Con altri occhi
racconto di Paolo Santarone.
Il Parco era grandissimo, sterminato. Il bosco di lecci, la pineta, la villa disabitata, adorna di logore figure di marmo, i viali alberati, il giardino all’italiana, maltenuto, come un disusato labirinto. E poi la cappella, le fontane, il grande stagno pieno di animali acquatici – le tartarughe pigre, gli uccelli indifferenti, le nutrie socievoli come foche, che nuotavano veloci con il capo a fior d’acqua come un periscopio.
A Sandro non interessavano le visioni d’insieme, e non capiva il Papà, che a volte gli diceva “Guarda là” e mostrava magari un gruppo d’alberi, o una curva del vialetto, senza indicare in modo preciso nessuna cosa, oppure restava sdraiato, supino, a osservare la luce fra i pini, o le nuvole, e sembrava un po’ morto.
Ma altre volte, invece, esplodeva la magia di un sassolino levigato e rotondo, da tenere in mano come una biglia, e da stringere nel palmo senza il fastidio di nessuna asperità, di nessun contatto scabroso.
O il Papà si chinava a stuzzicare con un filo d’erba la tana del grillo, un buco netto e liscio nella terra. E occorreva allora far piano e quasi non respirare, nella speranza che il nero lucido del grillo uscisse fuori a rintuzzare l’attacco. E prima si vedevano le lunghe mobili antenne, poi la dura corazza del capo e poi più nulla, perché appena il Papà cercava di catturarlo il grillo si riprecipitava nel suo buco fino a scomparire.
Poi c’erano le autostrade delle formiche, lunghe. Lunghe che occorreva camminare molto per trovarne i capi. Sulla pista glabra di terra, gli animalini camminavano fitti fitti nei due sensi, e spesso si scontravano e si superavano scavalcandosi.
Proprio quella volta gli venne voglia di ucciderne un po’, di formiche, e colpì rapido col piede, ruotandolo poi sul terreno per essere certo dell’eccidio. Gli parve di sentire, attraverso la suola del sandalo, come un brulichio, un fremere di cose vive. Per un attimo temette che le formiche lo invadessero, salendo su per la gamba nuda. Per dominare la paura strusciò ancora il piede, rompendo l’autostrada e sporcando di polvere e terra l’erba intorno. Poi batté pronto in ritirata, ridendo forte, anzi fingendo di ridere.
Il Papà vide tardi la scena. Sul campo della sua vittoria si contorcevano i puntini neri delle formiche calpestate. Intorno era rottura, squasso, devastazione. E stranamente il Papà si mise a sgridarlo, senza urlare, ma con voce dura, arrabbiata. Più volte gli chiese perché lo aveva fatto, ma Sandro non sapeva rispondere. Capiva solo l’ira dell’altro e aspettava, con un gran disagio dentro, che succedesse qualcosa: botte, castigo, risata o abbraccio: insomma, la fine di quell’ira.
Ma il Papà si chinò a raccogliere una delle formichine morte e si tenne quel puntolino nero nel palmo della mano aperta. Ora parlava dei bambini senza mamma, e la formica portava da mangiare ai suoi bambini, ai bambini della formichina, e lui l’aveva uccisa…
L’immagine dei formichini senza più mamma, senza più nessuno che provvedesse al loro cibo, gli mise una voglia di pianto. Di nuovo il padre gli chiese perché l’aveva fatto, ma lui non ricordava più, non sapeva. Il bimbo che aveva ucciso le formichine era stato cattivo.
Fu una liberazione promettere, alla fine, che non lo avrebbe più fatto. E potè allora riprendere a correre, lontano dalle formiche morte e dai formichini affamati e da quella lunga lunga autostrada di terra rotta.
Cercò la fontana dei pesci rossi. Là, sotto il pelo dell’acqua, ondulavano quelle specie di capelli verdi -“alghe”, aveva chiamato il Papà quelle verdurine- e in mezzo, piano, passavano solenni e lenti, ma con guizzi improvvisi, i pesci rossi. Lo colpivano le loro bocche che sembravano d’osso, e le palline schiacciate degli occhi.
Ma più di tutto era l’acqua, ad attirarlo. Gli pareva strana e un po’ magica la materia stessa di cui l’acqua era fatta. Vi immerse la mano, penetrandola. Poi di colpo fece volare le goccioline, che per un capriccio dell’aria gli ricaddero addosso.
Le sue mani avevano increspato e rotto la superficie che prima sembrava uniforme e compatta: uno specchio che rifletteva l’immagine del suo viso: ed ora era il suo viso stesso ad essersi rotto, là, dentro l’acqua, e a rimandare immagini parziali, deformate, moltiplicate. Di nuovo lo prese una voglia di devastare e picchiò forte nell’acqua creando spruzzi. I pesci scappavano saettando, nonostante una finta indifferenza.
Sentì il vestito bagnarsi, alle maniche e sulla pancia. Picchiò ancora e ancora e il Papà gridò.
Ma questa volta non vi fu rimprovero: solo l’ordine di dare la mano.
Può darsi che fosse proprio questo che Sandro andava cercando: tenere la piccola mano in quella grande del Papà. Camminare fieri, in due, sotto la protezione e l’orgoglio di quell’intreccio di mani.
Così, per mano, cominciarono la discesa verso lo stagno. Dalla parte del Papà la vegetazione s’intricava e s’inselvatichiva. Vide un albero tutto pieno di palline nere e chiese che cos’era.
-E’ sambuco,- rispose il Papà.
“Il Lupo mangia il sambuco?” pensò lui. E poi, forte:
-Si può mangiare?
-Non so, credo che sia velenoso.
-E il Lupo?
-Il lupo cosa?
-Il Lupo…
-No, neanche il lupo mangia il sambuco.
Ora Sandro non levava gli occhi dalla boscaglia. Anche il Papà aveva nominato il Lupo. Il Lupo c’era.
-E il Drago?- chiese.
-Il drago cosa?
-C’è il Drago?
-Dove?
-Qui.
-Ma no, non c’è il drago. Il drago è nelle favole.
Eppure li aveva visti, i denti del Drago, alla televisione. E anche l’occhio del Drago aveva visto, grande come una palla.
Passò un poney, cavalcato da un ragazzino.
Più avanti il Papà si fermò e si chinò di colpo. Per terra, vicino al ciglio della strada, c’era un implume morto. Le zampette piccole, contratte, quel corpo nudo e la testa sproporzionata, nuda anch’essa… nel livore della morte, il becco e il cranio si confondevano in un’unica forma allungata, come un grosso pennino.
Sandro si accovacciò davanti al cadavere.
-E’ morto?
-Sì, poverino.
-Perché?
-Non so. Sarà caduto dal nido.
-E’ stato il Lupo?
-No. Ti ho detto che è caduto giù, giù dall’albero.
-E la sua mamma?
-Piange.
-Perché?
Il Papà non rispose. Raccolse su uno stecco il corpo del’implume e lo spostò nel canaletto che costeggiava la strada. Poi, con lo stesso stecco, cominciò a smuovere la terra e a scavare una piccola fossa.
-Che cosa fai?
-Faccio una tomba per l’uccellino.
-Una tombina?
-Sì.
-Perché?
Il padre ci pensò un po’.
-Per ripararlo,- disse.
-Perché?
-Per non far venire gli animali,- riuscì a tradurre.
-Il Lupo?
-No, i gatti.
-Il Gatto mangia l’uccelino?
-Lui vuole mangiarlo, Ma noi mettiamo l’uccellino nella sua tomba, così non lo mangia.
-Perché?
-Perché è così.
La fossa era pronta. Vide il Papà che di nuovo sollevava con lo stecco l’uccellino e lo trasferiva nel buco. Poi cominciò a coprirlo di terra. Una zampa, eretta e rigida, si rifiutava d’essere seppellita. Il Papà la sistemò con lo stecco, facendola piegare. Poi mise altra terra. La tombina era finita.
-E ora dov’è?
-E’ lì sotto.
-E il Gatto non lo vede?
-No.
-E il Lupo?
-Il lupo non c’è.
Sandro indicò la boscaglia.
-E’ là il Lupo?
-No. Ti ho detto che non c’è.
-Dov’è?
-Nei boschi.
Ma quello non era appunto un bosco? Sandro non capiva.
Quando furono giù, allo stagno, il Papà si mise a parlare con un uomo, un amico. Il Papà aveva molti amici.
Sandro vide di nuovo il poney, il cavallo piccolo. Lo seguì di qualche passo, fin dopo la curva.
Voleva anche lui un cavallo piccolo. A casa del Nonno ne aveva uno più piccolo ancora. Piccolo piccolo. Ma non camminava.
A un tratto si ricordò di suo padre. Lo cercò con gli occhi. Il Papà non c’era più.
Restò per un istante paralizzato dall’orrore. Il pensiero dell’abbandono, di essere abbandonato, rappresentava la sua paura più grande. Una paura così grande che lui non osa neppure soffermarsi su quel pensiero. Una paura che gli impedisce di pensare.
Comincia allora a correre, senza gridare, senza chiamare. A correre e correre.
Il bosco del Lupo è ora alla sua destra, e Sandro ha la sensazione che il Lupo stia per uscire, all’improvviso, da dietro un cespuglio o da uno dei radi viottolini che sbucano sulla strada.
“A MANGIARSELO IN UN SOL BOCCONEEEEE!”
D’istinto si porta a sinistra, più lontano dagli alberi e continua la corsa.
La pancia e il petto fremono come per una pressione. Lui sente solo che deve correre, più forte che può, senza fermarsi.
Correndo così prova meno paura. Gli sembra che sia più difficile prenderlo.
L’ombra improvvisa e profonda di una quercia gli fa temere che stia venendo la notte. Ma poi sbuca di nuovo nella luce.
Ogni tanto vede qualcuno. Una donna anziana cerca di fermarlo, ma Sandro la schiva e continua a correre. Non osa fermarsi. Non sa che cosa dire, cosa chiedere. Bisogna ritrovare il Papà.
A un tratto la boscaglia finisce, e cessa finalmente anche la salita. Sandro entra nella pineta.
Il respiro è ormai grosso, difficile. La vista è annebbiata dalle lacrime che gli appannano gli occhi.
Si trova infine nella grotta dell’acqua. Il posto è riparato, il rumore dello sgocciolio lo tranquillizza un poco. In mezzo all’acqua, come se uscissero da un bagno, ci sono gli Uomini rotti. Li conosce bene: è venuto spesso, con la Mamma, a guardarli.
Gli Uomini rotti se ne stanno sempre nella loro grotta, con le ginocchia immerse nel piccolo laghetto, a sentire quel continuo, quieto rumore delle gocce che cadono dall’alto.
Sono grandi, con barbe fluenti, e ci sono anche delle donne, con i puppini nudi. Il tempo e l’acqua hanno scavato e corroso le loro forme, che da umane sono diventate acquatiche. Nonostante la mole e l’immobilità, non fanno paura. Guardano con volti sereni e con lievi, enigmatici sorrisi.
Sandro non può avvicinarsi troppo, perché teme di cadere nell’acqua. Riesce ad arrampicarsi su una panca di pietra e si sdraia su un fianco. Il tumulto del petto pian piano va diminuendo. Il pensiero ritorna a fluire e con esso ritorna forte la paura.
Il Papà non cè più. Forse è andato via, si è distratto parlando con quel suo amico. Oppure è morto. Lui adesso è solo, abbandonato. L’idea dell’abbandono gli crea nella mente come un baratro, una vertigine. Sapeva che prima o poi sarebbe successo: se l’era sentito.
Non leva lo sguardo dal viso quieto, sorridente e barbuto degli Uomini rotti, che vivono sempre nell’acqua, in quella pace d’ombra e di muschio. E’ quasi tentato di fermarsi a stare con loro, a vivere anche lui lì, con quelle donne dai seni corrosi e nudi, con quegli uomini dalle barbe muscose.
Ora ha molto sonno. Ha voglia di dormire. La pietra su cui è sdraiato è dura e un po’ ruvida.
Dopo un certo tempo sente il grido del Papà, che lo chiama. Si rizza subito a sedere e ode di nuovo il richiamo. Allora salta giù dalla panca, graffiandosi le gambe.
Vorrebbe correre. Andare verso il Papà ridendo con le braccia spalancate. Ma qualcosa dentro lo trattiene, e non si muove.
Lo vede a un tratto sbucare dall’altra parte dello spiazzo, ansante, con movimenti concitati. Con altra gente, con molte persone, viene verso di lui.
Bisogna non lasciarselo scappare di nuovo. Bisogna correre…
Volta il capo verso gli Uomini rotti. Sembrano estranei, ricaduti in una totale indifferenza. Anche il Papà è stato disattento, giù al laghetto, mentre parlava con quel signore.
Prova vergogna, una vergogna fortissima, e non sa perché.
Di sottecchi guarda ancora suo padre, ormai a pochi passi.
Davvero notevole la tua capacità di guardare “con altri occhi”. Forse perchè ti sono rimasti dentro quegli occhi di bambino. Un racconto che trasmette antiche emozioni.
questo racconto, costruito con maestria, a mio avviso é solo in apparenza un susseguirsi di ingenue riflessioni, scoperte (anche quella della crudeltà) e immagini infantili. E’ qualcosa di più, é metafora della vita, della ricerca e della scoperta, del tentativo di dominare i propri impulsi, della speranza di trovare una mano forte che ci sorregga, una persona che ci dia spigazioni (il Papà) e della paura di restare soli nei momenti più difficili. Certamente non é casuale che l’autore scriva sempre” Papà ” con la maiuscola. Ma questo potrebbe essere solo una mia idea. Che dici Paolo? In ogni caso ho apprezzato la fluidità e la leggerezza, talvolta solo apparente, del racconto. Complimenti!