Il linguaggio dell’Iconografia. Nella foresta dei simboli: il Liocorno, di Raffaella Terribile.
La mostra sul Simbolismo a Milano si è chiusa da poco e chi ha avuto l’occasione di visitarla ha potuto cogliere l’estrema ricchezza di una stagione artistica che come poche altre ha saputo fondere l’esigenza del nuovo con le suggestioni più profonde legate al utilizzo del mito e dei simboli che lo rendono eternamente attuale. Nell’epoca che vide la nascita del Positivismo e della Tecnica, la costruzione del Chrystal Palace e della Tour Eiffel e l’apertura delle Prime Esposizioni Universali, i pittori simbolisti recuperano quasi in extremis il linguaggio romantico spostando però l’attenzione sull’approccio individuale, sull’estetismo fortemente intrecciato alla poesia di Baudelaire, Verlaine, Mallarmé. Amano le atmosfere brumose, sospese. Inseguono un’arte preziosa, preservata dal contatto con il Realismo borghese, elitaria, aristocratica, intellettuale nel recupero dei suoi miti. Il silenzio della foresta di Arnold Bocklin è, in mezzo a tante altre, un’opera che sicuramente colpisce l’attenzione. Ma offre anche un’occasione per riflettere sui linguaggi dell’arte e sui “palinsesti” su cui gli artisti creano da sempre le loro immagini. Linguaggi intesi come modalità espressive e come recupero e utilizzo di tematiche che hanno una lunga tradizione iconografica.
Bocklin è un pittore dell’Ottocento diventato famoso per opere fortemente ispirate alla mitologia e contrassegnate dall’ossessione della morte, come è evidente nella sua opera più celebre, L’isola dei morti. Visse diviso tra la Germania e l’Italia, innamorato di Roma e Firenze, nei cui dintorni comprò, quasi al termine della sua vita, una villa dove poi morì. Il quadro misterioso esposto alla mostra sul Simbolismo possiede già di per sé un titolo evocativo, ma contiene soprattutto un fascino straordinario. Rappresenta una foresta di cui si intravedono alti fusti di alberi coperti da muschio, con la penombra che nasconde i dettagli delle cose, e da questa penombra ecco affacciarsi un unicorno con un alto corno in fronte e sulla cui groppa siede una figura ambigua con gli abiti che sembrano brillare d’argento, comodamente seduta sull’animale. L’unicorno, diversamente da quello che ci si potrebbe aspettare, è quanto di più realistico si vede nell’opera, al punto da sembrare quasi un asino pezzato cui sia stato posto un corno al centro della fronte. Mentre attraversa la foresta, volge lo sguardo verso una striscia di luce che fende lo spazio tra gli alberi. Quella luce si trova proprio all’estremo lembo destro del quadro, e la creatura mitologica è come ipnotizzata da essa. Il titolo rappresenta al meglio le sensazioni trasmesse dal quadro e il pittore, nella linea più ortodossa del simbolismo, riesce a trasmettere il dato percettivo del silenzio e della calma ovattata dell’ambiente. L’opera raggiunse presto una grande popolarità, tanto da entrare nella rosa dei capolavori dell’epoca. La sua fortuna è testimoniata dall’omaggio che le rivolse il pittore belga René Magritte con Firma in bianco. Parole come queste spiegano come la citazione artistica esca dalla mera formalità: “Le cose visibili possono essere invisibili. Se qualcuno va a cavallo in un bosco, prima lo si vede, poi no, ma si sa che c’è. Nella Firma in bianco, la cavallerizza nasconde gli alberi e gli alberi la nascondono a loro volta. Tuttavia il nostro pensiero comprende tutti e due, il visibile e l’invisibile. E io utilizzo la pittura per rendere visibile il pensiero“. E, ancora, “…nell’apparenza del mondo reale stesso finii col ritrovare la medesima astrazione presente nei quadri; nonostante le combinazioni complicate di particolari e di sfumature di un paesaggio reale, potevo vederlo infatti come se non fosse altro che un fondale collocato davanti ai miei occhi. Divenni allora poco certo della profondità delle campagne, fui assai poco convinto della lontananza dell’azzurro chiaro dell’orizzonte, tutti gli elementi che l’esperienza immediata situava semplicemente all’altezza dei miei occhi. Ero nel medesimo stato di innocenza del bambino che crede di poter afferrare dalla sua culla l’uccello che vola in cielo”. La differenza è tutta qui. Mentre l’operazione di Bockin è quella dello scandaglio nelle profondità della terra per rappresentarla come universo primordiale e minerale, attingendo a un patrimonio mitico quasi “ancestrale” che assolve il ruolo di chiave semantica dell’enigma, Magritte lascia che il mistero si compia davanti allo sguardo dell’osservatore senza fornire ipotesi di lettura se non quella dell’assurdo. La foresta non è una foresta antica, popolata di simboli. E il cavaliere lascia il posto a un’elegante amazzone, in sella a un comune cavallo. La surrealtà ha ormai scardinato le coordinate logiche dello spazio e del tempo. Più vicino a Boklin un altro simbolista, Gustave Moreau, autore di un disegno dal titolo Il poeta persiano. Lo schema è molto simile e l’opera sembra celebrare l’origine antica del mito nel suo legame con l’Oriente, con la saga di Gilgamesh. Lo stesso schema ritorna, con una variante, in un dipinto successivo dove, ad accompagnare al passo l’animale, è una figura femminile nuda, salvo che per il mantello che le ricade dietro le spalle e un cappuccio sulla testa, riproposto con qualche differenza in un altro dipinto. Si tratta di un liocorno femmina, che da pendant dialettico della fanciulla assume qui quasi il ruolo di replica fantastica come si vede dall’identica simmetrica postura del corpo. Le fronde dei salici ricadenti come un tendaggio strappato isolano la figura facendola emergere nel suo biancore innaturale, con la sua posa ieratica, quasi da sacerdotessa di un rito pagano misterioso, e ciò che si respira sembra anticipare le atmosfere oniriche di Max Ernst, popolate da fanciulle in perpetua e inquietante metamorfosi con una natura circostante misteriosa e sfuggente.


Più fiabesca la versione in Les Licornes, dove la preziosità dei dettagli delle stoffe e dei gioielli, la serrica sensualità delle carni nude, le pose languide e flessuose, fanno pensare alle gioie sensuali dell’Oriente mitico vagheggiato da Delacroix. Le figure femminili sembrano evocare le sorelle inquietanti Cleopatra, Dalila, Salomé, Saffo, Leda che popolano i sogni dell’artista. Il colore, picchiettato più che steso sulla tela con piccoli tocchi sulle figure in primo piano e con segni paralleli orizzontali sullo sfondo, rimane denso e perlaceo, ricerca le tonalità brillanti e i contrasti luministici in un gioco prezioso di contrappunti. Un pittura evocativa che sembra suggerire gli orizzonti della terra dove il Mito ha avuto origine. L’Oriente misterioso e l’Antico lontano. Ma dove? La traccia da seguire, per non smarristi in una fitta foresta, è quella di una lotta sotterranea tra il bene e il male, tra le pulsioni dell’eros e l’aspirazione angelica alla purezza.


Accanto alle sirene, alla lira e alla testa di Orfeo, alla Sfinge e a Medusa, il liocorno è entrato relativamente più tardi nell’immaginario figurativo. Si può dire senza paura di esagerare che, nel Medioevo, chi avesse osato avanzare dubbi riguardo all’esistenza dell’unicorno, sarebbe stato tacciato non solo di ignoranza e malafede ma anche, e soprattutto, di eresia. Le fonti che documentavano con assoluta certezza la presenza di questo animale in remote contrade d’Oriente erano tante e tali da non poter essere messe minimamente in discussione. Due erano i canali principali attraverso i quali si era diffusa la leggenda dell’unicorno: uno, che potremmo definire “classico”, procedeva da Ctesia (il primo a nominare l’unicorno nella storia della letteratura, tra V e IV secolo a.C.) ad Aristotele fino ad arrivare a Plinio; l’altro, più tipicamente medievale, risaliva al Phisiologus, bestiario greco del II secolo d.C. che raccoglieva leggende sugli animali interpretate come allegorie di stampo cristiano. Ctesia, medico e storico che parla dei poteri benefici del suo corno: ” Vi sono asini selvatici in India, simili a cavalli e più grandi; sono bianchi di corpo, col capo rosso purpureo e gli occhi blu. Hanno un corno sulla fronte della grandezza di un cubito; la parte inferiore del corno, verso la fronte, nella misura di due palmi, è completamente bianca; la parte superiore del corno è appuntita, questa è del tutto di un rosso purpureo; per il resto, quella nel mezzo è nera. Coloro che hanno bevuto da questi [corni]-ne fanno infatti delle coppe- dicono non sono presi da spasmi, né dal morbo sacro, ma non soccombono neppure ai veleni se, sia che li abbiano ingeriti prima o dopo, bevono vino, acqua o qualche altra bevanda da questi calici(…)”.
E’ curioso che le prime attestazioni iconografiche risalgano all’epoca cristiana, ben dopo la divulgazione delle leggenda da parte delle fonti letterarie, e che l’arte antica, greca e romana, non ne serbi traccia, diversamente dalla figura di Pegaso, già rappresentato sui rilievi del frontone del tempio arcaico di Artemide a Corfù (600 a.C.circa). Del Phisiologus, molto famoso nell’Oriente cristiano, esistevano traduzioni in copto, siriano, armeno e arabo. Nel V secolo comparve anche la prima versione in lingua latina che fu alla base della nascita del cosiddetto Bestiario, diffusissimo nel Medioevo, fonte primaria di ispirazione degli artisti e, attraverso scultura e pittura, entrato in profondità nella cultura popolare grazie all’utilizzo simbolico di figure come il pellicano, il leone e, appunto, l’unicorno, presenti ovunque nell’iconografia cristiana. La Bibbia stessa poi, pur non fornendone mai una descrizione esplicita, menzionava per ben sette volte l’unicorno poiché era con questo animale che gli ignoti traduttori (i “Settanta”) della versione alessandrina del III secolo d.C. avevano identificato l’animale fantastico Re’em presente nei testi sacri. Ma come si presentava l’immagine dell’unicorno? Al suo primo apparire nel mondo della rappresentazione figurativa, si componeva di una sintesi più o meno arbitraria delle due tradizioni, quella greca che lo voleva simile ad un asino selvatico e dotato di un bel corpo bianco grande come quello di un cavallo e anche di più e quella del Phisiologus che lo rappresenta invece assai più piccolo, simile ad un capretto con la barba. Capitava che a prevalere fosse ora l’elegante immagine del cavallo, come in un mosaico dell’Abbazia di S. Benedetto a Polirone (Mantova), ora quella dell’animale minuto come nell’affresco di San Pietro in Valle a Ferentillo (Terni), ma più spesso l’incrocio tra le due fonti portava alla creazione di nuove ibride varietà, come quella che si può vedere nel tappeto musivo del Duomo di Otranto. Il suo aspetto e la sua rappresentazione variano molto, da quello di un cavallo con le zampe di elefante a quello di un uomo-unicorno che è in realtà la sua origine. Nell’epopea indiana di Gilgames un uomo per metà gazzella che vive nel bosco viene sedotto da una donna inviata dal re Gilgames. Grazie a lei perderà la sua componente animalesca per diventare sempre più umano e condotto alla corte del re ne diverrà il migliore amico. Questo mito comprendeva un aspetto di incivilimento e innalzamento tramite l’intervento femminile che con la progressione dei secoli si modificherà radicalmente, attraverso molti territori assorbirà contributi diversi che lo trasformeranno nel bianco cavallo che ci immaginiamo oggi in Europa con il nome di “unicorno”, creatura ribelle che solo una fanciulla vergine era in grado di domare. I tre esempi citati (Polirone, Ferentillo, Otranto) sono pressoché coevi e risalgono alla seconda metà del secolo XII. I numerosi unicorni che furono raffigurati in capitelli, vetrate, affreschi e arredi sacri nel corso dei secoli erano, tranne qualche rara eccezione, figure del Cristo e ne rappresentavano attraverso il corno, la potenza, l’unità con Dio Padre e la purezza (il corno sapeva scoprire le impurità, i veleni e le minime alterazioni in qualsiasi sostanza).


Verso la metà del XIII sec. cominciò ad essere molto popolare la leggenda della cattura dell’unicorno grazie a una vergine sul cui grembo quest’animale forte e selvaggio avrebbe posato spontaneamente la testa trasformandosi così in una facile preda per i cacciatori. Vedendo nella vergine la figura di Maria e nel cacciatore quella dello Spirito Santo, si lesse la cattura dell’Unicorno come una allegoria dell’immacolata concezione e la rappresentazione dell’unicorno conobbe una notevole diffusione parallelamente all’incremento del culto mariano. Anche il Petrarca lo associa, nei suoi Trionfi , alla purezza e alla castità. I primi accostamenti tra la Vergine e l’Unicorno sono rintracciabili nel Phisiologus. Codici miniati, come il Bestiaire d’Amours Richard de Fournival (Parigi, 1325-1350) o il Bestiaire di Pierre de Beauvais (1210-1218), arazzi, come la celebre serie de La Dama e l’Unicorno, mosaici, affreschi, sculture, vetrate, cassoni nuziali, araldica, testimoniano la fortuna dell’iconografia dell’unicorno (o liocorno), che attraversa intatta i secolo fino a noi.



