Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo: Giovanni Pascoli e Sogliano. Appunti per percorsi di lettura di Bruno Bartoletti.
1^ PUNTATA.
San Mauro Pascoli – Accademia Pascoliana – 26 gennaio 2014
Quando penso alla poesia, mi viene in mente la «leggerezza». La leggerezza fu il tema della prima delle Lezioni americane di Italo Calvino, Paolo Lagazzi scrive un intera raccolta di saggi e dà come titolo al libro Forme della leggerezza e Pietro Citati, d’altro canto, ci illumina e ci invita nella sua raccolta di saggi La malattia dell’infinito a ripercorrere il novecento attraverso un insieme di segni che, dalla bellissima farfalla splendente sulla scrivania di Stein nel finale di Lord Jim di Conrad ai Giganti della montagna di Pirandello, arriva fino agli scrittori e poeti dell’ultimo novecento.
E quando penso alla leggerezza, mi viene in mente questo addio, questo ultimo saluto in un tramonto pieno di malinconia, questo gesto lento con la mano, con la stanchezza propria di chi sente il tempo allontanarsi. Di qui inizia il mio discorso, perché non altro fu la poesia del Pascoli che un eterno viaggio, un viaggio fatto di addii, di partenze e di ritorni, un viaggio come lo fu la sua vita, sempre in bilico, sempre in forse.
«Balzò allo sportello in un grande impeto… Ci salutammo con le mani… a lungo! Per pochi secondi… e poi non ci siamo più riveduti. Per vie opposte! Ma all’ultimo ci troveremo tutti alla medesima stazione…».
È il Pascoli che scrive a Ida Ferrari il 26 giugno 1905 ricordando quell’ultimo incontro con Severino Ferrari in una stazione tra Pisa e Arezzo per strade opposte.
Quando penso alla poesia del Pascoli, alla sua vita, penso a questo distacco, a questa perdita, descritto con la leggerezza delle parole, appena sognato o intravisto, in una luce morente piena di tristezza.
Invece il suo rapporto con Sogliano non fu certamente dettato dalla leggerezza. Perché Sogliano rappresentava il distacco, la perdita, ma una perdita in contrapposizione a tempi ben più duri; rappresentava quel paese l’isola di Scheria dove viene accolto Ulisse, l’isola di Nausicaa e dei Feaci, o forse la sua stessa Itaca, isola felice, se solo avesse potuto raggiungerla, se il sonno non lo avesse colto proprio nel momento in cui l’isola sembrava più vicina. E proprio nei momenti della vita più difficili.
Il poeta si è laureato da poco, la sua vita di studente a Bologna non era stata sempre puntuale nel rispetto dei tempi degli esami (fu studente universitario dal 1873 al 1882). Non vede le sorelle Ida e Maria da nove anni. Nove anni sono tanti. Il poeta ha 27 anni, Ida 19, Maria 17. Da Argenta, dove si era recato prima di salire a Sogliano, il 3 luglio 1882 scrive una lunga lettera alle sorelle – in realtà è una risposta a una loro lettera – annunciando il suo arrivo. La sua vera storia con Sogliano inizia di qui e di qui si sviluppa, si allontana e ritorna. È vero, c’era stato anche prima, a Sogliano viveva la zia Rita, sorella della madre Caterina, e quindi qualche visita doveva essere stata fatta. A sentir Maria il poeta c’era stato a tre anni e mezzo e nel cimitero di Sogliano era sepolta Carolina, morta a cinque anni nel 1865, quando si trovava dalla zia. E ancor prima di Ida e Maria a Sogliano la sorella maggiore, Margherita, aveva studiato nell’educandato delle Maestre Pie.
Ida aveva compiuto cinque anni, Maria appena tre, quando vanno a stare a Sogliano, paese che, salvo un breve periodo passato a Rimini, non avrebbero più lasciato fino al 1885, fino al loro trasferimento a Massa insieme al fratello. Dunque le sorelle trascorrono a Sogliano tutta l’infanzia e l’adolescenza, diventano ragazze e con il fratello Giovanni i rapporti sono molto scarsi, quasi inesistenti. A Sogliano erano state accompagnate verso la fine del 1868 dalla fedele domestica di Rita – Rosa Calisesi, – dopo la morte della sorella maggiore Margherita, e dal 1874 al 1882 saranno educande presso il convento delle Agostiniane.
È il 1882, una data importante per una serie di ragioni: per la prima volta il poeta, dopo tanti anni, incontra le sorelle, ma soprattutto per la prima volta la sua poesia acquista il tono e lo spessore che svilupperà poi negli anni, quello dell’eterno pellegrino, del viandante sempre in cammino, sempre in attesa, sempre in forse. A Sogliano scriverà infatti una delle prime poesie, Il pellegrino e in quegli anni stava componendo Romagna e stava lavorando alla sua prima stesura, Colascionata 1 a Severino Ferrari Ridiverde, che viene pubblicata in «Cronaca Bizantina» il 1° dicembre 1882 e in cui già troviamo il verso
Io, la mia patria or è dove si vive
Un verso che segnala uno sradicamento, uno strappo dai propri luoghi. Vero o falso non so. La poesia ha sempre qualcosa di vago, anche se attraverso la poesia si riesce a ricostruire una parte della storia del poeta. Elisabetta Graziosi proprio in questa sede ha detto che «il poeta non scrive la propria biografia, ma la conforma, trasforma, deforma» -, perché, a dire il vero, anche quando parla di se stesso, il poeta finge, come affermava Pessoa, «Il poeta è un fingitore: finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente» (la citazione è a memoria). «Svolta, quella dell’82, repentina e radicale», scrive Pantaleo Palmieri, in quanto «solo alla svolta del 1882, chiusa la stagione universitaria, disciolto il gruppo della bohème giovanile (quasi un’adolescenza fin troppo protratta), solo allora Pascoli ricostruirà… una storia di lutti familiari»[1].
La premessa che segue è in apparenza così poco aderente al tema. Ma è necessaria. È come se dovessi liberarmi da tante cose che respirano nel profondo, che lievitano, che non trovano forma. Pascoli è stato, fin dal tempo dell’infanzia, il mio poeta, ripreso da studente con l’argomento della tesi di laurea, rivisitato in epoche successive. Letto, studiato, imparato a memoria. Come semplice lettore, come incontro. Diverse testimonianze sul rapporto Pascoli e lettore sono riportate nel volume Pascoli e la cultura del Novecento, a cura di Andrea Battistini, Gianfranco Miro Gori e Clemente Mazzotta, Marsilio, 2007. Altre si sono aggiunte recentemente con Pascoli, Poesia e biografia, a cura di Elisabetta Graziosi, Mucchi Editore, 2011. Ma ormai la sua bibliografia è infinita. Il Pascoli è stato sviscerato e rivoltato da ogni parte, fino a vedervi ciò che non si può o non si deve vedere. È vero, il Pascoli non è solo la sua poesia, come invece vorrebbe il Croce, ma nemmeno è soltanto la sua biografia. Anzi quest’ultima conta relativamente, oltre alla vita, ci sono i maestri, gli autori, i libri, lo studio, di cui un’ampia documentazione è stata registrata in Le Biblioteche del Fanciullino, Giovanni Pascoli e i libri. Pascoli è stato per molti il punto di partenza, ha rappresentato lo spartiacque tra Ottocento e Novecento, ha rinnovato e inventato un linguaggio, ha operato una separazione tra l’antico e il moderno. Questo era ed è stato per diversi anni, forse dovuto all’insegnamento della scuola, «il Pascoli». Un giorno, subito dopo la laurea, fui invitato a casa dal sig. Dario Mazzotti, autore di La vita, episodi, aneddoti di Giovanni Pascoli, una voluminosa biografia edita da Maggioli nel 1970. Mi chiese, tra le altre cose, se non fosse giunto il momento di portare nelle scuole un messaggio di bontà, studiando il Pascoli. Nulla di più lontano dai contenuti della sua poesia, nulla di più inesatto, anche se si respira in alcuni dei suoi testi un messaggio di fratellanza e di solidarietà. Umberto Sereni, nella presentazione di Caro Giovvanni… a cura di Gualtiero Pia, stampato in occasione del centenario dell’arrivo del poeta a Barga (1895), lo documenta. E lo fa recuperando i versi de Il Focolare (Primi Poemetti): il focolare è spento, ma il buon novellatore riscalda con la sua parola, con la sua poesia, ed è l’unico modo per difendersi dalla morte, un ambiente che ricorda così da vicino certe scene del film Il settimo sigillo di Bergman.
C’è un ricordo personale, un ricordo di tanti anni fa a cui ricorro ogni volta che mi avvicino alla poesia, forse perché «immortale è l’infanzia», affermava Mario Luzi, o forse perché i primi ricordi restano indelebili e si riempiono di altri significati. Il mio incontro con la poesia si perde nella notte dei tempi. Siamo all’inizio del mese di giugno. All’esame di terza elementare recitai a memoria (un tempo le poesie si studiavano anche a memoria – una bella e formativa abitudine che ha attraversato negli anni periodi sempre più bui – e gli esami iniziavano molto presto) la seconda e terza strofa del X Agosto – l’«atomo opaco del male» era un pugno nello stomaco per bambini di quell’età che una sana pedagogia non permetteva o non consigliava.
Scriveva Paul Valery che, dopo aver lasciato perdere molti libri alla ventesima pagina, un buon libro si legge e rilegge più volte, ed ogni volta si scoprono cose nuove. Così accade per Giovanni Pascoli, entrare nell’universo pascoliano regala sempre una sensazione di stupore per scoperte un tempo non vedute. Leggendo e rileggendo le sue poesie, non sfugge infatti quel fenomeno di cupo innamoramento da cui è difficile staccarsi. «Entrare nell’orizzonte pascoliano, senza esserne complici, è un’esperienza simile a una tortura; ma, una volta entrati, fatto il primo passo, chiudere l’argomento e tagliare la corda è impossibile: le viscere pascoliane non hanno fine, perché non hanno forma»[2]. È come se quell’opera fosse sempre aperta, mai conclusa, sempre in fieri, come se «a ciò che è stato detto» si affianchi «ciò che ci viene nascosto» per una forma di riluttanza e di pudore che il poeta non osava svelare ai lettori e forse neanche a se stesso[3].
La poesia ha sempre qualcosa di nuovo da dire. Un giorno mi chiese un insegnante di conoscere il significato esatto di un verso per poterlo spiegare ai suoi alunni – e troppo spesso con queste eccessive spiegazioni si finiva con l’uccidere la poesia. Ma non esiste una spiegazione univoca della poesia, come non esiste una metodologia unica per affrontare il problema. È il Pascoli stesso a rispondere nella prosa Il latino nelle scuole, commentando un sonetto sulla fondazione di Roma, a quanti cercano nella poesia risposte precise: «Il poeta, chi che egli sia, non è un gran poeta; tuttavia non s’impanca a dir tutto, a spiegar tutto, come un cicerone che parlasse in versi; ma lascia che il lettore pensi e trovi da sé, dopo avergli messo innanzi quanto basta a capire»[4].
E per come ci si deve accostare alla poesia illuminante è quanto afferma Antonella Anedda in una intervista: «A un gruppo di studenti (o di adulti) direi (e dico) semplicemente: ascoltate. Se la poesia è vera, si fa silenzio. La gente capisce, anzi capisce più la poesia della prosa. Solo che vuole serietà, vuole sentire il testo e non chiacchiere su di esso. Un giorno ho letto in classe una poesia di Puškin. Sono alunni di una scuola professionale, spesso difficili, a volte caratteriali. Ho detto: niente parafrasi. Vi riassumo di cosa parla questa poesia: di una persona amata e perduta, di lunghi anni di grigiore in cui tutto sembra spento. Poi la persona riappare e il mondo sembra parlare di nuovo: la poesia, prima muta, ritrova le parole. Bene: lentamente, mentre leggevo, i ragazzi hanno lasciato i banchi e si sono seduti silenziosamente intorno alla cattedra».
E di questi esempi si possono contare all’infinito, come i versi che legge il vecchio alla moglie ammalata che più non lo riconosce e, non a caso, sono i versi di Walt Whitman, o i prigionieri che ascoltano i versi di Du Bellay in un campo di concentramento[5].
Non è strano dunque che Tzvetan Todorov, l’autore di quel fondamentale testo, La bellezza salverà il mondo, si chiedesse perché a scuola si insegni così male la letteratura[6].
Sotto la tragedia familiare, i lutti e le disgrazie che sono seguite a un assassinio rimasto impunito, si avverte e va ricostruita un’altra pagina di storia, è la pagina del tentativo di costruzione del nido, riuscito solo a metà, una pagina in cui Sogliano occupa un posto centrale nelle vicende del poeta, da cui emergono, come messaggi, brecce, schegge, i versi, gli abbozzi, i componimenti: è quel libro della memoria, solo progettato e mai scritto.
La memoria, il ricordo delle cose perdute, sono elementi su cui poggia tradizionalmente la poesia. Non è casuale che una delle sezioni di Myricae[7] porti il titolo di Ricordi e si apra con Romagna, coordinando tempo della memoria e luoghi. «Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo»[8], scriveva nella Prefazione ai Primi Poemetti, e il ricordo era per il poeta soprattutto un riportarsi ai tempi e ai luoghi dell’infanzia per ascoltare la voce dei suoi morti. La seconda edizione di Myricae del 1892 si ampliava con alcuni componimenti dedicati al dolore familiare e la terza edizione del 1894 si apriva con la lunga lirica Il giorno dei morti (alcuni frammenti erano stati già pubblicati nella seconda edizione), una narrazione fosca e tragica, una epifania dell’esistenza svelata attraverso la voce dei morti in un paesaggio tragicamente funebre. «Liriche della memoria»[9] le chiamava Mario Pazzaglia parlando di quella raccolta posta alla fine dei Canti di Castelvecchio, ma come sezione staccata, che va sotto il nome di Ritorno a San Mauro – dono del poeta per le nozze di Emma Tosi, figlia del Sindaco – e che rappresenta forse il primo nucleo di quei Canti di San Mauro già ipotizzati nella Prefazione ai Primi Poemetti[10]. E liriche della memoria, oltre all’intera sezione del Ritorno a San Mauro, possono configurarsi nei Canti di Castelvecchio: Un ricordo, Il ritratto, Il nido di «farlotti», La cavalla storna, La voce, La mia malattia; nei Primi Poemetti: L’Aquilone; in Myricae: Campane a sera.
È interessante notare come questo tema del ricordo, attraverso una tecnica di assimilazione sensitiva, di analogie, fosse accompagnato da un percorso teorico di elaborazione poetica che, prima della prosa Il Fanciullino, trovava una sua anticipazione, sia pure frammentaria, nell’abbozzo di una progettata raccolta di liriche, mai realizzata, Foglie gialle, abbozzo che si trova in alcuni quaderni conservati da Severino Ferrari[11]. Quel testo, che va sotto il nome di L’enfant du siècle, aveva forse alcune reminiscenze di Rimbaud o di Baudelaire, di poeta maudit, o meglio del Victor Hugo di Feuilles d’automne e di Chants du crépuscule[12], ma per un verso è interessante notare quanto il poeta si avvicini a quella corrente simbolista e a quel senso di mistero che animavano le cose, di cui il Pascoli doveva aver tratto le prime esperienze letterarie anche attraverso l’adattamento delle prime quattro strofe del Corvo di E. A. Poe, conservate sempre nei quaderni col titolo di Tenebre[13].
La memoria, sublimata attraverso la voce dei morti, riportava il poeta ai luoghi dell’infanzia, in una regressione su cui tanto si è scritto, a volte con estremo pudore, come nei due brevi saggi di G. Debenedetti in occasione del centenario del poeta, o nell’interpretazione spitzeriana data da Pasolini, che tanto amava i Primi Poemetti, a volte in maniera più coraggiosa nell’interpretazione fortemente psicanalitica, ma rispettosa, che ne diede Pietro Citati[14]. Emblematica è la lirica La mia sera (in Canti di Castelvecchio) in cui il tema del nido-culla e della madre ritornano come esempio di protezione e di salvezza di fronte al nulla e alla morte.
Su questo tema della memoria, trasfigurato attraverso l’uso sapiente e innovativo della parola, il poeta ripercorre il suo viaggio, ma non è un viaggio a ritroso dove nulla è stato scritto e dove la memoria dissacra la conoscenza di esperienze già vissute, come il nuovo Odisseo de L’ultimo viaggio; è un viaggio, come scrisse lo stesso Pascoli, reale, perché quelle poesie «contengono cose non solo vere ma esatte (e il lettore comprenderà anche qui: certe cose non s’inventano, anche a volere)»[15]. Ma sono un viaggio e una verità solo apparenti: il poeta nasconde, sotto la costante di un progressivo canto funebre, un’altra storia che il Pascoli stesso preferiva dimenticare. È il Garboli a darci l’immagine di questo itinerario pascoliano che dai primi madrigali, scritti per Severino Ferrari – La Passeggiata – muove lentamente verso quel canto funebre che fece la sua prima comparsa già con le prime Myricae, per poi aumentare con la seconda edizione[16] e definitivamente con la terza edizione: «il culto dei morti, nella poesia pascoliana, non nasce dal ‘contraccolpo sentimentale’ di una tragedia passata e lontana, ma dal contraccolpo di una tragedia presente»[17].
La poesia del Pascoli, a differenza di quello che comunemente si crede, si era aperta infatti sotto ben altri auspici. Il primo Pascoli è quasi giocoso, allegro, ironico, è lo studente che a Bologna ama anche divertirsi, tirare scherzi agli amici. «Aspetti giocosi dell’opera Pascoliana» fu il tema che il 21 ottobre 2012 svilupparono a Sogliano Elisabetta Graziosi e Patrizia Paradisi.
Poi ci saranno gli anni di Matera (1882-1884) e di Massa (1884-1887). In quegli anni il poeta scriverà alcuni versi che Maria, nel maggio del 1912, dopo la morte del poeta, raccoglierà per l’edizione Zanichelli sotto il titolo di Poesie Varie. Sono poesie importanti che il poeta non ha mai pubblicato e che ci fanno vedere come la poesia pascoliana fosse nata non nel dolore, ma nella gioia. Se si mette a confronto l’Amorosa giornata (in Poesie Varie) con l’incipit de Il Focolare (in Primi Poemetti) o con altre poesie più note (in Myricae Il lampo, Il tuono, ecc.) si nota la differenza.
Nel 1890 su «Vita Nuova» e sotto il titolo di Myricae, sono pubblicate 8 poesie, a cui si aggiungerà qualche mese dopo, nel febbraio 1891, sotto il titolo di Frammenti, un altro gruppo di 6 poesie. Myricae sono pronte per essere pubblicate. Pascoli ha 35 anni. Nei testi si respira una muta accettazione e una superiore visione della realtà, senza drammi, pur con un tono di soffusa mestizia. Il personaggio di Belacqua che conosciamo nel canto IV del Purgatorio, personaggio di cui poco si sa, se non che fu, come afferma l’Anonimo Fiorentino, «uno cittadino di Firenze, artefice, e facea cotai colli di liutai e di chitarre, ed era il più pigro uomo che fosse mai; e si dice di lui, che egli venia la mattina a bottega, e ponevasi a sedere, e mai non si levava se non quando egli voleva ire a desinare e a dormire», calza bene sulla figura del poeta. La poesia è Gloria[18], e vale la pena trascriverla non solo per il contenuto, ma soprattutto per quell’ultimo verso onomatopeico:
-Al santo monte non verrai, Belacqua? –
Io non verrò: l’andare in su che porta?
Lungi è la Gloria, e piedi e mani vuole;
e là non s’apre che al pregar la porta,
e qui star dietro il sasso a me non duole,
ed ascoltare le cicale al sole,
e le rane che gracidano, Acqua acqua!
Così pure l’accettazione di una realtà scomoda, ma senza drammi, una realtà così attuale, esemplificata nell’incoscienza dell’animale (non è detto che non ci sia una reminiscenza leopardiana). La poesia è Il cane:
Noi mentre il mondo va per la sua strada,
noi ci rodiamo, e in cuor doppio è l’affanno,
e perché vada, e perché lento vada.
Tal, quando passa il grave carro avanti
del casolare, che il rozzon normanno
stampa il suolo con zoccoli sonanti,
sbuca il can dalla fratta, come il vento;
lo precorre, rincorre; uggiola, abbaia.
Il carro è dilungato lento lento.
Il cane torna sternutando all’aia.
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[1] P. Palmieri, Introduzione, in Pascoli, Poesia e biografia, Mucchi Editore, 2011, p. 26.
[2] C, Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, Einaudi, 1990, p. XXVII, il cui testo è stato inserito e ampliato in Antologia di Poesie e Prose scelte nella collana I Meridiani, Mondadori, 2002.
[3] Cfr. C. Garboli nella nota Al lettore, in quella monumentale Antologia di Poesie e Prose scelte nella collana I Meridiani, Mondadori, 2002, tomo I, p. 7.
Martedì 13 aprile 2004 a Roma, nella chiesa di Santa Maria del Popolo, Vittorio Sermonti esprimeva la sua testimonianza a Cesare Garboli che, per una strana coincidenza, ci aveva lasciato il sabato santo 9 aprile, come il sabato santo ci aveva lasciato Giovanni Pascoli. Tra le altre cose così Sermonti si era espresso: «Ed è quel vecchio senza età che ha scritto il Pascoli dei Meridiani: il più grande romanzo in lingua italiana del tempo presente. Non ho mai capito se Cesare amasse molto Pascoli. Certo, è stato Pascoli: come nessuno».
La risposta ce l’ha data lo stesso Garboli, in quel bel libro, raccolta di saggi, pubblicato nel 2002 da Adelphi, Pianura Proibita: «Io non amo Pascoli, ma non c’è poeta italiano che, come Pascoli, sia portatore di un oscuro destino, o, se si preferisce, di un romanzo non scritto, rimasto sepolto e quasi indecifrabile dentro la sua opera» (p. 177).
[4] G. Pascoli, Il latino nelle scuole, in Prose, vol. I, Mondadori, 1956³, p. 616.
[5] Cfr. N. Sparks, Le pagine della nostra vita, Sperling, 1998, p. 141 e R. Anthelme, La specie umana, Einaudi, 1969, pp. 229-230.
[6] T. Todorov, La letteratura in pericolo, Garzanti, 2011², p. 27 e sgg.
[7] Per una lettura ragionata ed esaustiva del laboratorio di Myricae cfr. l’edizione critica delle Myricae a cura di G. Nava, Sansoni, 1974.
[8] G. Pascoli, Primi Poemetti, Prefazione, in Tutte le opere di Giovanni Pascoli, vol. I, Mondadori, 1965, p. 169.
[9] M. Pazzaglia, Tra San Mauro e Castelvecchio. Studi Pascoliani, Collana <<Quaderni di San Mauro>>, La Nuova Italia, 1997, p. 89 e sgg.
[10] “Aspettando i «Canti di Castelvecchio» e i «Canti di San Mauro», il presente e il passato, la consolazione e il rimpianto, aspettando questi canti che echeggiano già così soave nelle nostre due anime sole” G. Pascoli, Primi Poemetti, Prefazione, cit., p. 169.
[11] I quaderni furono esaminati da Pio Schinetti, che ne diede notizia in un articolo, Pagine inedite di G. Pascoli, apparso su “Il Secolo XX”, maggio 1912, pp. 377-92. Si veda al riguardo la lunga analisi che ne fa M. Petrucciani in Miti e coscienza del decadentismo italiano, Feltrinelli, , 12ª edizione 1976, pp. 154 e sgg.; ed ora in C. Garboli, Antologia di poesie e prose scelte, tomo I, cit., p. 287 e sgg., in particolare per la prosa L’enfat du siècle, pp. 310-314.
[12] Cfr, C. Garboli, Antologia di poesie e prose scelte, tomo I, cit., pp. 310-314.
[13] Cfr. G. Petrocchi, La formazione letteraria di G. Pascoli, Le Monnier, 1953, p. 45; e ancora cfr. C. Garboli, Antologia di poesie e prose scelte, tomo I, cit., p. 350.
[14] Cfr. P. Citati in un articolo apparso su «Il Giorno», 21 marzo 1962; G. Debenedetti, Saggi critici, 3ª serie, Milano 1959, pp. 235-253; P. P. Pasolini, Passione e Ideologia, Milano 1960, pp. 267-275. Cfr soprattutto. M. David, Letteratura e psicanalisi, 2ª edizione, Mursia, 1976, pp. 151-156. Cfr. ancora le interpretazioni che diede G. Barberi Squarotti sul simbolo del «nido», G. Barberi Squarotti, Simboli e strutture della poesia del Pascoli, D’Anna, 1966.
[15] G. Pascoli, Canti di Castelvecchio, Prefazione, cit., p. 500; e nelle Note sottolineava il concetto: «Ho bisogno, per alcune poesie (ne nomino soltanto tre: UN RICORDO, IL RITRATTO, LA CAVALLA STORNA), di ripetere alla lettrice e al lettore, che certe cose non s’inventano? In quelle e altre è tutto vero. Quindi quelle poesie non le ho fatte io: io ho fatto (e non sempre bene) i versi.», ivi, p. 700-701.
[16] Cfr i tre sonetti in forma di colloquio – monologo con la madre che compaiono nell’edizione del 1892: 31 dicembre 1889, 1890, 1891, poi raccolti, ma separati, nell’edizione del 1894, per poi trovare la loro sistemazione definitiva nella sezione Ricordi, nell’edizione del 1897 con i titoli di Anniversario.
[17] C. Garboli, Al lettore, in Antologia di Poesie e Prose scelte, cit., tomo I, p. 29 e sgg..
[18] Nel discorso Per la cittadinanza borghigiana, pronunciato il 20 settembre 1897 in occasione della cittadinanza onoraria, tra le altre cose dirà: «E perché lavoro, se non lavoro per le lodi e gli onori? Per un fine, certo. Per consolare me stesso della miseria ineluttabile del vivere, e insegnare, e insegnare agli altri la consolazione che ho trovato per me».