Il racconto del mese.
Il Bagno
di Alessandra Piccoli
E mi ritrovo qui, dopo una notte passata tra i cigli di strade e i fossi e decine di cadute assurde da finestre aperte al diciottesimo piano di edifici che non ho mai visto, seduta all’interno del bagno, sul wc, dove vanno sempre a finire i miei sogni. Un bel bagno bianco essenziale con le piastrelle lucide come un ospedale nuovo, con l’odore di disinfettante che ti brucia i neuroni e annulla i ricordi. Per renderlo meno asettico ho attaccato un pareo indonesiano alla finestra perché mi piace la luce fucsia che si riflette sullo specchio con delle rose visibilmente finte attaccate con la colla a caldo. L’ho fatto in un pomeriggio di pioggia dopo aver guardato annoiata alla tv uno di quei programmi assurdi dove ti insegnano a fare i lavoretti tipo scuola materna. Poi ti senti anche meglio, anche artista, anche utile, all’estetica di un bagno. Un po’ kitsch il tutto ma d’effetto. Finalmente una situazione familiare, che pare anche sicura, le prospettive sono buone. Qui ci sto bene, scrivo, leggo, disegno, scarabocchio, schiaccio punti neri, telefono a persone che conosco appena, tutte le mie cose migliori sono nate qui dentro, tra queste mura mute ora bianche e lucide pronte ad ascoltare senza giudicare mai come una madre che si è fatta straniera e di porcellana. Da adolescente Lui accoglieva i miei peggiori voti, i dialoghi allo specchio, i momenti di vomito incessante con l’acqua del bidet aperta per coprire il rumore, l’odio e rabbia cieca e poi una volta chiusa quella porta, una porta infinita e pesante da tirarsi dietro come quelle dei caveau mi assolveva da tutti i peccati, anche da quelli commessi dagli altri mostri che mi ero cucita addosso. Perché i tuoi errori sono come quelli degli altri, perché hai quella sorta di egocentrismo al negativo e pensi che il mondo non possa esistere e morire senza di te, ma non lo puoi salvare perché sei sbagliato, pessimo. Ma c’è la porta del bagno, grazie a dio. Pesante ed infinita da aprire, chiudere, sbattere, rovinarsi le dita. Che cosa sono le porte, tutte, se non mezzi per comunicare?
Avrei potuto riempire la vasca di lacrime, e tutta la carta igienica del mondo con le parole, e di sorrisi quel soffitto di legno vecchio e tarlato, che isolava e attutiva ogni rumore e puzzava di albero ammuffito, scaduto. Ad ogni delusione, ogni volta che qualcuno mi diceva “mi dispiace ti voglio bene” e ci attaccava le scuse più banali, odiavo quel mio preferire una parola e due carezze ad una mano furtiva in mezzo alle gambe, e correvo a guardarmi riflessa sullo specchio di fronte in piedi sul bidet. Prendevo uno specchio più piccolo di quelli che si usano per la barba o per la pulizia del viso e vedevo infinite me che rimbalzavano tra gli specchi. Cercavo la migliore. Ci vedevo sempre troppi ingombri, cose che non mi appartenevano. Troppa me. Erano i tempi dei maglioni legati in vita, delle uscite idiote, delle guance rosse, degli sguardi abbassati, dei brufoli dei capelli permanentati e delle sopracciglia folte, che io non ho mai avuto. Una parola e due carezze e avrei potuto sentirmi una Dea. Ma al mio bagno non importava, Lui truccava gli specchi, era bravo a raccontarmela, mi reggeva la testa, mi lavava la schiena e mi leggeva un libro, quando ero dentro di Lui. Spesso si pranzava assieme, e lo stomaco si faceva grande, ringraziavo e restituivo il favore. In fin dei conti Il bagno è un luogo di baratto, cibo con pensieri, pensieri con immagini, sorrisi con lacrime, lacrime con cibo.
Un giorno sparì la chiave, ed io ero chiusa dentro, probabilmente l’avevo appoggiata sopra ad una mensola, ma era tutto un gran casino, le mensole erano gli specchi degli armadietti che abitavano il mio cervello. Un cervello che ingoiava chiavi di ogni genere, e poi cambiava la serratura per esser certo di non perdermi, per tenermi al sicuro. Anche Lui, il bagno, come un cervello voleva tenermi lì, giusto un po’, voleva il mio tempo, la mia attenzione, voleva le cure che Lui riservava a me. Mi stava salendo un’ansia bianca, e sentivo la temperatura del mio corpo scendere repentinamente, le mani mi tremavano e i piedi scivolavano sul pavimento freddo bagnato dal mio sudore.
Tutto mi sembrò dilatato, eterno, anche se a dire il vero il tempo passato con Lui non era mai abbastanza. Non ci si conosce mai abbastanza, in realtà. Quel giorno, poi lo capii, intendeva darmi una lezione, non mi aveva mai trattenuto così, con impeto e “violenza”, nessuno l’aveva mai fatto. Nemmeno il cervello, voglio dire, aveva osato tanto. E non gliel’avrei permesso.
Gli specchi opachi e nessun mostro, sete e niente acqua da bere, il wc non si apriva e nessuna me. Era un incubo, uno dei peggiori della mia vita, dov’ero? Lui non mi sentiva, solo l’eco delle mie parole inutili che ritornavano dentro, e la tenda da doccia che puzzava di plastica vecchia da quattro soldi. Un bagno orribile, disordinato e sporco. Come me. Disordinata e sporca con la pelle di plastica. Ero da sola, costretta ad ascoltarmi. E fu la prima volta, tremenda.
Iniziai a prendere a calci la porta, poi tirai con forza la maniglia che mi scivolava per colpa delle mani bagnate. Lo specchio mi mostrò occhi rossi di paura e rabbia, sentivo la milza ingrossarsi, il fiato mancare. Mi stesi a terra, e improvvisamente mi ricordai che quel bagno non aveva chiave, non l’aveva mai avuta. Però mi vedevo, nitida, sentivo la mia voce, potevo toccare il mio corpo, percepirne i confini anche ad occhi chiusi, sentire il dolore.
Una parola, due carezze e fui libera.
mi e’ piaciuto molto. in particolare quell’ansia bianca che non avevo mai visto.
(sono la tua 216esima visita: wow! io non so se un mio racconto ne abbia mai avute tante).
Lila