Il mio maestro Mario Apollonio, ricordi sparsi di Paolo Santarone.
In una limitatissima e parziale nota biografica, Wikipedia scrive di Mario Apollonio all’incirca così:
Si laurea nel 1923 in filologia moderna discutendo una tesi sul linguaggio nella Commedia dell’Arte e, intrapresa la carriera di insegnante liceale, diventa ben presto anche docente accademico di letteratura italiana presso le università di Oslo, Urbino e la Cattolica di Milano[1], dove nel 1955 fonda e presiede la prima cattedra di Storia del teatro in Italia.
Durante gli anni della Resistenza, insieme a Teresio Olivelli, Carlo Bianchi, David Maria Turoldo, Giovanni Barbareschi, Dino Del Bo, partecipa agli incontri che porteranno alla fondazione del giornale Il Ribelle, della Brigate Fiamme Verdi, e poi della rivista L’uomo. Pubblicazioni clandestine a periodicità irregolare, che esponevano a grandi rischi sia per stamparlo sia poi per distribuirlo. Infatti uno dei tipografi Franco Rovida e lo stesso Teresio Olivelli, finiranno la loro esistenza in un campo di concentramento[2].
La carriera accademica lo vede come studioso del teatro, in un’epoca nella quale la disciplina della storia del teatro non era ancora nata: in tal senso, Apollonio è tra i precursori della materia. Riuscì, in effetti, a rendere tangibile in forma di saggio ciò che era sempre stato considerato effimero ed evanescente, ossia l’arte teatrale nel suo complesso e non solo dal punto di vista del testo letterario. Con Apollonio si approfondiscono e in alcuni casi si avviano gli studi sull’interpretazione, la teatrografia e lo studio del testo teatrale in vista della sua rappresentazione e non solo dal punto di vista letterario.
Animatore culturale, fu con Giorgio Strehler, Virgilio Tosi e Paolo Grassi fra i promotori della nascita del Piccolo Teatro di Milano. Progettò la rivista Drammaturgia e scrisse una imponente Storia del teatro italiano oltre che varie opere su autori italiani e la letteratura del paese. Nel 1961 fonda e dirige a Bergamo la Scuola Superiore di Giornalismo e Mezzi Audiovisivi.
Muore nel 1971. Alla sua memoria è dedicato il Teatro Mario Apollonio di Varese.
Fin qui Wikipedia.
Se non fossi vissuto tra i borghi di Azzate, Daverio e Galliate (sponda meridionale del Lago di Varese), Mario Apollonio sarebbe stato “soltanto” un mio professore d’università. Ma vivevo qui, e Mario Apollonio è stato mio Maestro e mio amico.
Anche se era nato, nel 1901, a Oriano, in provincia di Brescia, Apollonio si era trasferito in una casa progettata per lui da Richino Castiglioni, in quel triangolo di paesini della Valbossa in cui conducevo la mia inquieta esistenza di studente svogliato e di persona curiosa e iperattiva. Era arrivato a Varese nel ’27 per insegnare lettere al Classico, poi aveva girato un po’ il mondo (lettore d’italiano all’Università di Oslo e quindi docente a quella di Urbino) e infine era approdato, nel ’42, all’Università Cattolica, e aveva preso casa prima a Malnate e poi a Galliate.
Conservo una sua letterina del 23 maggio ’71, in risposta a una mia lettera di augurio in occasione del suo ritiro ad una vita da pensionato che si prevedeva operosissima.
Il biglietto è spedito da Roma, ma ha l’intestazione del IV Congresso internazionale di studi sul dramma antico, che si tenne quell’anno a Siracusa.
“Vorrei che Lei e Roberta avvertissero con quanta amicizia ricambiamo sentimenti tanto cari Lina ed io,- scrive tra l’altro Apollonio. – E adesso, tornando a casa libero da un bel mucchio d’impegni, mi lusingo di pensare a più frequenti e cari incontri.”
Non lo incontrai invece più, dopo quel biglietto, perché poco dopo (in quello stesso ’71) Apollonio morì.
E così mi trovo a parlare di lui dal fondo della sua storia, e questo è abbastanza giusto perché ormai, da molti anni, il mio frequente tornare a lui è memoria e cammino a ritroso.
Scrive un altro suo allievo e amico, Luigi Santucci: «(…) E teatro infine, come ben notò Gianfranco Bettetini commemorandolo sul video, fu anche la sua morte -o meglio il suo funerale- nella cornice assortamente scenica del castelletto di Galliate, con quel corteo d’intellettuali e di villici che lo accompagnarono al cimitero campestre.»
C’ero anch’io tra quei villici (allora meno ancora che adesso avrei potuto considerarmi un intellettuale!) ed eravamo appunto la gente di Galliate che andava al funerale di uno di Galliate: non uno qualunque, e nemmeno quel professorone che -si sapeva- era: un amico, invece; uno che viveva la vita del paese (lo ricordo, per esempio, prodigo di consigli ma soprattutto di incoraggiamenti alle nostre rappresentazioni teatrali); uno che sapeva schierarsi quando quella minuscola comunità si rompeva su un problema (un’elezione, un dibattito sul divorzio, che era stato uno dei temi caldi del momento, un piccolo dramma locale d’un padre che rifiutava la sua paternità…); uno che aveva scelto questa sponda del Lago per costruirvi la sua casa.
Opinioni mie? No. Interpreto quello che scrive lo stesso Apollonio in una pagina del suo ultimo romanzo, Cinquantacinque. E qui sì mi torna in mente “la cornice assortamente scenica” di cui parla Santucci, perché con tecnica così gestuale e visiva da essere in pratica teatro (con tanto d’indicazioni scenografiche e interpretative) l’autore anima gli ambienti della sua casa di Galliate, e in particolare lo studio, gremito di volumi in modo inverosimile, con lo spirito dubitoso e incerto dei libri e dei loro autori, quelli compilativi (“i collettori”) e quelli creativi (“gli inventori”):
«Intorno alla finestra rotonda, sul ballatoio che contornava il muro curvo, i collettori sedevano su sgabelli, e d’un moto vivo sprofondavano la testa su codici spalancati, che per reggerli accavallavano le gambe (…) ma alla finestra quadra s’affacciavan gl’inventori, tentavano d’alto in basso l’acque, di basso in alto il paese montano (e le voci, se trapassavano il limpido cristallo della paura del mondo) (…)
«Talvolta, fatta la prova muta, varcavano con passo titubante il poco spazio tra la ringhierina del ballatoio e la ringhiera -doppiato il tavolo- della finestra; e i più tornavano con passo affranto. Quei pochi che avvertivano la risposta delle grandi montagne scomparivano, a poco a poco, nello specchio del lago.»
Ricordo bene quello studio, con la “finestra rotonda” (quasi un rosone) che guardava verso sud (Galliate, Daverio, Crosio… e insomma l’Italia) e la “finestra quadra” che si apriva invece a nord, con il lago sotto, il Sacro Monte davanti e il massiccio del Rosa sulla sinistra (la finestra da cui si poteva guardare l’Europa, se si sapeva trapassare “il limpido cristallo della paura del mondo”). E c’era davvero anche quel piccolo ballatoio interno che contornava un muro curvo come un moncone di torre.
Quando mi sono sposato lo ebbi mio testimone di nozze -unico cattolico accanto a un ebreo e a due atei- e gli chiesi, come regalo, i suoi libri. Me ne procurò un paio di scatoloni, dicendomi che aveva dovuto fare una fatica tremenda per trovare quelle sue opere e che gli avevo chiesto uno dei doni di nozze più onerosi che gli fossero mai capitati. Ora ho nella mia libreria una trentina di suoi volumi e un centinaio tra numeri di riviste e estratti di articoli, ma, ogni volta che per ripensarlo un po’ rileggo qualcosa di quello che è stato scritto su di lui, scopro che molto più di quello che ho letto e conservo è quello che non posseggo e magari neppure conosco.
Tra gli allievi, e poi devoti “figli” di Mario Apollonio si contano innumerevoli letterarti e uomini di cultura. Da Santucci a Testori a Turoldo a moltissimi altri che l’hanno reinterpretato e riproposto nelle università, nei teatri, nella vita civile.
Quelli erano, come ho detto, i “figli”. Io ho conosciuto -e credo piuttosto bene- un uomo ormai anziano (un nonno, come mi piace pensarlo… un “angelico nonno”, per citare Pasolini) che mi ha aperto la sua casa, che ha indirizzato i miei studi ma molto più la mia vita, che mi ha ripescato con incredibile bonarietà e pazienza quando per leggerezza o giovanile insipienza mi sono infilato in qualche cul de sac scolastico o esistenziale, e che, soprattutto, mi ha dato accesso ad una Illuminazione, quella della primazìa della Parola, che è stata l’unica ma per me bastevole Illuminazione della mia vita.
Proprio perché è Illuminazione, il concetto è difficile e rischioso a spiegarsi, né basta quell’ “in principio erat Verbum” né il consequenziale “Verbum caro factum est” (entrambi troppo ritualizzati e anestetizzati nelle interpretazioni e nelle glosse, anche se in sé di chiarezza assoluta e sconvolgente) per consentire di penetrare in quella proposta illuminante che è la Parola, una proposta alla quale ho avuto umile e modestissimo accesso -altri certo più di me e meglio di me- attraverso la persona di Mario Apollonio.
Dico “la persona” e non “l’opera” perché se è vero che tutta l’opera del mio maestro è permeata di questa Idea, pure è difficile trovare -estrapolare- una pagina, una citazione, un riscontro specifico. E quanto più l’Idea era pervasiva e totalizzante, tanto più difficile è fissarla in un singolo statement, chiuderla in un paragrafo virgolettato.
Forse però una citazione è possibile, giusto per dare un’idea, e la prendo da una delle mille opere “minori”: un breve saggio su Clemente Rebora. Dice Apollonio: «Vorrei proprio semplicemente auscultare un itinerario di vita che si confessa in parole poetiche e che si accerta del suo moto profondo. Perché ogni poesia, e questo sia detto in generale, se poesia è, come è, ormai lo sappiamo, un itinerario dalle cose visibili alle cose invisibili (don Clemente avrebbe detto “perché siamo rapiti dal desiderio delle cose invisibili”), se poesia è tutto questo è naturale che ogni poeta religioso risolva a suo modo il religione-poesia in poesia-preghiera.»
La poesia -ma la poesia non è poi che parola- come rottura del confine tra il visibile e l’invisibile, la parola per entrare nella sintonia fascinosa e tremenda della Parola.
No, non era uno scrittore facile, il mio maestro, e non fu neppure uno scrittore “di successo”. Ma, di questo “scrivere oscuro” dirò più avanti. Per me la lettura è (quasi) facile, perché mi sembra ancora adesso di sentire l’eco delle sue parole, di guardarlo, mentre parla, nell’azzurra chiarità dei suoi occhi.
Mi fece piacere, nel ’91, accettare un invito a commemorare il professore a Galliate, in occasione del ventennale della sua scomparsa. Altrove avrei fatto la figura del corvo vestito con le penne del pavone, ma qui ero un “villico”, come avrebbe detto Santucci, un villico che parlava ai villici, e che insieme a loro ricordava un altro “villico”, morto da tempo ma non dimenticato.
E così proprio io mi trovavo forse ad essere la persona più adatta -per consonanza di linguaggio, per “cultura”, nel senso antropologico- a raccontare ai Galliatesi qualche cosa di quello che era stato Mario Apollonio. E mi è sembrato perfino un po’ magico che ci fosse tutta quella gente (le sedie non erano bastate e c’erano molti in piedi e qualcuno seduto per terra) ad ascoltare cose così misteriose e difficili, e ad ascoltarle per più di quaranta minuti senza un colpo di tosse o uno struscio di sedia. Ma ripensandoci poi ho capito che stavo parlando di uno di noi e che l’inevitabile difficoltà di quello che dicevo -pur nel mio sforzo di parlare da villico- non era un limite all’attenzione. Come il padre analfabeta può ascoltare le parole del figlio laureato senza capirne la lettera ma compiacendosi infinitamente di ciò che quelle parole metacomunicano, così la gente di Galliate -anche quella più modesta, che pure era presente in gran numero- ascoltava con una sorta d’orgoglio non le mie parole ma la commemorazione dell’altro, di Mario Apollonio. (E mi viene in mente, per associazione, il tono un po’ perplesso della signora Lina che mi raccontava che il contadino confinante con la loro piccola proprietà -allora isolata e quasi persa nei campi- cercava di suo marito dicendo “c’è il Mario?” e non era, no, un eccesso di confidenza: era chiamare uno del posto come siamo soliti chiamarlo noi che viviamo nei paesi).
E devo dire che rileggendo quello che dissi allora -e un po’ anche quello che ho scritto ora- mi accorgo che ogni volta che parlo di Apollonio mi capita di allontanarmi dal mio solito stile chiaro, comunicante e un po’ banalotto, e di avvicinarmi per quanto sono capace -quasi per un contagio o un’empatia della parola- allo stile difficile di lui, a certe tortuosità e divagazioni del pensiero che non viaggia lungo le autostrade dell’accademia o dell’industria culturale ma va in cerca di qualcosa che c’è chissà dove e chissà come. Qualcosa che potremmo con un certo pudore chiamare verità, anche se io credo che la verità sia tale fin tanto che la cerchiamo e che diventi, nelle nostre mani, ben poca cosa quando crediamo di possederla.
Il mio maestro possedeva gli strumenti della verità: la sua cultura, la sua feconda operosità intellettuale, la sua spiritualità, la sua umanità passionale e intensa talvolta fino al settarismo, e anche, forse soprattutto, il suo coraggio di essere un isolato e un diverso. Ma non credo abbia mai pensato di possederla, quella verità, e non so neppure se pensasse di esserlesi, nel corso degli anni, avvicinato. La sua “difficilezza” è tutta qui: in questo procedere come un minatore nel ventre di una montagna -per usare un paragone che piace a me- come un alpinista che sale per vicoli impervi e tortuosi cercando la cima e ciò che di là si vede, per usare un paragone che lui avrebbe certo preferito.
Anche questo ho detto, allora, ai miei quasi compaesani di Galliate, e sono certo che -non so attraverso quali vie dell’intus-legenza o, se non è la stessa cosa, del cuore- hanno capito bene quello che ho detto, anche perché, per molti di loro, era forse la prima volta che qualcuno cercava di spiegare a quei villici chi era “il Mario”.
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Foto di testata: Paolo Zanardi