Il passato-presente, di Enzo Santese

Il passato-presente nella circolarità del pensiero leopardiano, di Enzo Santese.

    

    

Il ricordo e l’assenza

Elementi anche minimi della realtà, rivisitati nel recupero memoriale, hanno la capacità di attenuare la vertigine del vuoto e proiettare sul palcoscenico del quotidiano simboli che servono a dar corpo a una sorta di riverbero compensativo, grazie al potere immaginifico dell’evocazione.

La riflessione leopardiana è animata dal senso anche visivo di un continuo ritorno ciclico ai luoghi, ai tempi e alle cose della fanciullezza; il motore è la memoria, che si modifica man mano che procede il tempo dell’esistenza. Questo è facilmente riscontrabile nella ricchezza di articolazioni concettuali e sviluppi argomentativi dello “Zibaldone”, un contenitore puntuale di emozioni, sensazioni e idee, che nella sua struttura diaristica consente di stabilire la connessione stretta tra quelle enunciazioni e la poesia così come prende forma da un’annotazione cronologicamente precedente o prelude a una nota successiva.

L’idillio “L’infinito”, composto a Recanati tra la primavera e l’autunno 1819, è il paradigma di una condizione nella quale l’autore si misura con la fisicità di cose e luoghi (la siepe, l’ermo colle, l’orizzonte, il vento, le piante), assumendola come complesso di figure della memoria che preparano la metafora dell’annegamento, mutuata da tanta letteratura ascetica del ‘600 e ‘700 che il poeta conosce in profondità. Attraverso questi riferimenti tende a tornare indietro nel tempo non per desiderio di sostarvi con l’immaginazione, ma per trasporre nel presente l’illusione di una possibilità di approdo salvifico, mentre il passaggio dal “bello” al “vero” gli rivela il tratto marcato dell’infelicità e, di conseguenza, l’affievolirsi della fantasia. Che deve essere corroborata continuamente, come dice nella nota dello “Zibaldone” del 20 luglio 1820: “L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario,”

La ricordanza è dunque lo strumento di creazione di un rimbalzo cronologico dal passato e si lega in qualche modo a una riflessione sul piacere, dal momento che genera poesia e con essa può interrompere i tempi del dolore con il profumo anestetico del tempo andato, del viaggio verso l’infanzia, al territorio degli “ameni inganni” (1), quando la voglia di vivere oscura il pensiero di morire.

Il ricordo è gradito anche se riporta alla mente situazioni di sofferenza perché, nella logica che tutto quanto ritorna alla luce dell’attualità, serve comunque a neutralizzarne le punte ispide del vivere. “E pur mi giova / la ricordanza, e il noverar l’etate / del mio dolore.” (2) La convinzione del poeta assume la determinazione di un assioma in una lunga nota del 1827: “Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi o anni, , m’avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantoché io non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava.” (3)

    

La presenza e la memoria

Le figure femminili nella poesia leopardiana sono spesso elementi speculari di una condizione interna vissuta dal poeta con partecipazione problematica a tal punto che gli consentono di proiettare i “moti” del suo mondo interiore sui contorni peculiari di quei soggetti.  È il caso di Silvia, protagonista suo malgrado dello sviluppo di un mito inscritto nella capacità simbolica dell’età giovanile e delle speranze. “Quando sovviemmi di cotanta speme, / un affetto mi preme, / acerbo e sconsolato, /e tornami a doler di mia sventura.” (4 ) Il testo ha un’estensione argomentativa nello “Zibaldone”, in un brano piuttosto lungo datato 30 giugno 1828, che ha una conclusione logica: “…e quindi un sentimento di compassione per quell’angelo di felicità, per noi medesimi, per la sorte umana, per la vita (tutte cose che non possono mancar di venir alla mente) ne segue un affetto il più vago e il più sublime che possa immaginarsi”.

“Le ricordanze” (canto composto a Recanati dal 26 agosto al 12 settembre 1829) in sette strofe riproducono il ritmo febbrile dei ricordi e delle immagini che si affollano nella sua mente in un intreccio denso tra passato e presente. La vena retrospettiva disloca il pensiero in un altrove che l’esistenza ha già percorso e registrato, per cui la nostalgia è per Leopardi la voglia di ritorno non solo ai luoghi ma anche ai tempi della fanciullezza. La “ricordanza”, da questo punto di vista, è combustibile adatto a far progredire la vita bilanciando il buono dell’età trascorsa con il negativo odierno. Ma la memoria ha anche un risvolto di afflizione, esattamente come la nostalgia; rievocando gli “ameni inganni” e le “speranze antiche” la situazione presente appare ancor più dolorosa fino a che “la dolcezza / del dì fatal tempererà d’affanno” (5). Silvia e Nerina sono due confluenze significanti diverse: nella prima gli anni della giovinezza balzano con potenza evocatrice sulla scena del presente, con Nerina vibra invece la drammaticità dell’assenza che fa percepire la vertigine del vuoto.

Il soggiorno a Pisa, dal 1° novembre 1827 al giugno 1828, è una sorta di oasi morale nella quale il poeta prova la soddisfazione di un benessere fisico e spirituale, favorito anche dall’inverno mite che ricorda con gran piacere nello “Zibaldone”; lì scrive oltre al Risorgimento anche A Silvia.

Fino a pochi anni fa era prassi consolidata quella di abbinare Maria Belardinelli a Nerina delle Ricordanze e Teresa Fattorini a Silvia. Lo studio recente di Carlo Trevisani, della sezione leopardiana del Centro Studi portorecanatesi, inverte e rovescia l’ordine delle identificazioni e sembra avere chiare possibilità di aderenza al vero. Ma a prescindere da questo resta la sostanziale differenza di funzione delle due presenze evocate: in Silvia il poeta attiva il ricordo della fanciulla dandole una connotazione di fisicità credibile, nell’altra installa la carica simbolica di una disillusione che precipita con inarrestabile progressione verso un pessimismo totale. La ragione di ciò sta anche nella diversità di situazione e di ambiente in cui maturano le due composizioni: la prima nel soggiorno pisano, con la dolcezza del clima e la serena accoglienza del luogo accende la speranza di una rinascita che Leopardi assegna alla figura della donna evocata; nella seconda le sue condizioni di salute peggiorano sensibilmente consentendogli di lavorare solo a sprazzi e per tempi brevi; da qui la necessità di dar corpo visivo ai “tristi e cari moti del cor”.(6)

     

Il ritorno come restituzione di sé a minor pena 

Andare a ritroso nel passato significa sostanzialmente rispondere all’urgenza di un ritorno nei luoghi della memoria e nei tempi dell’esistenza; la nostalgia quindi, intesa nella sua accezione libera da implicanze patologiche, è sofferenza per il bisogno di un cammino inverso che, quando avviene grazie al combustibile della poesia intrisa di memoria, non sbiadisce i contorni di un desiderio forte – sempre persistente, anche se manifesto a intermittenza – quello di un altrove; da questo punto di vista la condizione dell’esilio si trasforma da evento costrittivo in possibilità auspicabile, anche per rispondere alla spinta continua di un’immaginazione che  è ancoraggio di salvezza dalla tempeste del quotidiano. Ecco come la ricordanza si qualifica allora come un ritorno vero e proprio, un riverbero del passato nel presente, la replica di un’ ”immagine cara” che appiana la successione temporale e sovrappone realtà fisica e pensiero. Pertanto ricordare significa esorcizzare i riflessi più laceranti della perdita, sovrapporre alla realtà dell’assenza l’illusione della presenza.

Così il poeta, mediante quel processo che inizia con “rimembri ancora” (7), “recupera”  Silvia al presente della poesia disegnando nel ritmo dei versi perfino l’espressione del sorriso, elemento vitale di un’esistenza spezzata dal “morbo chiuso” (8).

In tal modo nelle “Ricordanze”, scritte in uno dei ritorni al natio borgo selvaggio – da alcuni mesi, già a Pisa nell’aprile 1828, ha ricominciato a scorrere la vena della sua poesia – il ritorno al luogo dell’infanzia registra un coacervo di segni, forme, suoni, profumi innescando nel poeta una forza che suggerisce la contemplazione del cielo stellato e che gli fa mettere in parallelo il mondo finito dei viventi con l’infinito dell’universo. Qui la poesia è anche lo strumento attraverso cui la finitudine del tempo si delimita marcatamente con il senso dell’infinito e l’io poetante si trova esattamente sul discrimine fra l’una e l’altra dimensione del sentire.

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  1. “Le ricordanze”, verso 77.
  2. Nell’idillio “Alla luna” (1819), versi 10-12.
  3. “Zibaldone”, Firenze 23 luglio 1827.
  4. “A Silvia”, versi 32-34.
  5. “Le ricordanze”, versi 102, 103.
  6. “Le ricordanze”, versi 172, 173.
  7. “A Silvia”, verso 1.
  8. “A Silvia”, verso 41.

 

 

Utagawa Kunisada, "Pescatori di alghe" - in apertura "Rocce a Ise, Terra delle origini", ca 1835, MET Museum New York
Utagawa Kunisada, “Pescatori di alghe” – in apertura “Rocce a Ise, Terra delle origini”, ca 1835, MET Museum New York

 

 

 

 

 

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