Il luogo in cui scrivere, di Alberto Cini

Il luogo in cui scrivere, di Alberto Cini.

    

    

       Ci sono luoghi, nella casa, come si è appunto detto, che non sono suscettibili completamente alla copertura ed alla chiusura che le pareti ed i vari contenitori svolgono. Anzi essere chiusi, rispetto a certe funzioni interne dell’essere umano è una risorsa, certe volte anche l’unica possibilità.

       Gli sciamani nel territorio americano si avvolgono in una pelle di bisonte, si chiudono in quell’oscurità per riuscire a liberare il loro spirito nei riti di guarigione o di conoscenza. Non sempre chiudersi significa rinchiudersi. Il letto o la scrivania, o il luogo del relax sono centri di lancio di una parte più fine dell’essere che necessita il graduale abbandono del corpo fisico.

       Il luogo dove si scrive, la scrivania appunto, ma anche tutto ciò che la circonda, è la pista di lancio della percezione immaginaria. La produzione fantasmatica e logica negli spazi creativi, è un fiume in piena che non cessa, al modificarsi del luogo fisico. Quando si è vissuto come parte del sé lo spazio dove risiede lo scrivere, l’azione prosegue anche sulla scrivania interiore, anche se le condizioni non permettono la stanzialità o ci si trova in condizioni avverse.

       Stephen King si è costruito nel tempo, il suo luogo in cui scrivere, proprio nella cantina della sua casa, e quando ne parla, parla di uno spazio particolare: “Il mio nome è Stephen King, sto scrivendo la prima stesura di questo capitolo alla mia scrivania (quella sotto lo spiovente) in una nevosa mattina del Dicembre 1997.
(…) io sono in un altro posto, una cantina dove ci sono un gran numero di luci brillanti e immagini nitide. È un posto che ho costruito per me nel corso degli anni. È un posto da cui si guarda lontano.
(Stephen king- on writing – Ed. sperling & kupfer pag.97)

       Mi è piaciuto molto questo “guardare lontano” ne parla come un luogo magico dal quale guardare il mondo. La scrivania come centro della propria espansione.
Ma come si recupera questa dimensione quando ti è negata, quando sei impossibilitato ad usufruirne, perché qualche ragione ti ha portato lontano da casa. Per molti non è un problema, anche per molti scrittori, ricordo bene quando ero ragazzo la faccia divertita e forse ammirata di mio padre che mi diceva: “Monpassand… ah lui… noleggiava una barca e se ne andava una settimana con una bella donna e tornava con i suoi racconti belli conclusi…” A dire il vero non ho mai controllato se questo mito paterno fosse vero, forse, non l’ho mai messo in dubbio, era nello stile. Anche per altri scrittori giramondo, giornalisti. Ma quelli che hanno la casa “dentro” sono un’altra cosa, quelli che non sono avventurieri fuori, ma come Salgari che era un avventuriero dentro, dentro casa, al massimo da giardino, dove schiacciava le bacche di sambuco per usare il succo come inchiostro dalla povertà che aveva… avendo tempo, un giorno, mi farei una bella lettura per vedere la differenza di scrittura tra scrittori da casa e scrittori da esterno… così è per Don de Lillo: “Quando sono lontano da casa, mi porto la macchina da scrivere, ma ci vogliono giorni per abituarmi al nuovo ambiente. È uno shock non avere il proprio tavolo, le proprie pareti, certe immagini, le fotografie, gli oggetti, i libri. È come essere spersi nello spazio, e ci vuole un’eternità ad assestarsi”.
(Don de Lillo – benefici dell’invisibilità –a cura di Maria Nadotti, linea d’ombra, n. 77 dicembre 1992 – cit. scrivere è un tic Francesco Piccolo – minimum fax) Riassestarsi appunto, ritrovare il proprio centro, perché tutte le idee possono essere sepolte nel centro infinito di se stessi.

       Io ho sempre esteso, anche nel sonno a questa rassicurazione, quando andavo via con gli amici, nei rifugi montani, portavo con me anche qualche cartolina da appendere alle pareti, una piccola scatola di cartone decorato che facesse da comodino, una piccola abat jour a pile. Sono riuscito anche a scrivere a mano, in quei luoghi impervi, ma il vantaggio delle zone alpine è che gli arredi sono sempre caldi e confortevoli, sempre in legno, ed un tavolino non manca mai. Ricordo anche che ero con i miei genitori, a Cavalese o zone limitrofe, non avevo niente da fare, ma nemmeno voglia di passeggiare, quindi scrivevo storielle, favole, andate perdute. Scrivere e mangiare torte, un po’ d’equitazione, passeggiatina locale e via un’altra storiella… non proprio come Monpassant ma poteva essere un’inizio.

       Le vacanze non mi sono, sinceramente mai piaciute, forse perché nella prima parte della mia vita, non ho mai lavorato, a parte qualche lavoretto estivo a vent’anni in case vacanze per bambini, lavoretto vacanziero. Non lavorando non sentivo la necessità di andare in vacanza, anzi allontanarmi da tutti i luoghi d’interesse mi annoiava, come quando chiedevo se Firenze fosse un gioco, il principio è rimasto lo stesso e anche adesso che ho un certa età, non le gradisco. Preferisco, come si suole dire fare villeggiatura. Difendermi dal gran caldo estivo trasferendomi in un luogo fresco dove possa trasferire per qualche mese le mie attività, ma continuando a sentirmi stanzialmente a casa. Comunque dopo le vacanze ritornare è sempre un piacere e lo dico con Cechov:
“Eccomi finalmente a casa, seduto davanti alla mia scrivania! Prego i miei sbiaditi penati e vi scrivo. Ora provo un senso di benessere, come se non fossi mai stato via di casa”. (Lettera ad Aleksej Suvorin, Mosca 9 Dicembre 1980 – A. Cechov – Trama senza finale – Piero Brunello – ed. Minimum Fax)

       Quando avevo trentatrè anni mi operai alla schiena, fu un periodo molto duro perché l’intervento venne molto tempo dopo che soffrivo, le cure sembravano inutili anche per solo alleviare il dolore. All’intervento chirurgico bisognava arrivarci solo se necessario, ma non sembrava facile diagnosticare bene ciò che bisognava fare. Rimasi fermo molti mesi. Prima dell’intervento, il continuo dolore mi aveva alterato il sonno, mi ero fatto mettere il materasso sui due tatami, pavimento giapponese che avevo in sala, e stazionavo tutto il giorno in quel luogo, per non disturbare gli altri famigliari con i miei ritmi strampalati. Il dolore ai nervi della schiena era atroce, non riuscivo nemmeno a fare i bisogni fisiologici, le piccole contrazioni interne di addome e vescica scatenavano acute fitte alle gambe. Difatti poi rimasi paralizzato alla gamba destra. Fu una grande esperienza, non da rifare, grazie! Ma l’intensità lascia sempre un insegnamento, le situazioni limite ti portano nell’inesplorato e da questi nuovi piani prospettici vedi le dimensioni cambiare, gli eventi della vita sotto altre angolazioni.

        Fu allora che cominciai a sentirmi un po’ lettore. Si è vero! Si diventa lettori per gratitudine, quando un libro ti salva la vita, ti trascina per qualche minuto fuori da quel corpo che urla, un libro che ti aspetta e che non finisce mai e sai di ritrovarlo ancora. I libri magici che mi hanno salvato prima dell’operazione sono stati : Il mulino del Po, il Conte di Montecristo, il Capitan Fracassa e Le mie prigioni di Silvio Pellico, questi i principali che mi ricordo. Finalmente la mia tristezza e sofferenza era ben distribuita e condivisa con i personaggi letterari. L’unico autore che narrava di sé era Silvio Pellico, ma anch’io mi sentivo bloccato come lui e non avevamo nessun Abate Faria con cui conversare… Con tutto quel tempo a mia disposizione, che la malattia mi lasciava, non riuscii a scrivere assolutamente nulla, ma solo leggere. Non riuscivo a stare seduto al tavolo, tanto meno ad una scrivania. Mi mancava molto, anche se ero tutto il giorno e la notte sveglio, bloccato in casa, un trampolino di riflessione su cui mettere le mie parole.

       Anche in una situazione di clausura domestica, come nelle prigioni del Pellico poter stare ad un tavolino fa la scrittura stessa che diviene nella parola fermata, riflessione. Racconta Silvio Pellico: “Per supplire alla carta, ricorsi all’innocente artifizio di levigare con un pezzo di vetro un rozzo tavolino che io aveva, e su quello quindi scriveva ogni giorno lunghe meditazioni intorno ai doveri degli uomini e di me in particolare ( … ) quando tutta la superficie adoperabile del tavolino era piena di scrittura, io leggeva e rileggeva, meditava sul già meditato, ed alfine mi risolveva (sovente con rincrescimento) a raschiar via ogni cosa col vetro, per riavere atta quella superficie a ricevere nuovamente i miei pensieri”.(Silvio Pellico – le mie prigioni – pag.73 ed. Lucchi Milano)

       Questa carcerazione era come una malattia, l’attesa della condanna, ma come vediamo il tavolo è di fondamentale importanza per chi della propria scrivania letteraria ne ha fatta una dimensione interna. Eppure l’oggetto serve, oltre alla carta, il supporto della parola è sostegno al pensiero. Cosa sarebbe accaduto se a Pellico non fosse stato concesso quel tavolo. Non avrebbe rinunciato alla parola poiché il meccanismo della parola era attivo in lui, sappiamo che si mettono i pensieri su carta, o su tavolo come in questo caso, ma sappiamo che anche la parola stessa modifica il pensiero, il modo di pronunciare ciò che è verbale cambia la struttura del linguaggio usato. Così accade a Trotzkij in una prigione totalmente vuota:
“Il mio isolamento era totale, senza paragone con quello che conobbi poi altrove, benché sia passato per una ventina di prigioni. Non avevo ne un libro ne matita ne carta. (…) rosicchiando un pezzetto di pane, passeggiavo su e giù in diagonale e componevo versi. (Lev Trotskij – la mia vita – pag. 137 -Oscar Mondadori)
Trotzkij si compiace postumo, di come poi, quei versi, così faticosamente ricordati e trasformati in canzoni popolari hanno avuto successo, anche se, a detta sua, non erano di grande qualità.

       Ma il passaggio nella poesia e nel verso comincia con il mancare di supporti, il verso pone in minor valore la riflessione e si aggancia alla necessaria memoria, la memoria come sostegno, la memoria come una scrivania a impressione, la memoria come un recipiente, un contenitore che ha bisogno di un ordine per estrarre le parole e quando questo contenitore e sostegno non è più materiale, si traghetta verso l’oralità e si diventa poeti deambulanti. Lo spiega bene Borges, il quale mi sorprende, quando pur credendo, io,  di aver pensato alla mancanza di supporti qualsiasi, non avrei mai pensato al supporto principale che si possiede, anche pur essendo a casa propria con tutti i comfort, il supporto estremo ma principale la vista. Terribile manifestarsi della sua cecità. Dice Borges:

“Fin dall’infanzia, gradatamente, la vista era andata peggiorando finché si spense del tutto. (…) una delle principali conseguenze della mia cecità fu il mio graduale abbandono del verso sciolto in favore della metrica classica. Anzi la cecità mi fece tornare alla poesia. Perchè non potevo più fare una prima stesura dovevo affidarmi alla memoria”. (Borges – elogio dell’ombra – ed. Einaudi)

       Forse per questo, anche io, mi sono sempre dedicato maggiormente alla poesia. Ho sempre avuto una certa difficoltà a stare fermo, a stare seduto. Non ho mai voluto fare la malacopia sia quand’ero in classe da piccolo, ma anche da ragazzo e da adulto, era una tortura, non ne capivo il significato. Rivedere quello che avevo scritto era una perdita di tempo, non mi interessava la forma, mi interessavano le idee che vi erano dentro. Non avevo tempo da perdere, pensavo. Riscrivere, correggere, riscrivere, non era logico.

         Sinceramente anche ora, che scrivere è diventato un piacere non conosco la riscrittura, specialmente nelle poesie. Nelle poesie è fuori discussione, la poesia per me è un lampo, posso stare ad aspettare molto, ma quando parte è un lampo, così esce, così nasce, se la cambio per renderla migliore la perdo. Per me l’ho persa, per gli altri forse no, ma non sono mica gli altri che la partoriscono, è una nascita con messaggio espressa esteticamente, mica un fronzolo. Per me è come nella pittura, un gesto è un messaggio, la parola è un gesto del mio inconscio, o forse di qualcos’altro, ma questa è poesia.

       La poesia non ha bisogno di una scrivania, ma la prosa si, e vorrei fermarmi anch’io, vorrei educarmi alla calma, alla pazienza, alla riscrittura pacata. Cechov diceva che ci vuole un anno per un romanzo e sei mesi per rivederlo. Sei mesi, un anno, tempi non da poeti. Mi piacerebbe conquistare tempi da scrittore. Devo prima conquistare una scrivania. Un luogo dove osservare lontano, un luogo da cui guardare il mondo.
“finalmente ho trovato la calma, una calma anteriore alla mia nascita, il piacere della revisione del testo non è di fuoco, neppure a testimonianza di tempesta, questo piacere è un sonno evocativo, un dormiente che scava particolari nel proprio lenzuolo, una veglia paziente che non appartiene ne al giullare ne al Re, correggere è la strada intermedia dell’essere al mondo, accettare se stessi come consuetudine, senza l’anima fosforescente della gioia, senza il corpo ridondante di libertà, solo il piacere di prendersi per mano, come un bambino che vuole bagnarsi i piedi nell’arte”.

                  

Martina Dalla Stella, 'Soffioni', china su tela, 2014
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