Il mondo come un clamoroso errore di Paolo Polvani, una lettura di Patrizia Sardisco

Il mondo come un clamoroso errore di Paolo Polvani, Pietre vive ed. 2017, una lettura di Patrizia Sardisco: “Sostiene Polvani”.

   

   

È uno sguardo preciso e privo di sentimentalismi quello che, in quest’ultima breve raccolta (poco più di trenta testi, tenuti insieme da una coerente tessitura narrativa) Paolo Polvani rivolge alla contemporaneità, traendone versi appuntiti e spesso lunghi, come protesi a intercettare, in una babele di senso, il clamore dichiarato nel titolo, il richiamo confuso del mondo, “Deragliato in un’ansa di sonno”, che “Si è dimenticato di sé”, di una “umanità con gli occhi bassi,/al guinzaglio di piccole miserie”.

Cerniera di questo mondo in bilico tra una colpevole distrazione da sé (“(…)mettiamo un’estrema cura/nell’evitare di guardarci (…)”) e la ricerca di una parola “(…)che brilla. Che accende/ la scintilla” e “proclama/un mondo nuovo”, l’io poetante appare come volutamente defilato a prendere atto, a registrare fatti, da un luogo in cui la parola, la nominazione, si candida a porsi come azione civile, scabra denuncia: forse anche per questo la rappresentazione sembra rinunciare a ogni sorta di artifizio retorico e lasciare che il mondo si mostri come da sé, al verso non resta che coglierne gli orrori, l’errore, l’errare nella rarefazione di logica e cuore, di sentimenti e ragione, di un senso complessivo, di una matrice valoriale coerente con la propria storia e la propria millantata razionalità. In perfetto equilibrio tra empatia e precisione autoptica, il verso divarica le contraddizioni del nostro tempo, mostrando quanto e come la difesa urlata dei valori occidentali (religione, diritti umani e civili) si scontri nei fatti con la loro continua negazione.

L’oggetto-mondo, occidentale, quindi, sub-urbano e anomico, muove e nulla sa di sé, non si vede andare, è il poeta che, solo, può avvertirne l’urto, “mi ha fatto male, ho visto/il mondo come clamoroso errore”, la tessitura complessiva dolorosamente sbagliata, l’abbaglio che obnubila e prepara il precipizio.

E di pagina in pagina, quello che appare come un pungolo ineludibile per l’autore, l’ossessione, quasi, per il nome, ci viene incontro come un fascio di luce a orientare la nostra attenzione sull’assenza di identità che offusca la visibilità delle persone dietro lo schermo di un anonimo ma sommariamente ansiogeno essere altro: l’extracomunitario, la prostituta, la badante, ma anche il pensionato, l’operaio, sono i soggetti cui vengono quotidianamente negati lo spessore di una storia, l’individualità, la loro unicità di esseri umani, risucchiati entro un massimalismo dozzinale che li relega in una opaca alterità che non concede appelli: “i camerieri hanno sempre un che di filosofico”, “(…)il giovane rom/rubava, era programmato per quello”, (…)hanno dovuto/mentirle, dirle che viene dalla Russia, /perché lei non l’avrebbe presa una rumena, con tutto quello/che si dice. (…).

E tuttavia, c’è un verso che trovo bellissimo e sembra porgere l’orecchio a un richiamo di speranza: “Il cielo era un manifesto”, sostiene a un certo punto Polvani, “era un cielo di invincibile bellezza”. Se il mondo è nell’errore e va da un’altra parte, se è afasico, se ha scordato i nomi, quei nomi che sono tanti ma nominano la stessa cosa, “la stessa fame”, il poeta sembra dirci che in un altrove, in un punto più alto è scritto, e a chiare lettere, in forma dichiarativa e accessibile a tutti, in forma di manifesto, la lettera, la misura etica della nostra civiltà. L’Uomo ha in suo possesso gli attrezzi necessari, deve solo trovare tra i tanti quelli giusti, i più fedeli alla propria umanità, quelli in grado di rendere ai suoi figli “l’epica nel sangue”.

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Immagine di testata: Maternità (particolare), opera di Leonardo Lucchi.

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