Il poeta del poeta: la sfida della traduzione in versi tra scelte e conflitti, di Francesca Del Moro.
“Lei è all’orizzonte – dice Fernando Birri. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi.
Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare”.
Finestra sull’utopia, Eduardo Galeano
Spesso la poesia viene definita – specie da chi non si è mai cimentato nella pratica snervante e insieme appassionante della traduzione – come l’intraducibile per eccellenza. Logica conseguenza sarebbe dunque la scelta di non leggere i versi se non in originale, scelta che se da un lato mortifica il ruolo fondamentale della traduzione sul piano della diffusione della cultura, dall’altro priva chi la compie della possibilità di conoscere, per quanto in maniera imperfetta, poeti che scrivano in una lingua diversa da quelle che è in grado di padroneggiare.
In realtà ogni testo è in qualche misura intraducibile. Lo è il testo teatrale, così legato al ritmo del dialogo, all’interazione tra gesto e parola e alle espressioni idiomatiche di ciascuna lingua. Lo è il dialogo cinematografico, che viene falsificato nel doppiaggio (ai suoi esordi definito “inquietante gemello ritardato”), vincolato alla durata di ciascuna battuta e ai movimenti facciali degli attori, e ancor più snaturato nel sottotitolo, che non di rado deve riassumere le battute e distoglie lo sguardo e l’attenzione dall’immagine. È intraducibile perfino la prosa, che sembrerebbe più abbordabile, in ragione dell’intreccio che instaura tra ritmo, stile, contenuti e peculiarità della lingua in cui è scritta. Sono intraducibili perfino i nostri pensieri, le emozioni, i sentimenti, che le parole, come i gesti, inevitabilmente filtrano, attenuano o amplificano, deviandoli in ogni caso dall’intenzione di partenza. Il linguaggio è di per sé infedele ai contenuti mentali perché segmenta il loro libero fluire in un numero ristretto di vocaboli e nelle loro combinazioni codificate, un problema a cui non è dato ovviare del tutto neppure violando espressamente le regole.
Al polo opposto della comunicazione è altrettanto impensabile una ricezione del messaggio che sia univoca, in quanto questa non può prescindere dalla sensibilità e dal vissuto di chi ascolta o legge. Il che porta a una diversificazione della fruizione nonché all’impossibilità di formulare interpretazioni e valutazioni critiche che possano dirsi a pieno titolo “oggettive”.
Osserva a questo proposito Robert Vivier: “Ma chi non tradisce? Ogni lingua è già di per sé infedele ai contenuti mentali. La lingua, a un certo livello di sottigliezza, non è forse sempre personale? Leggere una poesia è dunque un po’ tradurla. Il vero traduttore espone l’opera a una terza nascita”.
Paradossalmente, è proprio questa “intraducibilità” a legittimare l’atto del tradurre. Poiché non è possibile restituire in toto un’opera letteraria in un’altra lingua – che sia poesia, prosa oppure dialogo teatrale o cinematografico – ecco che ogni tentativo acquista importanza, diviene uno strumento culturale essenziale. Se ogni forma di comunicazione è già di per sé una deviazione dalle intenzioni, allora il fatto che una traduzione si allontani parzialmente dall’originale non deve destare scandalo. È semplicemente una comunicazione in cui il messaggio, nella sua natura composita, ha due mittenti: l’autore e il traduttore, filtro necessario che riproduce l’opera nella propria lingua cercando di rendersi quanto più possibile “invisibile”.
Nel caso specifico della poesia, è opportuno innanzi tutto interrogarsi sugli obiettivi del tradurre. Schematizzando, è possibile individuare tre diversi tipi di traduzione poetica, che rispondono ad altrettante finalità:
1 – La traduzione di servizio in prosa (che riproduca o meno le lunghezze dei versi non cambia la sostanza), che della poesia restituisce il contenuto come ausilio alla comprensione, nella forma del testo a fronte o della versione interlineare. In questo caso non sarà necessario prestare attenzione a stile, ritmo e figure retoriche, perché il lettore riconoscerà tutti questi elementi nel testo originale.
2 – La trasposizione creatrice, così come la definisce Jakobson, ovvero una ricreazione del testo d’origine che lasci tutta la libertà possibile al traduttore-poeta, orientandosi decisamente verso la personalità di quest’ultimo, il quale attinge alle peculiarità del proprio stile con l’obiettivo di omaggiare, più che far conoscere, l’autore che ama.
3 – La traduzione vera e propria che, partendo da un’analisi accurata del testo e senza trascurarne a priori alcun aspetto, tenta di ricrearlo nel proprio idioma allo scopo di far conoscere nella maniera più esauriente possibile l’opera a chi ignora la lingua in cui è scritta.
Per molti il traduttore ideale di un poeta sarebbe un altro poeta. Scrive Elsa Triolet:
“Le condizioni ideali per la traduzione poetica sussistono quando un grande poeta traduce un altro grande poeta che ha letto in originale e del quale si è appassionato. In questo caso, il poeta traduttore riutilizzerà nella propria lingua i misteri della poesia, la prosodia, la sintassi, la rima e il ritmo, come il poeta tradotto ha fatto nell’opera originale.” Della stessa opinione è Luciano Anceschi: “Un grande poeta soltanto può essere un grande traduttore”. In realtà, sarebbe più corretto affermare che tradurre poesia è un atto poetico o considerare, con Emilio Mattioli, il traduttore come “il poeta del poeta”.
Un traduttore che sceglie il verso è di per sé un poeta, che sia grande o piccolo, straordinario o mediocre (chi lo stabilisce poi?), che vanti una produzione personale vasta e felice o non abbia prodotto un solo verso proprio. Come spiega Robert Vivier, “la traduzione non è una tecnica di riproduzione ma un’arte, vale a dire un’attività che crea una cosa a partire da un’altra. Il poeta non era forse stato allo stesso modo il pittore della propria avventura mentale? L’aveva messa in parole, aveva unito alla verità dell’emozione una bellezza verbale. Il traduttore tenterà a sua volta una pittura di questa pittura trasponendola in colori nuovi nei quali si sforzerà di conservare le relazioni e l’effetto generale dell’opera originale”. Non è detto, inoltre, che chi scrive magnifici versi sia in grado di sottoporsi al lavoro certosino e frustrante, nonché servile (in senso buono) che la traduzione comporta. Se prendiamo ad esempio le innumerevoli versioni italiane delle Fleurs du Mal di Baudelaire, vediamo che poeti come Bertolucci e Caproni scelgono di tradurre in prosa per umiltà e forse temendo di sovrapporre il proprio stile a quello del parigino (scusandosi, Caproni traduce in poesia solo Le Voyage). Per contro, non è da escludere che chi non scrive versi propri possa ritrovare in opere altrui quella ricchezza che non sa attingere da se stesso e riesca, a volte meglio di un “grande poeta”, ad ascoltare l’autore che traduce, senza che tale ascolto venga compromesso dal sovrapporsi della propria voce.
Non bisogna inoltre dimenticare che la traduzione richiede talento nella scrittura e un’ottima conoscenza delle lingue in gioco, ma è anche un mestiere specifico di cui occorre acquisire le tecniche, scoprire trappole e trucchi, e fare moltissima pratica.
In particolare, mentre traduciamo, la lingua di partenza esercita su quella di arrivo una fortissima pressione portandoci a replicare le strutture dell’originale. Se non vi si presta attenzione, può risultarne un testo bizzarro, faticoso o straniante, per quanto corretto. In traduttologia, questo fenomeno è oggetto di una disciplina denominata “linguistica contrastiva” che pone a confronto le strutture peculiari di ogni idioma. Traducendo dall’inglese all’italiano, ad esempio, si corre il rischio di utilizzare frasi brevi, strutture in prevalenza paratattiche, ripetizioni lessicali e sintattiche, che in inglese sono normalmente ricorrenti, mentre l’italiano predilige la variatio e un periodare di più ampio respiro. Per contro, quando la lingua di partenza è il tedesco, che tra le sue peculiarità annovera l’utilizzo di parole composte per esprimere concetti articolati, l’italiano della traduzione tende a svilupparsi in periodi lunghi e labirintici, infarciti di subordinate. Naturalmente la lingua di partenza esercita la sua interferenza anche a livello lessicale, attraverso i calchi linguistici e i cosiddetti “falsi amici”, ovvero parole che si somigliano ma che hanno un significato completamente diverso nelle due lingue. Per questo sono necessarie una o più fasi di elaborazione che consentano di prendere le distanze dal testo di partenza. L’ideale è avere la possibilità di rileggere la traduzione dopo qualche tempo, senza il testo originale a fronte, in modo da valutarne la tenuta nella lingua di arrivo. Simili interferenze interessano la traduzione di qualunque testo letterario, ivi compreso quello poetico a cui si aggiungono specifiche problematiche sulle quali si sofferma Efim Etkind nel saggio Un art en crise, essai de poétique de la traduction poétique:
“Un testo poetico è sempre un sistema di conflitti:
– tra sintassi e metro
– tra metro e ritmo
– tra suono e senso
– tra la parola come unità di base della lingua e la parola nel contesto del verso
– tra proposizione e parola
– tra tradizione poetica e innovazione dell’autore
– tra ciò che suscita aspettative nel lettore e ciò che le delude
– tra il contenuto del testo e il suo equivalente in prosa
A questi potremmo aggiungere il conflitto tra l’esigenza di far conoscere un poeta e quella di farlo “sentire”. Non basta infatti analizzare accuratamente un testo e riprodurre tutti gli elementi emersi: è necessario altresì salvaguardare ciò che di esso fa un’opera d’arte. A suo tempo Cesarotti si arrese di fronte a tale impresa e dell’Iliade offrì due versioni, una in versi sciolti e l’altra in prosa: “Due sono gli oggetti ch’io mi sono proposto con essa: l’uno di far gustare Omero, l’altro di farlo conoscere. Per far gustare un originale straniero la traduzione deve essere libera, per farlo conoscere con precisione è necessario ch’ella sia scrupolosamente fedele. Ora la fedeltà esclude la grazia, la libertà l’esattezza… O poeta ed emulo dell’originale, o puro Copista e Grammatico. Il copista serve all’erudizione, l’emulo alla poesia, quello ci dà la figura dell’originale, e questo l’anima e il genio”.
In realtà i conflitti spesso non si limitano a una serie di scontri binari ma si intrecciano obbligando il traduttore a compiere scelte, sacrificare qualcosa per serbare qualcos’altro. Ciò dipende dalla natura specifica della poesia, che si caratterizza per il peso specifico delle unità linguistiche, anche minime – il verso, che può essere molto breve, la singola parola, la sillaba e perfino il fonema. Una singola parola può “pesare” per le sonorità, la polisemia, il suo ruolo nella costruzione di una figura retorica del significante (ad esempio, come onomatopea e in allitterazione con un’altra parola) o del significato (come parte di una metafora, come litote, ecc.). In essa possono coesistere svariate tra le valenze sopra elencate ed è un’ardua impresa trovare nella lingua d’arrivo una parola unica che a sua volta le racchiuda. Basti pensare a una poesia che si strutturi su allitterazioni e corrispondenze sonore, o su un particolare timbro, e in cui questa forma sia funzionale alla trasmissione di un contenuto ben preciso: si viene a instaurare un conflitto tra suono e senso e restituirli entrambi impone il più delle volte un difficile lavoro di riequilibrio e risistemazione dei vari elementi. Può essere infatti necessario spostare le allitterazioni, o le figure del significante, su parti del componimento diverse da quelle di partenza, per non distorcerne il significato e al tempo stesso non rinunciare agli aspetti formali. Biagio Cepollaro parla di “insistenza microlinguistica” a proposito della poesia e osserva: “Non possiamo scindere la parola dall’immagine e dal suono perché la poesia è la sintesi di parola, immagine e suono, parola intesa come senso: senso, immagine e suono e vi è una specificità della poesia riguardo al suono per cui la poesia non può essere mutilata”.
Un altro conflitto essenziale e una tra le sfide più ardue per il traduttore in versi è quello tra la metrica codificata e tutti gli altri aspetti: sintassi, ritmo interno, lessico, senso, figure del significante e del significato. Salvaguardare tutti questi elementi entro i confini rigidamente imposti dal metro è difficilissimo.
La critica e la prassi contemporanea tendono perlopiù a privilegiare il senso, applicando la traduzione in versi liberi anche a componimenti che, storicamente, non potevano che utilizzare un metro regolare.
Esistono almeno cinque ragioni per mantenere lo schema metrico nella traduzione:
– l’esigenza di collocare l’autore tradotto nel suo contesto storico, all’interno di una tradizione con la quale il verso libero sancirà una rottura;
– l’opportunità di sottoporre il traduttore alla stessa sfida raccolta dall’autore, che consiste nell’affermare la propria unicità senza uscire dalla convenzione;
– la possibilità di giocare con uno strumento magnifico e duttile come la rima;
– la restituzione di una serie di conflitti che coinvolgono lo schema metrico e gli altri piani della poesia (sintattico, lessicale, semantico);
– la salvaguardia della musica che nasce nella poesia classica dal costante conflitto tra due livelli: il ritmo interno, libero, e la metrica esterna, codificata.
Scrive Maria Luisa Spaziani: “Le difficoltà lessicali si raddoppiano con la poesia e si decuplicano se si tratta di interpretare o di ricreare un metro preciso, un ritmo interno e la rima. Sono sfide mortali, e insieme inviti a bellissime feste, a orge private che purtroppo, oltre la testimonianza del testo finito e stampato, il pudore ti impedisce di comunicare al prossimo.”
L’essenziale è che la sfida mortale non traspaia dal testo tradotto, che non si vedano le tribolazioni del tradurre, ma che al lettore venga offerta una poesia che appaia in tutto e per tutto concepita nella lingua in cui si presenta. L’impresa è ardua, certo, ma non è ammissibile rinunciare aprioristicamente a un aspetto così rilevante come la metrica, sul piano della forma, dei contenuti, e soprattutto della musica. Scrive infatti Efim Etkind: “Se una poesia fosse una somma aritmetica di idee e suoni, si potrebbe, perdendo una parte, conservare l’altra. Ma non si tratta di una somma, bensì di un organismo: se si perde una parte, si perde il tutto.”
La scelta di ricreare la struttura metrica dell’originale richiederà a sua volta di prendere decisioni che potranno riguardare, ad esempio, quale metro utilizzare nella lingua di arrivo. Per l’alessandrino, verso della tradizione francese, è preferibile utilizzare il settenario doppio in virtù della simile distribuzione degli accenti oppure optare per l’endecasillabo, che è il verso della tradizione italiana? Enumerare le molte scelte a cui il traduttore si troverà di fronte andrebbe molto oltre le intenzioni, e soprattutto le dimensioni, di questo articolo.
Abbiamo pur detto che è impresa quasi impossibile mantenere nella traduzione tutti gli elementi in gioco in una poesia, specie se questa utilizza versi brevi e regolari. Tradurre poesia è come perseguire ostinatamente la quadratura del cerchio: è un cammino irto di difficoltà verso un’utopica adesione al testo originale, la perfetta equivalenza in un’altra lingua. Non è possibile conseguire una totale identità: le specificità di ogni lingua da un lato e il fatto che la poesia si articoli in micro-unità in cui si concentrano molteplici valenze sono ostacoli che non potranno mai essere superati del tutto ma lo sforzo serve ad avvicinarsi il più possibile alla sognata identità.
Scrive Antonio Prete nella nota alla propria traduzione dei Fiori del Male:
“Il miraggio di ogni traduttore di poesia è costruire attraverso la lettura, l’ascolto e l’esercizio, una tale prossimità al poeta straniero che costui, pur privato di quello che un poeta ha di più proprio, cioè la sua lingua, possa non perdere nella nuova lingua il suo timbro, carattere e stile. Ma questo è un orizzonte dal quale si resta sempre lontani. Tradurre è soltanto muoversi, passo dopo passo, nel fuoco di questa sfida.”
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Anceschi, Luciano, Arte, Critica, Filosofia, Bologna: Patron, 1965
Baudelaire, Charles, I fiori del male, traduzione e cura di Antonio Prete, Milano: Feltrinelli, 2003
Cepollaro, Biagio, Quello che si può dire in poesia, in: Poesia da fare, https://poesiadafare.wordpress.com/quello-che-si-puo-dire-in-poesia/
Cesarotti, Melchiorre, L’Iliade d’Omero recata poeticamente in verso sciolto italiano dall’Ab. Melchiorre Cesarotti, Padova: Stamperia Penada, 1786
Del Moro, Francesca, Il risarcimento musicale dei Fiori del Male. Teoria e pratica della traduzione in versi, tesi di dottorato in Scienza della Traduzione, Università di Bologna, anno 2004
Etkind, Efim, Un art en crise, essai de poétique de la traduction poétique, Losanna: L’age d’homme, 1982
Jakobson, Roman, Saggi di linguistica generale, Milano: Feltrinelli, 1966
Mattioli, Emilio, “Storia della traduzione e poetiche del tradurre (dall’umanesimo al romanticismo)”, in: Rosita Copioli (curat.), Tradurre poesia, Brescia: Paideia editrice, 1983
Spaziani, Maria Luisa, “Del tradurre prosa e poesia” in: Rosita Copioli (curat.), Tradurre poesia, Brescia: Paideia editrice, 1983
Triolet, Elsa, La poésie russe, Parigi: Ed. Seghers, 1965
Vivier, Robert, Traditore, Bruxelles: Palais des Académie, 1960