Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo: Giovanni Pascoli e Sogliano. Appunti per percorsi di lettura di Bruno Bartoletti.
3^ PUNTATA.
Giunti a Sogliano, alle porte del paese, accanto all’insegna troviamo il cartello: «Piccolo grandemente amato paese di Romagna».
È il 1906: il poeta faceva pervenire al Comune di Sogliano il volume di Myricae, con questa dedica:
A Sogliano al Rubicone
donde, bambino, ebbi le prime rosee aspirazioni
della dolce vita così amara!,
dono con animo grato,
con animo ancora pieno di quelle fanciullezze
lontane,
24 giugno 1906, Bologna,
per mano del Dott. Arturo Zanuccoli sindaco
del piccolo grandemente amato paese di Romagna.
Il 1906 è l’anno del conferimento della Cittadinanza Onoraria a Giovanni Pascoli, cittadinanza che era stata richiesta a gran voce dai presenti il 21 febbraio, prima della partenza del poeta, su suggerimento dell’Assessore Sabattini Claudio, cittadinanza che il Sindaco Zanuccoli aveva promesso nel suo discorso pronunciato nel teatro comunale in occasione della visita del poeta a Sogliano il 20 febbraio dello stesso anno.
E l’8 marzo 1906 il Consiglio Comunale delibera la Cittadinanza Onoraria a Giovanni Pascoli, con voto unanime; la Via delle Monache, la via che porta al convento, diventerà Via Giovanni Pascoli.
In quello stesso anno (1906) usciva il volume Odi e Inni– Il poeta lo dedica a Maria:
Alla mia adorata sorella d’amore
e dolore Mariù!
19 marzo 1906 – Giovanni!
La sorella affettuosamente rispondeva:
Va a Sogliano, a cui sono
tanto riconoscente, a cui il mio cuore
sempre ritorna, Maria Pascoli
24 giugno 1906
Testimonianze che si ripetono. Già il poeta aveva scritto in un sonetto datato Massa 1885 e intitolato A Maria:
Come nei libri delle tue preghiere,
libri che tutto il tuo segreto sanno,
i fior che tu ponesti, or è qualch’anno,
colti a Sogliano nelle rosee sere[1]
All’ingresso del paese la strada si ramifica: a destra Via Roma, ma nel linguaggio popolare “Le Casette”, che porta in centro, a sinistra la circonvallazione, Via Egisto Ricci, ma un tempo Via Verziero, o Via delle Verze, la via della campagna, la stessa strada che il Pascoli percorreva con le sorelle in quel 1882, quando a Sogliano si era fermato una decina di giorni.
Salendo invece in paese, arriviamo sulle mura, oggi via XX settembre. Qui inizia il percorso – l’Itinerario Pascoliano -: la prima stazione è data da una targa posta sotto la finestra da cui si era affacciato il poeta nell’attesa delle sorelle che si trovavano in chiesa per la Messa. Non si vedevano da circa nove anni[2]. Il poeta, dopo aver conseguito la laurea e dopo essersi fermato ad Argenta dal cugino Pio Squadrani, giunge a Sogliano nel luglio del 1882. Con la stessa diligenza arrivano anche Maria Cicognani, la vedova di Giacomo (morto nel 1876) con Ruggerino di 7 anni. C’era naturalmente anche il figlioletto di Emilio e Giuseppina, Placido di 2 anni. Per la prima volta il poeta visita il monastero.
Ida e Maria erano uscite dal convento e abitavano presso la zia Rita. Furono giorni di gioia e di lunghe passeggiate «per la strada nuova che si estende ai piedi del colle su cui si adagia comodamente tutto il simpatico paese di Sogliano»[3]. Furono momenti felici, di intimità familiare, di spensieratezza.
È a quei giorni che si riferiscono le tre coppie di terzine rimaste allo stato di abbozzo, trascritte da Maria e datato in calce «1889». È il 1889, è notte. Giovanni Pascoli si trova a Livorno (a Livorno Pascoli si fermerà dal 1887 al 1895). Ci racconta Maria che quel frammento si riferisce al soggiorno del fratello a Sogliano nel luglio del 1882. Il poeta lo ricorda come tempo felice e contrapposto a quell’altro tempo (1889) di drammatico avvenire per la messa in pericolo dell’unità del nido.
Questa notte, vegliando, ho riveduto,
per via, Sogliano desto dall’aurora
che gl’indorava il campanile arguto.
La guazza rilucea sopra i dianti:
dai vilucchi saliva, ad ora ad ora,
come un esile odor di semisanti.
Poi mi son ritrovato in una stanza,
e il cuor guizzava più che non bastasse,
e non so se d’angoscia o d’esultanza.
Stavo senza pensier, senza parola:
lagrime ardenti, larghe, mute, spesse,
gocciavano dagli occhi entro la gola.
Eppur non sapevo io di me, nulla…
Ida aveva finito con l’accettare le visite sempre più frequenti in via Micali, a Livorno, di quel ragazzotto romagnolo, Fortunato Vitali, un vecchio amico di Pascoli, mentre il poeta aveva messo gli occhi su Lia Bianchi, un idillio confidato a Falino e tenuto nascosto alle sorelle, ma svelato a loro dalla figlia di Carducci. Quel rapporto, che nella visione del Pascoli finiva col distruggere quel nido a tre, gettò il poeta in una fase emotiva ai limiti dello smarrimento, come ci racconta Maria e come possiamo intuire da quel frammento di tre coppie di terzine. Il Pascoli si mette a nudo, nella sua verità, fino ad annullarsi, a scomparire:
Eppur più non sapevo io di me nulla
Nei periodi più difficili Pascoli si aggrappa ai ricordi, ai momenti belli trascorsi in compagnia delle sorelle, a Sogliano in cui si identificano quei ricordi. San Mauro era il paese della tragedia, il paese in cui si era consumata l’assassinio del padre e la morte dei famigliari più cari – la sorella Margherita (1868), la madre Caterina (1868), i fratelli Luigi (1871) e Giacomo (1876) – Urbino rappresentava il collegio, lo studio pesante, la morte di Pirro Viviani, (L’Aquilone), la sofferenza, il ricordo della morte del padre. Bologna, «orrida città», come egli stesso la chiama in quella strofa del Pellegrino, poi cancellata, la città dove conduceva una vita a volte trasandata, non sempre regolare, la città dell’arresto e del carcere, delle speranze spezzate (La voce). E poi c’era l’altro fratello, Peppino (Giuseppe), che in tono dispregiativo Giovanni e Maria chiameranno «quell’altro», o «Pagliarani», con il nome dell’uomo che aveva sparato al padre, ma per i figli Peppino era il «poeta della meccanica», persona geniale e sfortunata.
È il 1889, momento critico nella storia di ricostruzione e conservazione del nido e Sogliano lo accompagna. Già qualche anno prima, datandolo Massa, agosto 1886, aveva scritto:
O Sogliano, il pensiero a te rivola, / dove fiorì la nostra fanciullezza (XXVIII Agosto).
Ci incamminiamo verso il monastero, all’inizio della via, Via Giovanni Pascoli, ma un tempo Via delle Monache, c’è una targa che è stata posta nel 1995, presente l’allora presidente di questa Accademia, prof. Mario Pazzaglia[4]. Nello stesso anno, in occasione del centenario della morte di Placido David, si procedeva alla ristampa del libretto Giovanni Pascoli nei ricordi di Sogliano, pubblicato nel 1933 a cura dell’allora segretario comunale Pio Macrelli.
La targa riproduce il distico che il poeta aveva scritto sulla parete della sala da pranzo con un lapis, e che Maria aveva ricopiato, quando il 12 settembre 1894 si erano fermati a cena, invitati dalle suore. Il poeta e Maria erano corsi a Sogliano per la morte del cuginetto Placido David, ma vi erano arrivati che il cuginetto era già stato sepolto[5].
Percorriamo La Via delle Monache e arriviamo al Monastero. Nell’agosto del 1884 il poeta era ancora a Sogliano per una visita alle sorelle. In quell’occasione compose Le monache di Sogliano, pubblicata nella seconda edizione di Myricae (1892) dopo essere rimasta per parecchi anni nel cassetto. Entrerà a far parte della sezione Ricordi di Myricae, costituita tutta da sonetti, ad eccezione di Romagna e, appunto di Le monache di Sogliano, in quartine. Il titolo originario era Ora pro nobis e su una copia fatta da Maria a Massa possiamo leggere anche il luogo e la data della sua composizione: «Sogliano 17 agosto 1884». A Sogliano capiterà spesso ed è un susseguirsi in quegli anni di un andirivieni per e da Sogliano.
A poco a poco incomincia a farsi strada un percorso, prendono corpo alcune piccole schegge di luce che andrebbero approfondite. È lecito chiedersi come mai i momenti più difficili vissuti dal poeta si accompagnano a questo ritorno a Sogliano, ora visto come isola, come porto ove relegare le persone più care, ora visto come il luogo dove il «fanciullo» Pascoli è nato con le prime poesie e dove poi è cresciuto. Sogliano non era soltanto il paese della zia Rita Allocatelli Vincenzi e del cugino Emilio (con il quale tra l’altro i rapporti negli ultimi anni si erano deteriorati), del cuginetto David, del monastero dove le sorelle furono educande dal 1874 al 1882[6]. Negli anni trenta, l’allora segretario comunale Pio Macrelli raccolse in un libretto dal titolo Giovanni Pascoli nei ricordi di Sogliano[7]– ristampato una prima volta nel 1942 e poi in occasione del primo centenario della morte di Placido David (1894 – 1994) – una serie di testimonianze e di documenti che fanno intravedere come ci fosse abbozzato, un «ciclo di Sogliano», una specie di racconto in versi, ciascuno collegato con il seguente, come lo sarà per alcuni sezioni di Myricae e poi con i Canti di Castelvecchio, con l’unica sezione compiuta che fu Il ritorno a San Mauro. Fanno parte di questo ciclo, semplicemente abbozzato, oltre a L’asino, Digitale purpurea, Suor Virginia, e, in Myricae, Le monache di Sogliano.
Come per L’asino, anche per Digitale purpurea (Primi Poemetti) apparsa sul «Marzocco» il 20 marzo del 1898, si descrive un altro viaggio di vita e di morte, svolta sotto forma di dialogo. Leggiamo dal libro di Maria Pascoli:
Un giorno, dopo la merenda e la ricreazione all’aperto, noi educande con la nostra Madre Maestra c’incamminammo per un sentiero che aveva ai due lati due giardini, uno cinto dal bussolo e l’altro senza veruna siepe. In questo scorgemmo una pianta che non avevamo mai veduta, non essendo mai solite a passare da quel luogo. Era una pianta dal lungo stelo rivestito di foglie, con in cima una bella spiga di fiori rossi a campanelle, punteggiate di macchioline di color rosso cupo: la digitale purpurea. La curiosità di poterla guardare bene da vicino e di sentire se odorava ci spinse a entrare nel giardino; ma appena ci fummo fermate presso la pianta, la Madre Maestra ci intimò di allontanarci subito di lì, di non appressarci a quel fiore che emanava un profumo venefico e così penetrante che faceva morire. Indietreggiammo impaurite e ci portammo leste leste sul nostro cammino. Io rimasi per un pezzo con la paura di quel fiore velenoso, e quando si doveva passare nelle sue vicinanze me ne stavo più lontana che fosse possibile senza nemmeno guardarlo. Questo puerile e insignificante mio racconto ispirò a Giovannino il poemetto. Il dialogo tra le due ex compagne di convento, Maria e Rachele (in cui c’è la sostanza del lavoro), è di sua immaginazione. In Maria ha voluto raffigurare me, ma Rachele l’ha creta lui[8].
Racconto che certamente Pascoli doveva aver ascoltato dalle sorelle. Come per L’asino, da questa situazione reale, il poeta costruisce in un racconto in versi un’altra visione. Strutturato nel rapporto tra passato e presente, di cui Rachele è l’interprete, il componimento ci dà una visione dell’ignoto, una interpretazione del senso cosmico che pervade quell’esperienza volta a trasgredire il divieto di accostarsi a quel fiore «fior di… morte». Maria «esile e bionda», colta in una sua ingenua purezza, non sarebbe mai passata vicino a quel fiore,
ché si diceva: il fiore ha come un miele
che inebria l’aria; un suo vapor che bagna
l’anima di un oblio dolce e crudele.
Ma Rachele «esile e bruna», in un accostamento tra l’esperienza passata e il presente, distinti e pur collegati nella stessa esperienza, riporta alla luce quella «grave sera», quell’inoltrarsi «leggiera, / cauta, su per i molli terrapieni / erbosi», quella voce appena udita come una tentazione a trasgredire e ad esplorare quel divieto, fino ai versi finali:
… E fu molta la dolcezza! molta!
tanta , che, vedi… (l’altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta
con un suo lungo brivido…) si muore!
Viene naturale pensare ad una interpretazione simbolica del testo, come ad una proiezione conturbata dell’amore, o della sessualità del poeta, su cui ha insistito una certa critica psicologistica, nel binomio amore/morte. Una visione questa che non è l’unica nel poeta, un tema di derivazione romantica o leopardiana e, se si vuole, dettato dall’esperienza d’amore vietato per il poeta, o dalla fuga matrimoniale di Ida[9]. Giovanni Getto a proposito scrive: «Quale sarà dunque l’esperienza ormai scontata e già preannunciata dall’avventura di quella sera lontana? Sarà forse l’amore, un amore che conduce alla morte (ma ora, invero, senza nessuna sconvenienza: allontanato, come risulta, da quell’età e da quell’ambiente). Sarà forse qualcos’altro: poniamo, una malattia mortale – non si dimentichino quegli occhi ‘ch’ardono’ – una malattia voluttuosamente accolta e covata e lasciata, senza cura, al suo corso naturale: morbosamente goduta come mezzo di distruzione e avvio al mistero della morte»[10].
Più puro è l’amore gioioso, anche se non privo di riferimenti simbolici, cantato in Il gelsomino notturno, pubblicato tre anni dopo. In Digitale purpurea «si rivela l’originale capacità narrativa di Pascoli»[11], come lo sarà nell’altro componimento che si svolge nell’interiorità di un percorso tutto teso a una vicenda di immagini, di suoni, di fantasie in cui l’immaginario e il reale si intersecano, si integrano, e la morte «che trapassa da presentimento a coscienza, da presagio a presenza»[12]: Suor Virginia, pubblicato su «La Riviera ligure» nel gennaio del 2003.
Anche qui l’occasione ci viene offerta dai ricordi di Maria Pascoli:
La finestra che era nel nostro dormitorio diventava un incubo per me nelle sere d’estate, perché la Madre Maestra, nell’accompagnarci a letto, la lasciava aperta per far entrare il fresco; l’avrebbe chiusa la suora conversa quando avesse sbrigato le sue faccende in cucina e venisse a dormire anch’essa. Ma a volte tardava più del solito, e appunto una di quelle sere in cui essa era in ritardo, io fui presa in modo invincibile dalla paura. Mi sembrava di sentire dei passi giù a basso sotto la finestra, del calpestio di foglie, degli svolazzi d’uccelli. Qualche ladro doveva esserci di certo, pensavo terrorizzata, che si preparava a venir su. Tremavo, sudavo e tenevo gli occhi sbarrati verso la finestra. Poi non potendo più resistere (l’Ida e le tre compagne dormivano e io non volevo che si svegliassero per non comunicare anche a loro la mia paura) allungai un braccio alla parete che avevo dietro il letto, e picchiai con le dita due o tre colpetti, sperando che qualcuna delle suore che avevano le stanze lungo il corridoio potesse sentire e venisse. Infatti una venne; ma era suor Virginia che si diceva fosse piuttosto severa, e io, temendo una sgridata, non mi azzardai di dirle nulla e feci finta di dormire come le altre. Essa col lume in mano ci passò tutte in rivista, nessuna si mosse. Dovette certamente pensare che i picchi non venissero di lì, e se ne tornò via. Dopo qualche minuto la mia paura si fece anche più insopportabile e di nuovo ripetei i colpetti; e di nuovo venne suor Virginia e trovò tutte le ragazze ancora tranquille immerse nel sonno. Nemmeno quella volta io ebbi il coraggio di dirle che chiudesse la finestra e rimasi con la mia paura che aumentò sempre più, sì che dopo un breve tempo ribussai di nuovo e più forte; ma suor Virginia non venne più. Quasi subito arrivò la nostra suora sorvegliante e io le dissi che chiudesse la finestra perché mi faceva paura così aperta e non potevo dormire. Essa la chiuse, come del resto la chiudeva le altre sere, e finì così il mio orgasmo e presi sonno. Il mattino seguente, dopo la messa, mentre le suore e le educande erano in refettorio a prendere il caffè, suor Virginia raccontò ciò che le era accaduto la sera avanti: d’aver sentito a breve distanza di tempo picchiare al muro tre volte e d’essere andata, le prime due volte, alzandosi dal letto, a vedere se fossero state le educande, ma evidentemente non erano state loro a bussare perché dormivano tutte; e perciò alla terza picchiata non andò più pensando che fosse stato San Pasquale che le annunziasse la sua prossima morte, perché, il santo, i suoi doveri li avverte tre giorni prima perché si preparino. “Che dice?” disse la nostra sorvegliante “non dormivano davvero tutte le ragazze! Una, la Mariuccia, quando arrivai io, era sveglia e mi disse quasi piangendo che chiudessi la finestra perché aveva paura e non poteva dormire”. “Ah sì?” fece suor Virginia; “brava! Lo faccia un’altra volta, e io verrò là con un bastone.
Da questo racconto il poeta costruisce una storia d’amore e di morte, un viaggio nell’inconscio fatto di sensazioni e di suoni; è un componimento in cui il suono prende il sopravvento, con quel «Tum tum… tum tum…» che dà l’incipit.
Ci troviamo con questi tre componimenti (L’asino, Digitale purpurea, Suor Virginia) di fronte a un tema fondamentale nella poesia del Pascoli: il tema del viaggio, di cui il poeta non era che il «pellegrino», un viaggio verso l’infinito nebuloso e vago come in L’asino, che per tanti aspetti anticipa l’altro viaggio di Alexandros, un viaggio verso la morte come in Digitale purpurea e Suor Virginia. -Aveva scritto in Un poeta di lingua morta: «L’uomo combatte continuamente contro la morte»[13], ma su questa tema descriveva anche il fallimento della scienza[14]-. I tre poemetti nascono da un ricordo, da esperienze di vita vissuta, ma il ricordo si fa sogno e trasfigura l’immagine in un alone mitico di un viaggio senza ritorno.
In quegli anni si era consumata progressivamente la distruzione del nido, prima ancora del matrimonio di Ida, la distruzione di una vita felice che era durata fino al trasloco da Massa a Livorno; e a Livorno, fra il 1887 e il 1892, si doveva consumare la crisi, e con la crisi del nido si manifestava progressivamente il culto dei morti; ma quel culto dei morti era solo un’apparenza dietro la quale si nascondeva un’altra verità: «il mito funebre nasce per perpetuare il nido»[15], ed è questa una nuova lettura che ci dà Garboli. Significativa è la lettera a Severino Ferrari datata 12 dicembre 1892:
la mia vita […] è turbata da molte ragioni e specialmente dalla considerazione dell’inutilità e vacuità e vanità della vita mia e delle mie sorelle. Giunti a questo punto, ci siamo accorti tutti e tre, credo, che abbiamo sbagliato nella somma la vita; e non si rinasce.
E in versi il poeta scriveva: «… La vita /che tu mi desti – o madre, tu! Non l’amo»
Sono versi di Colloquio, componimento inserito in Myricae nell’edizione del 1894, mentre in Ultimo sogno altro componimento pubblicato nella stessa edizione, il Pascoli si descrive in punto di morte, e la morte non è se non guarigione dalla vita nel silenzio improvviso che chiude il componimento. In questo itinerario trovano voce, oltre alla madre, le due sorelle, Ida e Maria, Maria e Rachele: così Digitale purpurea poteva rappresentare la morte colta nell’infrazione di una legge di castità e di innocenza, come aveva fatto Ida; e prima ancora in Il vischio (pubblicata su «La Vita Italiana» nel 1897, poi in Primi Poemetti), la distruzione del nido rappresentava la distruzione dell’Eden e dell’innocenza, dell’età sognata e desiderata[16].
(«Non li ricordi più, dunque, i mattini / meravigliosi?»), il tempo felice, ma poi «Una nube, una pioggia… a poco a poco / tornò l’inverno», mentre «Un dì (donde mai sorto?) / brillava il sole al suon delle campane: / tutto era verde, verde era quell’orto». Ma poi venne quella pianta che radicò sull’altra e le tolse la vita: «Sei tu, checché gemmasti allora, / ch’ora distilli glutine di morte».
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[1] Ivi, pp. 211-212. Il sonetto intitolato A Maria è datato Massa 1885 e fa parte della stessa raccolta di <<poesie famigliari>> o <<Poesie varie>>. Anche nel giorno più nero (il poeta immagina il proprio funerale nel cuore della sorella) Sogliano si contrappone nella sua limpida luce serale.
[2] Pascoli va in collegio nel 1862, Ida nasce nel 1863, Maria nel 1865, si vedranno velocemente solo alla morte del padre nel 1867.
[3] Via Verziero e Via Pozzo Lungo o Cioca, oggi Via Egisto Ricci e Via Fratelli Cervi. Il grande castello malatestiano era stato abbattuto, a gran richiesta, nel 1865, in quanto ormai fatiscente e pericoloso. Trascrivo da alcuni miei vecchi appunti: La rocca venne abbattuta definitivamente nel 1865 e il monte spianato per fare la piazza, attorno alla quale furono costruiti una serie di edifici tutti contornati da portici e loggiati: quello delle scuole, la caserma della guardie nazionali ora dei carabinieri, l’ex carcere mandamentale, l’edificio destinato all’uso della pescheria e macello pubblico. Quest’ultimo venne poi abbattuto per fare spazio ad un’imponente Casa del Fascio (1941) costruita dall’architetto bolognese Luigi Giordani si interessamento dello stesso Mussolini. La torre civica verrà invece ricostruita sulla piazza del Suffragio (1867), ovvero della piazza originata dall’incontro della via principale con quella che portava alla fortezza. Era questa l’antica piazza di Sogliano, assai più vasta, infatti parte di essa fu occupata dalla costruzione della chiesa del Suffragio, eretta dalla medesima Confraternita nella seconda metà del 1600, inaugurata il 22 maggio del 1679 e costruita per iniziativa della Compagnia del Suffragio costituitosi il 26 aprile 1671.
La strada continuava verso Nord – Est e toccava prima il borgo di San Lorenzo, ove sorge l’omonima chiesa, poi il borgo di Santa Croce. Nella chiesa di Santa Croce aveva celebrato la sua prima messa solenne il 6 giugno 1909 Mons. Michele Rubertini. I frati Minori Osservanti l’avevano abbandonata, più o meno liberamente, nel 1912, di essa è rimasta solo nella toponomastica popolare il nome di “il Voltone dei Frati”.
La costruzione della chiesa di Santa Croce si fa risalire alla metà del 1400. Si legge nella storia di don Berardi: «Fuori le mura del castello, nella parte orientale – ora denominata popolarmente “Le Casette” – esiste una chiesa di antica struttura, dedicata alla Santa Croce, retta da una confraternita: tutto l’agglomerato è detto di Santa Croce. I frati Minori Osservanti ne presero possesso con l’unito convento verso la metà del 1500». I Francescani, per le ostilità degli anticlericali e per il declino delle questue, spezzando una tradizione quasi quattro volte secolare, abbandonano definitivamente il convento di S. Croce nel 1912. Sulla loro partenza corre ancor oggi una pronta e pertinente risposta del parroco di Vignola ad un solerte anticlericale del tempo: «Sono partiti i frati, i porci sono rimasti».
[4] La targa riproduce il distico che il poeta aveva scritto sulla parete della sala da pranzo con un lapis, e che Maria aveva ricopiato, quando il 12 settembre 1894 si erano fermati a cena, invitati dalle suore, il poeta e Maria. Erano corsi a Sogliano per la morte del cuginetto Placido David. Il distico latino era stato rinvenuto su un foglietto di carta dal compianto don Eugenio Berardi, scritto con la matita e in seguito corretto dal poeta: «A.D. idus septembris 1894/ Hic vocati ego Joannes Pascoli et soror mea Maria cenavimus/ huc umbram Placidum voluissem ducere mecum/ Heu, Placidus vere tum fuit umbra meus».
[5] Placido fu ideato tra la fine del 1894 e i primi del 1895 e pubblicato per la prima volta sul «Marzocco» il 22 marzo 1896, fu poi compreso nella quarta edizione di Myricae del 1897. Il Pascoli, che aveva molto caro il fanciullo, lo ebbe con sé a Livorno dal 1890 al 1893.
[6] Ida e Maria resteranno a Sogliano, quasi ininterrottamente, dal 1868 al 1885, dalla zia Rita e, dal 6 marzo 1874 al 2 luglio 1882, come educande, nel collegio di Sant’Agostino. Dal 1885 Giovanni Pascoli le porterà a Massa. Cfr. Maria Santini, Candida Soror, Simoneli Editore, 2005. Cfr. anche Le Agostiniane di Sogliano, a cura del sac. Giuseppe Casadei, 1975.
[7] P. Macrelli, Giovanni Pascoli nei ricordi di Sogliano, 1933. Il volume ebbe una seconda edizione nel 1942 ed è stato ristampato a cura della dell’Amministrazione Comunale e la Pro-Loco di Sogliano nel 1995, in occasione del centenario della morte di Pacido David, per gentile concessione della dott.ssa Maria Pia Macrelli.
[8] M. Pascoli, Lungo la vita di G. Pascoli, cit., pp. 133-134.
[9] La forzata, ma non troppo, rinuncia a Lia Bianchi, che ha vent’anni, figlia di un maestro di musica; idillio maturato nell’autunno del 1888 a Livorno, all’insaputa delle sorelle, alle quali verrà rivelato dalla figlia del Carducci. La rinuncia a Imelde Morri, sua cugina, figlia della zia Luigia e dello zio Morri residenti a Rimini, è il 1896. Il matrimonio nel 1895 di Ida – per il poeta è una fuga – con Salvatore Berti, giovane possidente di Santa Giustina.
[10] cfr. G. Getto, Da Carducci a Pascoli, Esi, 1965, pp. 154-157.
[11] Cfr. M. Pazzaglia, Pascoli, Salerno Editore, 2002, pp. 147-149
[12] Ivi, p. 155.
[13] G. Pascoli, Un poeta di lingua morta, in Prose I, cit., p. 161.
[14] Cfr. G. Pascoli, L’Era nuova, in Prose I, cit. pp. 107-123.
[15] M. Pazzaglia, Pascoli, cit., p. 31.
[16] Cfr. M. Castoldi, Pascoli e le sorelle, Il Vischio e il doppio, in Pascoli, poesia e biografia, a cura di E. Graziosi, Mucchi Editore, 2011, pp. 183-188.