Il racconto del mese: “Qui lotto” di Ivano Mugnaini

QUI LOTTO

di Ivano Mugnaini

George Widling aveva undici anni. Era figlio di madre italiana e padre inglese. Viveva a Leeds e passava ogni anno le vacanze a Pisa, nella casa dei nonni materni. Era un ragazzetto esile, pallido, dava l’idea di avere poco sangue, appena il necessario, non una goccia di più. Eppure era abbastanza forte da spaventare e tenere a distanza anche i bulletti più grossi e aggressivi. Praticava arti marziali, sebbene non avesse mai frequentato corsi o palestre. Era studioso, pacato, diligente; ma in certi momenti diventava più folle e scatenato di qualsiasi altro ragazzo; specialmente quando ascoltava la musica, si dimenava e ballava come se gli scorresse nelle vene un fluido bollente. Non sudava mai, e stava attento a cibi e batteri come se fosse conscio di possedere un organismo diverso. Era ben inserito in tutti gli ambienti e i gruppi che frequentava, curioso dei giochi dei coetanei e attento alle attività degli adulti. Nel suo sguardo però si coglieva a tratti una distanza incolmabile, come se la sua natura si ribellasse alla tentazione dell’integrazione completa, rigettando il tentativo di innesto e di inglobazione.
Inviato dal padre ogni pomeriggio a prendere il Times, mentre lo sfogliava sul posto, con occhio rapido, discorreva con Beppe, il tabaccaio-giornalaio, come un adulto, con profonde tristezze e allegrie. Si sforzava di apparire un bambino, chiacchierando di calcio, di Game Boy, di Warhammer, ma indagava a fondo negli occhi dell’uomo grande e cupo che gli sorrideva e finiva regolarmente per parlargli del mondo, della politica, della società, di ciò che avrebbe voluto più giusto, non più per sé, ormai, ma per i suoi nipoti. Faceva finta di non sentire, George, sbirciando i pupazzetti di pelouche e gli album delle figurine. Salutava e usciva poi, solenne, un istante prima della lacrima che scendeva sul viso del tabaccaio. Si allontanava senza correre con il giornale già letto, il già presente già diventato passato, stretto con rabbia nella piccola mano.
QUI LOTTO : una scritta rossa sopra un rettangolo di cartoncino Bristol. Si sarebbe trattato di un messaggio neutro, ordinario, se fosse stato collocato sulla vetrina di un’altra tabaccheria. In molti altri posti sarebbe stato un cartello qualunque: un semplice avviso riguardante il gioco dei Monopoli di Stato. Ma, conoscendo il luogo e l’autore, non c’erano dubbi: si trattava di un messaggio, un’implicita richiesta di aiuto. Era un SOS lanciato da un naufrago in balia delle onde ad una nave improbabile ma mai negata alle rotte dei sogni. In quel sottile foglio di carta incollato al vetro c’era una vita intera: i diritti, gli errori, i tradimenti, le speranze non ancora sommerse.
George Widling lesse, con la coda dell’occhio, senza smettere di camminare, le parole dell’uomo che gli vendeva il Times. Non fece un gesto, non mosse neppure le palpebre. Proseguì, come se niente fosse accaduto.
Il giorno dopo si presentò da Beppe in compagnia di Kevin, un suo amico ventenne. Kevin trascorreva la vita davanti ad un PC: riparando i computer degli altri, per campare, e inventandosi un’esistenza fittizia, per vivere. Combattendo i virus telematici sognava di curare i suoi, i vermi della mente e del cuore. Era fenomenale: scovava e annientava tutti i Malware e i Cavalli di Troia, anche i più subdoli e astuti. Si insinuava nelle fessure sottili tra un programma e l’altro, negli interstizi tra l’accensione e lo spegnimento, nelle feritoie del tempo e dello spazio in cui i sistemi sono vulnerabili, quasi umani. Per riparare i mali del mondo ed i suoi, Kevin ridava ai PC una vita propria, la possibilità di correre e navigare.
Mentre armeggiava con il computer della tabaccheria, Kevin continuava a ripetere una frase che aveva ascoltato in treno: “Condurre a destino”. La canticchiava, la gorgheggiava, la sibilava senza tregua. Dopo dieci minuti abbondanti in cui non aveva fatto altro che sillabare quel suo inesorabile refrain, Kevin si degnò di dare a George e a Beppe qualche ragguaglio in proposito: “E’ un termine usato dai ferrovieri; indica l’atto di portare i passeggeri fino alla stazione di arrivo”. Dopo qualche istante, con sguardo compiaciuto, Kevin aggiunse una postilla. “Anche i computer hanno il potere di condurre a destino. Ci salveranno, o ci uccideranno tutti. Ogni macchina creativa ha in sé enormi effetti distruttivi”.
Il sorriso di Kevin si fece ancora più ampio mentre pronunciava con lentezza questo ammonimento. Cliccò su un ultimo tasto e spense il PC di Beppe. Poi fece un cenno a George, gli strizzò l’occhio con malizia, ed entrambi, senza neppure salutare, se ne andarono.
Beppe si ritrovò a riflettere sul senso di quella visita. Non capiva perché fossero venuti da lui, né perché avessero usato il suo computer. Non si scompose più di tanto, comunque: aveva intuito fin dal primo incontro che George era strano: simpatico ma schizzato. Quel Kevin era un suo degno compare, suonato quanto lui. Rifletté con più cura, e concluse che quel “condurre a destino” ripetuto come una macabra filastrocca, conteneva una minaccia, neppure troppo velata, rivolta a lui, anzi, contro di lui.
George invece, in quello stesso momento, mentre ascoltava in televisione cose che già conosceva e che non lo avevano interessato neppure la prima volta, faceva riecheggiare nella testa una frase che gli recitava spesso suo nonno Patrick: Men at some times are masters of their fates, “Gli uomini in certi momenti sono padroni del loro destino”. Si tratta di Shakespeare, Giulio Cesare, gli ripeteva ogni volta suo nonno, gustando ogni sillaba come boccate di un sigaro toscano. George uscì di corsa e si precipitò alla tabaccheria. “Un virus ti condurrà a destino!”, urlò a squarciagola, un attimo dopo aver spalancato la porta. Poi fuggì ghignando.
Beppe si disse che era giusto: era la sola via praticabile. Tornando ancora indietro con la memoria, si rese conto che fin dal primo momento in cui aveva visto George, il piccolo e strambo ragazzo, lo aveva temuto, e amato, come un messaggero di morte.
Pensò al testamento, Beppe. Ma aveva ben poco da lasciare, se non qualche bolletta scaduta e il bollo dell’auto non pagato dal 2000. Si dedicò, allora, seppure a malincuore, ad un bilancio: aveva una moglie che lo aveva sopportato e si era fatta sopportare senza particolare pena. Aveva avuto un figlio, nato già distante, lontano, ansioso di correre per la sua strada. Aveva avuto molti cani, fedeli, amatissimi, morti troppo presto. Gli unici che lo avevano capito, forse.
Era pronto. Sorrise, trovando consolazione, nell’attimo in cui si sentì grato al piccolo George, venuto dall’Inghilterra o da chissà dove per toglierlo dai guai una volta per tutte.
Il pomeriggio del giorno successivo, Beppe il tabaccaio si era vestito di tutto punto, lisciato e profumato come se si preparasse per il più lungo e significativo dei viaggi. Si mise ad aspettare George. Era certo che quella volta il ragazzo si sarebbe presentato in compagnia di un altro suo amico, un dottore gelido e professionale in grado di iniettargli nelle vene una sostanza mortifera. Era pronto ad accoglierli entrambi con un sorriso. La sua unica richiesta sarebbe stata quella di fare ciò che dovevano fare in modo rapido e indolore.
George si presentò puntuale, ma ancora una volta con Kevin. Il maniaco telematico si sedette davanti al computer della tabaccheria, ormai familiare per lui, ed iniziò la sua opera, la corsa ad ostacoli. Sudò, imprecò, bestemmiò contro tutti gli dei e i numi dei software ogni volta che un firewall o una password lo bloccavano. Alla fine esultò. Balzò in piedi come un ostetrico che ha appena fatto nascere un bambino, urlante e scalciante di forza e di vita. “C’è voluto un po’ ma è fatta! I sistemi di sicurezza sono tenaci e bastardi; ma io sono un virus vivente più bastardo di loro!” – esclamò, sudato e trionfante.
“Il nostro amico Beppe adesso possiede un corposo conto corrente accreditato a suo nome sull’isola caraibica di Guadalupa. Inoltre è titolare a tutti gli effetti di un bar-tabaccheria sulla piazzetta davanti alla spiaggia dove passeggiano mulatte che ridono e danzano, danzano e ridono. Può tenerlo aperto un giorno a settimana, se vuole; gli altri può sedere e guardare il mare. Oppure può fingere di guardare il mare osservando carne abbronzata che ondeggia nel sole”.
Rise, il tabaccaio. La lacrima che gli cadde sulla guancia quella volta aveva una consistenza diversa. Rise anche George, per qualche istante. Poi ricordò a Beppe che, sebbene quello fosse il suo ultimo giorno di lavoro, aveva ancora il dovere di servire i clienti affezionati. Prese il Times, pagò fino all’ultimo centesimo, ed uscì senza aggiungere una sola parola. Quel pomeriggio le news, per qualche momento, gli sembrarono nuove davvero.


lotto

4 thoughts on “Il racconto del mese: “Qui lotto” di Ivano Mugnaini”

  1. Incontriamoci adesso di Ivano Mugnaini

    Corri amore, prendi una tee-shirt e un’arancia
    incontriamoci in un albergo di provincia
    con le persiane azzurre e un balcone
    che sa di basilico, terra e fiori di campo,
    un albergo qualunque pigramente affacciato
    su un vicolo stanco di polvere e passi
    di suore e bambini che cantano
    nenie, pifferi, topi, tubi di scappamento,
    è questo l’attimo, è questo il momento, amore,
    porta solo le tue labbra e un’arancia,
    incontriamoci in un albergo di provincia
    vicino al mare.
    Io berrò il tuo seno e la tua guancia
    sarò il bambino e tu la mia bilancia
    getteremo la maglietta sul tetto scuro
    della tua cara amica che sta in Francia,
    tu sarai le labbra ed io sarò l’arancia,
    non esitare, vola sulle tue scarpe più belle
    quelle leggere, di tela rosa e bianca,
    incontriamoci adesso, in un albergo di provincia
    anche senza il mare.

    Pochi riescono a essere poeti e prosatori di grande spessore artistico. Ivano e’ uno di loro.

  2. non so dire se mi sia piaciuto di più il racconto o la poesia.
    sono eccellenti tutti e due.

    amando io maggiormente la poesia voglio dire ” la poesia mi piacerebbere averla scritta io “, e, invidia a parte, mi sembra
    un tsto fantastico.

  3. bellissimo il racconto:asciutto e tuttavia così vibrante di emozioni che mi ha trasmesso..La poesia di Ivano mi fa volare su un prato per un picnic di primavera anche in pieno inverno.
    Un volo al sapore d’arancia ^ ^ ^ !

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