Il ragazzo del Brabante, di Carmelo Pistillo.
Per gentile concessione dell’editore Book Time pubblichiamo volentieri un estratto de Il ragazzo del Brabante, saggio introduttivo del dramma Passione Van Gogh, entrambi scritti dal poeta Carmelo Pistillo.
(…) Ciò che emerge dalla sua biografia è l’esaltazione di un pittore pressoché autodidatta, forte di una sua dimensione devozionale, segnato da un’incrinatura spirituale e mentale. Sebbene per cause profondamente diverse, e non tutte legate ad analoghi percorsi clinici, il suicidio di Van Gogh non può non rinviare a quello consumato da altri pittori che rispondono al nome di Francesco Borromini, Ernst Ludwig Kirchner, Nicolas de Staël o a poeti come Paul Celan, Marina Cvetaeva, Sergej Esenin, Heinrich von Kleist, Vladimir Majakovskij, Gérard de Nerval, Cesare Pavese, Sylvia Plath, George Trakl, Ernest Hemingway, Virginia Woolf o a quelli circondati da un fuoco definitivo, che però impedì loro di compiere quel gesto, come Robert Walser, Friedrich Hölderlin, Dino Campana, August Strindberg, Edvard Munch, Friedrich Nietzsche. Tutti accomunati dalla stessa terribile camicia di forza, che comunque ha reso possibile la nascita di espressioni e intonazioni con cui spesso rappresentiamo i nostri turbamenti e gioie.
Un caso a parte e poco noto è lo sciagurato gesto con cui nel 1885, a soli trentasette anni, in seguito a una forte crisi nervosa, il musicista Henri Duparc distrusse gran parte delle sue composizioni e dell’epistolario. Offuscato dalla malattia, Duparc visse fino al 1933, senza scrivere più nulla. La musica superstite, quella che ancora possiamo ascoltare, fra cui Chanson triste, Extase o L’invitation au voyage, su versi di Baudelaire, è tutta anteriore a quella data cruciale in cui una furia nichilista guidò la sua mano per decretare la morte di partiture che avremmo voluto leggere e suonare.
Vincent Van Gogh e il dimenticato Henri Duparc sono i simboli di una forza distruttiva che s’annida con la maschera del mistero dentro l’uomo che decide di non esprimersi più, se non morendo, o addirittura di cancellare per sempre la propria voce dalla scena del mondo.
Cosa avrebbe potuto dipingere ancora Van Gogh, se non avesse accusato i disturbi accertati e compiuto l’estremo gesto di togliersi la vita? È lo stesso Vincent a dircelo:
«Ah, se avessi potuto lavorare senza questa maledetta malattia… quante cose avrei fatto, isolato da tutti, seguendo ciò che il paese mi ispirava! Ma sì, il mio viaggio è proprio alla fine.»
Io credo che questo dubbio abbia poco fondamento e sia figlio di un inguaribile sentimento romantico che pervade un po’ tutti gli artisti. Un artista è artista per quello che ha creato e non per quello che avrebbe potuto produrre, soprattutto quando la sua eredità è formata, come nel caso di Van Gogh, da opere esemplari e compiute.
Su un altro versante penso al suicidio poetico di Rimbaud, che ha deliberatamente cessato di scrivere a poco più di vent’anni, o a Luigi Tenco, che, dopo averci regalato grandissime emozioni musicali, si è tolto la vita a soli ventinove anni. Cosa avrebbero potuto comporre ancora queste due grandi anime? Se sia possibile ripetersi o addirittura andare oltre, non è dato saperlo. È indubitabile invece che fra i doni ricevuti luccicano capolavori che ci dicono moltissimo del loro rapporto ossessivo con la poesia e la musica. E con la vita. E tale osservazione dovrebbe bastarci così come dovremmo accettare il segreto della loro scelta che resta assolutamente inafferrabile per chi tenti di decifrarla razionalmente. In ogni creatore, sono convinto, esiste una lingua selezionata, un vocabolario destinato a esaurirsi indipendentemente dall’età e dal valore di ciò che è stato prodotto fino a quel momento. Ogni opera è come se disidratasse il corpo che la concepisce e porta in luce. Ogni libro o quadro che sia, può essere paradossalmente l’ultimo. La possibile resa dell’autore, dopo averlo terminato, per innumerevoli ragioni è sempre in agguato. Ed è proprio questa inesplicabile relazione col tempo, drasticamente spezzata dalla mano armata di Van Gogh, a rendere irripetibile l’altezza dei risultati raggiunti.
«I pittori quando sono morti e sotterrati parlano con le loro opere…» scrive Van Gogh.
Oltretutto, come a voler complicare la lapidarietà delle sue parole, in una lettera del maggio 1888, l’inquilino della Casa Gialla di place Lamartine svela la sorte della sua natura avversa:
«La nostra nevrosi… è anch’essa un’eredità fatale, perché con la civiltà ci si va indebolendo di generazione in generazione… Ciò prova abbastanza chiaramente che se noi vogliamo guardare in faccia la vera natura del nostro temperamento, bisogna che ci mettiamo nel numero di quelli che soffrono di una nevrosi che viene da lontano.»
E ancora: «Più divento dissipato, malato, vaso rotto, più io divento artista, creatore, entro quel grande rinascimento dell’arte di cui parlavamo… Quest’arte eternamente viva, e questo rinascimento, questo germoglio verde che spunta dalle radici del vecchio tronco tagliato, sono cose così spirituali, che ci assale una certa malinconia pensando che con minor fatica si sarebbe potuto vivere la vita, invece di fare dell’arte.»
È vero, vivere semplicemente forse costa minor fatica che incamminarsi verso forme di impossibili assoluti e verità da raffigurare. Restare a guardare la natura e il cielo, la realtà, insomma, senza esprimersi, o aspettando i dispacci dal fronte della realtà forniti da altri, è altra cosa rispetto allo spettacolo di un orizzonte in continuo movimento di cui non siamo solo spettatori. (…)