mille cazzi
*
Del resto non ho nulla
in contrario a che mi pensino
una specie di lupo solitario
uno sconfitto dalla vita
che si allontana a sera sulla bicicletta
riverniciata a mano, la mia giornata
– ma loro non lo sanno –
non è finita,
ho tutto il tempo
di pensare perché mai
non ci hanno saputo amare,
penso alle scarpe da ginnastica
sudate, al sorriso superiore
dell’assistente sociale, mi sento
uno strano animale che beve
birra di notte e il giorno dopo
corre al lavoro a prendere
le sue botte, penso al taglio
sulla guancia, alla mano rotta,
alla clavicola sconnessa,
e non so più nemmeno se la colpa
sia sempre la stessa: d’arrampicarmi
sugli alberi per recuperare
il pallone o sui sogni per non vivere
da coglione e del resto
non mi presto al dibattito
né al compromesso non so
fingere me stesso, in fondo
il viaggio dell’acrobata
è verso l’alto e piuttosto
di cadere salto, per questo
mi ascoltano i bambini anche
se grido, per me non sono cretini,
e dunque non ho nulla
in contrario, mi pensino pure
un pirla visionario con la bicicletta
riverniciata a mano: non l’ho rubata
è un regalo di chi amo
*
Così, se mi piace guardare
gli altri lavorare, chiedi
e non sai che a ovest
la pianura scolora in laghi
sotto il cielo e a est d’inverno
ghiaccia in brina di vento luminosa
dal freddo impazzite certe mattine
che io da bambino invece no
ero contento se il freddo
mi spaccava le mani nei cortili
incendiati dal gelo mi sbucciavo
le ginocchia – e questo bambino
sempre lì che scrive che colora
che pastrocchia! – ma guardi
no che fa un casino
molto arrabbiare, corre
salta sbraita impossibile
farsi ascoltare un terrorista
un sabotatore – trentotto
anni: scrivo, pastrocchio
faccio l’educatore
*
E se mi mettessero in galera
almeno potrei riposare
pregare ad esempio
che certe sere di solo cazzate
potevo inventarle due preghiere
che qualche volta la rabbia
si poteva dire non solo
urlare – ma troppo smarriti altri
nell’affanno del guadagnare –
e poi non sono io che sono
bravo adesso ma il bambino
che non vuole più scordare
di essere sé stesso, così
non chiedere perché o cosa
fa un educatore – guadagnare
nemmeno se lo sogna – invidia
la verità dell’operaio
la fatica del muratore
La fatica del muratore, dell’operaio, del povero. La fatica di capire che ora come allora non si accorgono più di noi, e che possiamo dunque uscire dal nulla di questo vino da poco prezzo e camminare via nel sogno tuo e mio, nello stesso mattino.perché in cielo ci sono i segni del grano. E quante cose scrive la pioggia sui quaderni. Sul tavolo ci sono una piccola luce in lontananza, una barca, un albero, un cervo, uno specchio e le nostre voci piene d’alba che attraversano il tempo. Quanta pioggia nei romanzi più belli. E nella morte della madre di Francesca. Dobbiamo farci gelosi, parsimoniosi e alacri. Dobbiamo illustrare la traversata. Gioire. Portare l’allarme del mondo nelle mani. Medicare le ginocchia dei cortili. Riconoscere dall’odore ogni anno.
da “Il bambino perfetto” (2008 Manni Editore)
Tu lo sai che gli operai si salutano per cognome – al massimo il soprannome – per loro atavico imbarazzo e residuo di schiavitù. Operai da stirpi – se va bene – e per rinnovata sudditanza padri di padri e figli di figli: ma pure senza di loro le parole avrebbero meno significato – ad esempio città, lavoro, mano, ferro, vino, opera, poesia – anche se non hanno tempo per leggere poesie o lo fanno a sera con gli occhiali sbagliati e gli fa piacere magari prima della pensione sentirle leggere da qualcuno – ad esempio nel 1995 una volta a Mantova che leggevo con altri poeti in una piazzetta gonzaghesca – invitato dal comune che mi scordava fra i suoi nati – davanti a duecento persone i miei genitori in prima fila che quando ho letto una signora ingioiellata ha sussurrato alla vicina “Sissa … deve essere il figlio del notaio” e mio padre sottovoce “No siora, cal lì l’è fiol ad n’operaio” con mia madre che gli stringeva il braccio nel timore di chissà che bavetta anarchica o mancanza di rispetto e guarda, rima a parte, la musica non è del sangue? – ma gli operai non hanno paura, sono eleganti più degli eleganti come vedi, costruiscono il mondo fino a prova contraria, non hanno gloria da condividere e la loro carne fracassata sotto le presse o cotta dalle fiamme industriali conosce un silenzio di guerra che non trovo sui giornali quando poeti, critici, intellettuali, e altri mangiapane a tradimento scrivono del potere dal potere nel potere. Hanno mani importanti gli operai, complesse come vini d’annata, e una faccia vera anche nell’alba più disperata. Ecco, mi fermo un attimo sulla parola mani – o ruggine, dio, altoforno, vernice, pinza, compressore, turno, turno di notte, amianto, o cancro, silicosi, o avanguardia, élite, o gruppo editoriale, o salotto, recensione, reparto verniciatura, tenda ad ossigeno o busta paga, infortunio, sindacato, nebbia, previdenza sociale, comico tivù, calce, secchio, trattore, cassa integrazione, sciopero, calciomercato, velina, centravanti, premier, tuta, sogno, protesi, trave, impalcatura, sedia a rotelle, dignità, canottiera, sangue, pensa chi era, pensa chi la portava il giorno che io e te facevamo i comunisti, il giorno che abbiamo votato – ecco, chi non ci ha mai pensato – che se togli la parola mani nessun’altra ne esiste – si deve vergognare e a noi chiamarci per cognome, di generazione in generazione
*
ancora da “Manuale d’insonnia” (2004 Nino Aragno Editore)
dalla sezione OTTIMISMO DEL COMUNISMO
OPERAI
Da turno a turno l’ammicco sulle facce
stanche e rugginose di fiamme e di vernice
la stretta di mano come saluto o il bianco
dello spaccio, un po’ frizzante,
e poi l’abbraccio, ma per cognome,
prima della nebbia sulla statale
– molto vera, quasi lamiera, molto
poco intellettuale – sempre votato picì
mai diesse, mai consumato il tradimento,
chiosa uno – e come dalla ciminiera fumi
e gas via li porta a sera il vento
in schegge mute della combustione
questi “nessuno” e i pochi loro sogni
della noia la domenica al balcone –
*
COME UN CANE
Come un cane che si scrolla
dal pelo l’acqua della notte
cui si accarezza il muso
ma disgusta poi la bava
delle lotte soprattutto
se nello stabilimento
si consuma il nome atroce
del fallimento e nel percorso
elettrico di arterie tendini
e di vene brilla il solito
povero odore di rifiuti
smalti e ulcerate saldature
post mortem inchiodato
a una penombra purgatoriale
di sciopero generale
che ai gas d’autunno vibra
e trema tramanda ancora
e in vita muore rimuore
e si spolpa appunto come
un cane che fra l’erba fruga
e fra le merde del giardino
la sua mappa del destino
*
E SE CI HA INGANNATI
E se ci ha ingannati
il connazionale manganellato
sbattuto in galera senza condizionale
“davanti al cantiere” racconta
“per resistenza a pubblico ufficiale”
a me intento a una foto
nella luce inquieta del Palazzo Reale,
se ci ha ingannati, perché gli credo?
tremante la sua voce forse di vino e miedo …
… resta fra parentesi l’episodio
ai suoi ventuno giorni dalla pensione
dopo anni di lavoro in giro per l’Europa,
e io non ne ricordo il nome, ma lievita
in una piega del cielo di Madrid
un’ala formidabile di vento – da vamos
a tomar la copa! – e piange invece piano
ma un po’ troppo, francamente,
l’operaio di Boario – chissà se mente –
al quale diamo due banconote azzurre
del nuovo conio e anche il suo grazie arriva
come da un acquario opaco di sconforto
o dalle rovine di chissà che sogno – ci stringiamo
la mano, ognuno per la sua strada
ma troppo ormai diversa, come
d’altra mattina – e se ci ha ingannati
perché gli credo? in fondo
è irrilevante la prigione, un po’ di botte
o la rapina, e peggio ancora se la sua vita
non ha avuto altro prima …
Si può ridere delle domande. E anche della miseria di chi ride. Ma le domande restano in chi toglie il dolore dal mondo – mentre a chi ride resta il ridere e, se gli va bene, un ufficio di banca . Ma ormai i giorni si confondono, le notti non riposano, il vecchio calendario è solo l’ipotesi d’un alfabeto alieno. Nel fianco sinistro a volte cresce da anni un nuovo cuore che butta acqua lenta e silenzio. Il tempo che ci attraversa è l’inutilità del dire, il certo sconforto delle parole. Accadono più meraviglie nel silenzio d’una goccia d’acqua che in mille rivoluzioni. E allora vengono buone le considerazioni d’un vecchio, rubate al bancone d’un bar di periferia:
Quando si va in pensione bisogna godersela, se si può – dice l’anziano con l’ossigeno, al bar – non faccia, signora, dice alla barista, il mio errore, lavorare a oltranza non conta niente, niente! regalare piuttosto, mi creda.
*
da “Persona minore” (2015 Qudulibri Editore)
L’azzurro che bagna il tavolino è un vecchio che intreccia la geometria del cesto. Il bicchiere di tè impolverato al sole. Anche il toro è un angelo stupito. C’è una luce di vigilia nei frutti del mattino, un’allegrezza d’equipaggio, l’impazienza che scaglia i semi umani, il pane impastato dalle mani in uno sputo di luce. Cosa sarà l’ultimo giro del sangue? i sogni vani della fame? E quell’uomo, passata Plaza de la Angustia, che vende lumache e insalata è il Cristo dei suoi fratelli o la luce notturna del mare in una festa di whisky e gonne leggere, papaveri, porte azzurre alle spalle dei fiori?
*
Considerazioni recenti e provvisorie (2017 – 2018)
Si sta meglio da questa parte del porto, dove giovani e vecchi giocano a carte, con le maniche della camicia “fatte su” e gli stivali di gomma. E tuttavia è dall’altra parte che con insistenza mi chiamano Gianfranco, con sguardo miope scambiandomi per mio padre che pure non conoscono. Le parole oscillano come reti gettate alla notte, rose pensose in bicchieri d’osteria.
*
Il mondo bici-treno-bici è un mondo più gentile, un mondo operaio, romantico, d’altri tempi. La bici induce solidarietà fra i pendolari dell’ennesimo treno all’alba – e per fortuna, dai finestrini, i campi di girasole – la bici chiede una sveltezza un po’ da staffetta partigiana e un po’ da sorridente dopoguerra o da canottiere bianche lanciate nella brezza della sera d’un cinema all’aperto. Ha sorrisi stanchi e gambe allenate la gente che lavora, lo sguardo antico della fatica, una strana gioia nella prima pedalata.
*
Eppure sento con chiarezza che non sono riparabile. Troppe cose si sono rotte in me. E da me volentieri congedo le persone convinte che basti avere ragione o torto per fare la guerra. E le persone che scompaiono perché pensano d’essere finalmente felici – molta della loro tristezza ho accolto negli anni e oggi è il loro dono. Ma soprattutto le persone presuntuose che pensano di sapere cosa vivono gli altri e dunque di essere immortali. E infine le persone che insultano perché credono che gli altri si comporterebbero come loro. Le vuote invenzioni della storia in realtà non hanno sapere. A chi non sa cosa sono la fatica del lavoro e la gioia della povertà dignitosa resti pure il suo stesso sdegno – persino la vergogna sarebbe un privilegio.
*
Molti di questi del resto hanno gli occhi pieni di soldi. Non possono vedere niente altro che se stessi con gli occhi pieni di soldi. E’ meritato, pensano, avere soldi, molti soldi, ereditare molti soldi. E’ meritato, è giusto, è sacrosanto. Non direbbero mai che è bello. O che è buono. I soldi sono il loro giudizio. I soldi non sono arte ma diritto e vendetta. Pretendono attenzione immediata. Si compiacciono gli uni gli altri d’averla ottenuta. Sequestrano i piatti. Presidiano le rotte di rifornimento. Per loro arte è comperare un quadro. Per te Arte è fuggire da loro. Non vendergli nulla tu che puoi, tu che non hai soldi, non vendergli nulla, lasciali nella loro giustizia vuota.
*
Ecco, mi sembrava di poter dire questo – e di poterlo dedicare a mio Padre e agli operai, e a mia Madre e alle donne e insomma alla gente onesta che lavora.