Il respiro della parola.
Dialogo con CHANDRA LIVIA CANDIANI,
di Virginia Farina
Il silenzio è cosa viva e Questo immenso non sapere sono per me due libri profondamente connessi, complementari come la pulsazione del respiro. Il primo rivolto all’interno: un libro che invita a chiudere gli occhi per imparare a vedere, un libro teso al silenzio prima della parola, al luogo stesso da cui si origina la parola. Il secondo espanso intorno come l’espiro, sguardo restituito al mondo, con compassione. E potremmo forse dire che esiste questo perché c’è l’altro, e viceversa. Che relazione c’è per te tra questi due momenti di scrittura e riflessione?
Innanzi tutto per me c’è stata la sorpresa della prosa, un confronto nuovo con la parola. Venendo dalla poesia, ero abituata ad aspettare la parola e poi a lavorare togliendo, riscrivendo, alcune volte modificando, altre seguendo un flusso a cui lasciarmi andare e allora tutto nasceva già ben ascoltato. Con la prosa, c’è stato anche un progetto, soprattutto per ‘Il silenzio è cosa viva’. Mi ero fatta una scaletta di massima e andavo seguendola. Ma la morte di mia sorella mi ha spiazzato e l’editore ha accettato il mio spiazzamento e lo spostamento della scrittura che elaborava il lutto. ‘Questo immenso non sapere’ all’inizio faticava a nascere, tutto quello che sapevo è che non volevo assomigliarmi, copiarmi, doppiarmi. Parlare di animali e alberi mi competeva solo esistenzialmente, era un sapere solo cardiaco, ma chiamava forte. Poi anche questa volta, la vita ha preso il sopravvento. La pandemia mi ha spedito in campagna, il libro si è frammentato, disordinato, spezzettato e ci sono stata, assomigliava di nuovo al mio processo vitale e la scrittura ha seguito i battiti. Volevo scrivere del cuore e il mio era frantumato, come infatti è il libro. È stato più simile alla scrittura poetica, tranne le parti più didattiche sulle pratiche di meditazione che comunque nascevano da un’urgenza di buttare nel mondo strumenti di salvataggio e di salvaguardia. Se nel primo gettavo un’àncora per la conoscenza di sé che per me coincide con la meditazione, nel secondo ho seminato l’urgenza di conoscere cos’è il cuore e chi sono gli abitanti degli altri regni, i non-umani che mangiamo e di cui ci vestiamo e con cui costruiamo mobili e case ma non sentiamo come veri viventi con diritti, cittadinanza, alterità, onorabilità.
L’insegnamento del non sapere verso cui tu ci porti è una vera rivoluzione in una cultura come la nostra che nonostante cent’anni di relatività e di fisica quantistica è ancora radicata nel fondamento di una Conoscenza che fa dell’uomo signore e padrone della Terra, intelligenza superiore del creato di cui si autoproclama centro. C’è in questo un sapere rovinoso, in cui, come diceva Vimala Thakar, ancora sappiamo di tutto eccetto che di noi stessi. Ed è forse questa la più subdola delle forme di ignoranza. Come rieducarci allora a riconoscere che il nostro confine è lo scambio del respiro, un diaframma di pelle che si apre sempre anche se per pori sottilissimi? Come riconoscerci ancora parte?
Sì è un paradosso rovinoso, catastrofico credersi il centro, i possessori della Terra e nello stesso tempo non conoscersi. Mi sembra che quello che ci sta succedendo ci stia urlando che o comprendiamo fino in fondo l’interconnessione, l’interdipendenza di tutti i fenomeni e di tutti gli esseri o siamo spacciati, non ci resta che l’estinzione. Chi non vede gli altri esseri viventi, umani e non umani, non vede nemmeno se stesso. Non scava, non si guarda da fuori o da dentro, è convinto di sé, non si avventura in un progetto di cambiamento e trasformazione e fa sentire sciocchi, fuori luogo, non colti chi ci si dedica. Quando mi accorgo di cosa spesso si intende per ‘conoscenza’ penso proprio che ormai la vita è lontanissima da quella che chiamiamo ‘cultura’. Credo che per riconoscerci parte ci voglia umiltà, vicinanza alla terra, al corpo mortale. Chi studia, sente, assapora il corpo e il cuore-mente, sa di non sapere, sa di essere maglia di un infinito tessuto, così grande da diventare invisibile. Tutto è vivo: inspirando, il mondo entra in me, espirando esco nel mondo e mi dissolvo. Come non cambiare? Come credere ancora al carattere? Come darsi arie, toni, ruoli senza cadere nel ridicolo? Come far sentire qualcuno meno di noi, quando la vera ignoranza è ignorare di essere fragili, mortali e perciò predatori? Sento fortissima la necessità di una religione laica, religione del vivente nella sua precarietà, dell’impermanenza, della compassione, della visione che scava e partecipa di sé e del mondo. Siamo provinciali, ci dimentichiamo costantemente dell’universo o pluriverso che sia e in questo provincialismo ci mettiamo al centro, mentre l’universo chiede di sapersi periferici. Resto allibita, ancora di più da quando vivo tra alberi e animali, dalle recite umane, resto senza parole, non so che fare, balbetto e zoppico. Mi sento fuori luogo, fuori mondo. Ho perso il mondo. E la vita soffia in me il respiro.

Credo che il dolore sia luogo universale di comprensione e al tempo stesso una trappola. Un filo sottilissimo distingue ciò che ci permette di rendere un dolore significativo, di portarci più in profondità nella nostra esperienza umana, oppure di aggrapparci ad esso come elemento della nostra identità: sono perché soffro e per questo, soprattutto come artista e poeta, posso dire. Come dici tu in un passaggio del tuo libro: autodistruggersi può essere considerato avventuroso ed elegante. Come pronunciare allora la verità della sofferenza senza nutrirla?
In realtà, credo che conosciamo la sofferenza solo quando non è la ‘mia’ sofferenza, quando la lasciamo libera di esprimersi nel corpo-cuore-mente senza auto-narrazione. Allora, se ci mettiamo in contatto senza giudicarla e senza identificarci, la sofferenza ci parla e ci dice anche come uscirne, assaporandola e sentendone il limite, la sua dissolvenza. Ma spesso invece ci vergogniamo della sofferenza come di un fallimento e la sostituiamo con la brama di potere, di fama, di autorità, di essere in qualche modo importanti. Oppure ci identifichiamo, allora è sempre colpa di qualcun altro, siamo sempre vittime in credito con tutti e con la vita stessa. La sofferenza ha in sé la gioia, la conoscenza, la liberazione. Si tratta di esserne testimoni. La poesia è una forma di testimonianza, aiuta la non-identificazione e la trasfigurazione. Un potente strumento di conoscenza priva di arroganza e di appropriazione è lo studio delle illusioni. Gran parte della nostra vita passa alla conquista di cose che contano meno di nulla. Accorgersene è liberante. Indirizza a una solitudine in comunione con gli esseri che vivono per vivere, non per raggiungere una meta o conquistare un chissà che.
Nell’elogio dello stupore che emerge dalle tue riflessioni credo si possa sentire il profumo del fiore della meditazione, perché più di ogni cosa ci invita ad uscire dalla scontatezza dell’esserci! Ed è qualcosa di molto semplice, un movimento spontaneo del cuore. Un giorno un bimbo mi ha detto: oggi sono felice, perché ho scoperto che sono vivo e non sono morto. In quel non sono morto ho sentito quanta potenza aveva la sua comprensione, il suo stupore. E’ a partire da qui che ancora si può nominare ciò che fa tremare, la parola amore, così fondante e impronunciabile, che tu ravvivi rintracciando i percorsi di altri sguardi “incommensurabili”. Come pronunciare ancora ciò che fa bene, Chandra, come dirlo?
Spogliando, spogliando le parole di falso bene, di retorica, di buoni sentimenti fasulli. Conoscendo il male si pronuncia di nuovo il bene, il vero bene. Non sono buoni i vili che temono il campo aperto, non sono buoni quelli che evitano il confronto, non è buono chi si giustifica senza comprendere. Tornare a parlarsi di quello che ferisce, disarmarsi e tremare di fronte all’altro, accusare i colpi e anziché restituirli, fermare la mano, dire il male, comunicare che un altro modo c’è. Se si è svegli, si vede il sonno degli altri, sonno sonnambulo, inconscio che procura danni tremendi. E allora si può bisbigliare: “Attenta … attento.” Spesso si viene emarginati per questo, ma che importa? Brucia sempre meno, per meno tempo, certe volte si scoppia perfino in una risata. L’importante è essere svegli, pronti. Penso che dovremmo essere più responsabili con le parole del bene, le pronunciamo con troppa non curanza, senza profondità di vero. Ogni mail anche di quasi sconosciuti termina con ‘un abbraccio ’. Ma ci ricordiamo cosa vuol dire tenere nelle nostre braccia un altro e lasciarci tenere da un altro? E ‘amore’ parola che diciamo sempre e comunque; l’amore ha miliardi di sfumature e dovremmo essere responsabili delle illusioni, dei malintesi che la parola crea. Per me è importante non far credere amato l’altro se non lo è, tanto quanto far sentire accolto chi lo è. Allinearsi alle proprie parole e lavorare perché se sono più avanti di noi sia possibile raggiungerle e se invece sono invecchiate possano morire e rispuntare neonate. A me fa bene quello che è consapevole, che nasce da lavoro faccia a faccia con il vero, non quello che mi consola, mi adula, zucchera il male. La franchezza, la pronuncia pulita del tragico, le parole che mi svegliano, questo mi fa bene.
Accettare il non sapere, in una prospettiva temporale, significa accettare la nostra radicale fragilità, l’incertezza di ogni domani, di ogni progetto. Significa circoscrivere ciò che sappiamo a ciò che sentiamo, a ciò che siamo, ora. Fare tana del presente. Che sapore ha il futuro se incontrato proprio a partire da questo non sapere? Fa paura? Apre spazi?
Il futuro come il passato sono parte del presente. Un presente senza memoria è colpevole, senza sogni è arido, fa torto al mondo che è tutto un sogno. Il presente non è il contingente, è vastissimo. Si può progettare nel presente, sognare, comprendere le direzioni del desiderio, scegliere. Ma c’è un futuro che vogliamo imporre al presente che non è altro che ripetizione del passato, questo sì va lasciato sgretolare. Il futuro è fiducia, fiducia che ben seminando si raccoglie, prima o poi. L’importante è seminare con piacere, con raccoglimento, con intensità. Il non sapere non è ignorare e non è tecnica di sopravvivenza, il non sapere c’è e abbandonarsi al suo flusso è come seguire un battito nel buio, fa tornare a casa, nella fiducia primaria del vivente. E non trascura l’azione, sentire il presente, è accordarsi con l’azione intonata al momento e al luogo. E parte di questa azione è anche ritirarsi. Si può essere stanchi a una certa età della ripetizione e ritirarsi è opera buona, da lontano si possono fare tante azioni intonate e invisibili che tessono il bene senza appropriarsene, di nascosto.

Fragilità, inciampo, tremore, la tua poesia spesso è un tentativo di nominare i territori minimi della nostra esistenza, di fare luce sulla nostra piena umanità, di riconoscerci piccoli per restituirci una possibilità di incontro. Qual è per te la misura di questa piccolezza che, a tratti, mi sembra arrivare a una sua forma di infinito?
Sì, l’infinitamente piccolo. Tutto il trascurabile, il muto, il nascosto, lo scarto, il non visto, il fuori scena e luogo è occasione di incontro con l’essere che non fa sfoggio di sé, con la minutezza dell’esistenza precaria, sull’orlo dello svanire. Ogni giornata è punteggiata di momenti banali, di incontri insignificanti e lì c’è il vero invisibile, il non visto che accuccia la brama e spegne la rabbia, la neutralità del quotidiano dove si nascondono le insidie dell’auto-riferimento e la possibilità di andare oltre la selettività della mente discorsiva, il costante ‘mi piace’, ‘non mi piace’. La pace è molto vicina al non straordinario, al lavoro radicale dell’inverno che porta alla rinascita puntuale. Il microcosmo è una miniatura del cosmo e le mani lavate con attenzione possono aprire le porte a una percezione del reale trasformata. La consapevolezza è una trasformazione della mente che nessuna sostanza può mimare, nemmeno il pensiero. Faccio volentieri a meno del senso, a me basta l’adesione al vivere tutto con intensa partecipazione, con fiducia radicale. Leggo, studio per sostare sulle soglie, non per accumulare chiavi e parole. La mia piccolezza è non smettere di dare una possibilità di mutamento a tutti e a tutto, è lavoro di scalpellino per creare spazio tra me e l’altro e respirare il vuoto che ci collega e ci separa. Sento che il mio peggio è il terreno migliore in cui io possa dissodare, vangare, innaffiare la sbocciatura. Sta arrivando la vecchiaia e mi riprometto di scomparire un po’ ogni giorno, di lasciarmi mangiucchiare dal tempo senza rimpianti. Ho fame di quiete e di giustizia, di capienza e di ritiro.
Hai ancora fiducia nella parola, e questo si sente. E ne hai fiducia anche quando ci inviti a guardare abbastanza a lungo da “uscire dalla parola”, proprio come fanno i bambini che nella ripetizione e nel non sense riportano la parola a un territorio più ampio nel quale non ci confondiamo più con la “cosa”. Quale respiro credi sia importante curare per scrivere e per leggere oggi parole che vogliono essere poesia?
Il respiro dell’abbandono. Espirare, lasciarsi uscire da sé, seguire questo respiro che porta altrove, che porta dove non si sa. Non compiacere, non essere come ci vogliono ma come ci viene, dettati dall’essere, disperderci come offerta di briciole.