Il rigo tra i rami del sambuco. Intervista a Emilia Barbato, a cura di Paolo Polvani

Il rigo tra i rami del sambuco. Intervista a Emilia Barbato, a cura di Paolo Polvani.

 

              

Come è nato “Il rigo tra i rami dei sambuco”?

Il rigo è nato in un momento di grande difficoltà. Penso che si avverta il bisogno di scrivere e/o creare in generale per uscire dall’inferno e il mio incubo di cinque anni fa era ed è la malattia. L’aggressione al corpo che toglie la felicità della vita quotidiana, delle cose elementari, che avvicina alla nudità della condizione umana e rende inermi, incapaci di opporsi a tanto dolore ma nel contempo estremamente sensibili ad ogni richiesta di bisogno, continuando nell’altro che tende la mano, essendo la mano stessa, essendo con l’altro il tutto che ci contiene. Ho scritto il rigo perché come una conchiglia in me suonavano tutte le voci che ho raccolto in quei giorni di ospedale, ogni singolo volto come il luccichio della sabbia a mezzogiorno. Un mare, il cancro, in cui è bene galleggiare senza muoversi troppo, senza bruciare troppe energie. Un brodo primordiale che unisce vita e morte insieme. Due opposti in equilibrio, bellezza e abbandono.

Il titolo è molto bello, come sei arrivata a questa scelta?

Originariamente la raccolta aveva un titolo differente, il mio editore, Antonio Lillo, mi ha suggerito di cercarne un diverso. Ho impiegato un po’ di tempo, ho dovuto rileggere la raccolta ma alla fine è stato il titolo a trovarmi, un’immagine potentissima tra le pagine.
Ho visto tra le foglie del sambuco un rigo musicale. Lo stormire sommesso sintetizzato in una partitura, in una poesia. Mi sono chiesta che suono ha la paura e ho risposto con un desiderio. Avrei voluto che la mia e quella di mia mamma suonasse come un ramo di sambuco. Con il suono magico del flauto ottenuto svuotando del midollo un ramo, si dice che affinché il suono sia limpido e protegga dai sortilegi bisogna tagliare e scegliere un luogo non raggiunto dal canto del gallo, quello stesso canto che ha segnato il tradimento di Dio. Ho immaginato che questo flauto potesse proteggerci, potesse eliminare il male.
Un’antica leggenda germanica, tramandata da generazioni, ritiene che nell’albero viva una fata, Holda, e con lei folletti ed elfi. L’albero è dunque magico, considerato una panacea di tutti i mali. In Tirolo lo chiamano farmacia degli Dèi, sette inchini per sette doni, germogli, fiori, foglie, bacche, midollo, corteccia e radici.
Mi piaceva pensare ad un libro che contenesse il miracolo della natura, le sue acque, i suoi frutti, i suoni, la terra che germoglia, mi piaceva restituire alla mia terra martoriata la natura divina.

Sono molto belle anche le illustrazioni, raccontaci.

Le illustrazioni sono di Nadiya Yamnych, cofondatrice di Nùevù, studio grafico e di design con sede a Cisternino con cui Pietre Vive Editore collabora. Le opere di Nadiya nascono da un detto della sua terra d’origine, Ucraina. Durante il lutto si “piangono anche gli occhi” Si soffre talmente tanto da non avere più occhi per piangere. Ho consegnato una raccolta indisciplinata perché non sono stata capace di organizzarla come volevo, così quando ho vinto, Luce a Sud Est – concorso di scrittura sociale, ho chiesto a Lillo, mio editore nonché promotore e organizzatore del concorso stesso, di aiutarmi a restituire alle pagine compostezza e rigore. Lui ha operato un miracolo, ed è giusto riconoscergli i meriti. Ha disposto le poesie in modo che visivamente le pagine avessero ordine, che il bianco della pagina non venisse turbato dalla sregolatezza della mia scrittura. Ha contattato Nadiya, le ha fatto leggere le poesie e lei mi ha donato bellezza. Ho amato sin dal primo momento il tratto minimale delle sue figure, l’equilibrio del bianco e nero, quasi un sussurro, l’essenza della natura umana, il calore di quelle lacrime che scorrono sul viso. Sono grata a Nùevù e Pietre Vive per aver reso questa raccolta un piccolo gioiello grafico, un librino che sta in una mano, leggero malgrado il peso delle parole.

Il libro ha vinto un premio dedicato alla poesia sociale, e i tuoi versi nascono da una situazione di malattia. In che rapporto sono la malattia e la società?

Mi chiedevo e ho chiesto al promotore del concorso se il tema della terra dei fuochi potesse considerarsi poesia sociale. Mi ha risposto affermativamente. Ho consegnato un lavoro rimasto fermo per cinque anni poiché incerta sulla sua pubblicazione. Sono sicura che da sola non avrei mai dato voce a tutte le persone belle che ho incontrato, non lo avrei fatto per pudore, dubbiosa infatti tra la necessità di riportare tutto quel dolore universale e il privato tacerlo. Conflitto risolto grazie al concorso. La decisione non è stata mia, non c’è stato alcun egoismo legato a chi ha scritto, la decisione è stata dei lettori che hanno accettato la raccolta, che l’hanno sentita e vissuta sulla propria pelle, al di là della mia persona. Ci tengo a dire che ho desiderato sparire, che mai ho voluto raccontare un’esperienza personale, ho impugnato la penna come unico atto di resistenza, come chi nudo indossa una corazza o nel buio fitto accende una candela.
Mi chiedi del rapporto tra malattia e società. Trovo che questa sia una domanda bellissima. Il malato oncologico affronta una serie di esperienze estremamente dolorose che lo portano ad allontanarsi molto dagli stereotipi e dai canoni normalmente riconosciuti e usati dalla società. La prima prova a cui penso, in questo caso però riferendomi alla mia esperienza personale, è la perdita dell’invincibilità. Immediatamente si sente il fiato della morte sul collo. C’è un senso di smarrimento, di paura che annienta e il mondo cambia, ogni cosa assume una voce più intensa, come se fosse l’ultima volta che la si ascolta, che la si vede. Anche il rapporto con le persone muta, si inizia a cercare solo il vero, l’autentico. Ciascun gesto superfluo perde di valore, si ha bisogno di amore, di aiuto, si cerca nell’altro una consolazione in sé introvabile.
Si sopportano e indossano una serie di mutilazioni, di cicatrici, menomazioni/medaglie di coraggio. Muta l’aspetto fisico, cambia il colore della pelle, ci si scarnifica, si apre un varo nelle gambe, si fa meno rumore nel mondo, meno clamore, i capelli cadono e l’attesa della caduta è un momento indicibile.
Tutto ciò che l’attuale società riconosce come significativo e necessario per competere sparisce. Tutto ciò che questa società dell’immagine chiede si allontana, ci si sente esseri a parte. Poi ciascuno ha le sue reazioni, impossibile generalizzare, Oggi, che sono maggiormente consapevole, ho uno sguardo diverso rispetto a quello che avevo durante la malattia di mia madre, posso sostenere che si appartiene ad un’umanità che comprende la precarietà della vita e la necessità dell’altro. La malattia, sempre parlando per esperienza personale, chiede una società diversa, rende parte del tutto. Se ciascuno comprendesse quanto la sua persona continui nell’altro il male non avrebbe più senso poiché mai si potrebbe fare del male a se stessi e quindi all’altro. Sedere in attesa di un colloquio oncologico e della chemioterapia permette di comprendere tutta la meraviglia e il senso della vita, permette di tenere negli occhi e cercare con le mani chi condivide la stessa sorte, si è propaggini l’uno dell’altro, si ama l’altro e si spera nella guarigione del prossimo e nella propria implorando un miracolo per tutti. Si combatte e si affronta insieme il dolore e il destino come argonauti pronti al viaggio. In questa ottica la società non è più la stessa, il vero senso della vita è l’amore e non gli orpelli che il mercato impone, è tornare alle radici e parlare un linguaggio comprensibile e comune a tutti, un codice come quello delle piante, che si tramandano la memora e l’evoluzione nei secoli. Tutto uno, uno nel Tutto.

In un verso parli dei passi discreti di quattro angeli, qual è il tuo rapporto con gli angeli?

Credo molto in Dio, mi sono sempre sentita protetta. Gli angeli hanno molte forme e volti diversi, credo che gli angeli, così come il divino, siano in ogni essere umano che chiede il nostro aiuto, in ciascuno che ci protegge, che si prende cura di noi e poi sì, poi ci sono quelle coincidenze inspiegabili, quei miracoli quotidiani dove capisci che qualcosa di inaudito è accaduto, qualcosa che si assomma a un lungo silenzio, a un brivido, a un’ombra improvvisa, qualcosa come un vento primaverile, gentile, che ti sfiora il viso, i passi discreti degli angeli.

“Che timbro ha, come suona la paura?”

Vorrei che la nostra sibilasse come il vento tra i rami del sambuco, che fosse il rigo musicale di una foglia.

Raccontaci delle lanterne di riso del tuo tredicesimo compleanno.

Ciascuno ha un tesoro conservato della sua infanzia, il mio è stipato nella memoria. Per il mio tredicesimo compleanno mamma mi regalò delle lanterne in carta di riso sapendo del mio amore per gli oggetti insoliti. Ricordo che appena le vidi provai una grande commozione, immaginavo mia madre in cerca di qualcosa che mi sorprendesse, la vedevo frugare nei negozi e infine sorridere avendole viste. Mi ha raccontato di averle trovate in un negozietto a piazza Vanvitelli. Erano bellissime, in colori pastello. Amavo soprattutto quella rosa con i disegni azzurri, si aprivano piano facendo un fruscio delicatissimo e poi piegate tornavano nella loro forma di cerchio. Alla base avevano dei minuti fili che restavano sospesi nell’aria. Allora tutto era molto semplice, mamma ed io ridevamo, c’era la festa, la spensieratezza e gli addobbi gioiello, c’era ancora la famiglia e i lunghi discorsi, gli incontri con gli amici, l’inaspettato di una lettera. Tutto era molto più a dimensione d’uomo.

Ci sono differenze tra questo ultimo libro e i precedenti?

Questo libro è totalmente diverso dai precedenti, diverso è lo spirito, diverse sono le modalità con cui è stato scritto. Non un rapimento ma un atto di resistenza, non la grazia e l’incanto della bellezza ma il tumulto di una tempesta.

     

Vi proponiamo alcune poesie di Emilia Barbato tratte da “Il rigo tra i rami del sambuco”:

Minutissimi relitti alla deriva,
le teste canute nel sonno
inclinate su un lato,
naufragano qualche parola.
Si distingue una litania,
resta sospesa nella sua imperfezione
eppure propaga il senso e il suono che tuona
nell’aria immobile della stanza.
– Gesù Giuseppe e Maria
vi dono il cuore e l’anima mia –

*

Come in piccolo mondo antico,
le nostre vite si fissano ai sugheri
immersi nelle acque lacustri
dei numeri che lampeggiano
sul monitor della sala d’attesa,
ciascuno quieto occupa il filo
di lenza parallelo fino alla stratta
del campanello, poi di fretta
verso la stanza e il destino
che aspetta.

*

Che timbro ha, come suona la paura?
Vorrei che la nostra sibilasse come il vento
tra i rami del sambuco,
che fosse il rigo musicale di una foglia
e invece mamma mentre inseguo
la screpolatura che farfuglia le tue
fragilità un borborigmo
sinistro spaventa entrambe.
Ondeggiano le lanterne di riso del mio tredicesimo
compleanno, quando sono sparite? Ricordi
gli anni semplici che brillavano? Oggi tutto è
incerto, l’attesa è castigo e disciplina.

*

Se i cumulonembi si infittiscono
e il cielo precipita grigio sui nostri nomi,
presagiscono schiarite le bocche,
intente a ripeterci.

*

Non c’è rimedio al terreno impervio
delle tue inesplorate fragilità,
nemmeno se anticipo il naturale
incanto della bocca sui tuoi capelli.

*

      

Emilia Barbato  è nata a Napoli nel 1971 e risiede a Milano. I suoi testi sono apparsi in diverse antologie e sull’Aperiodico ad Apparizione Aleatoria delle Edizioni del Foglio Clandestino. Geografie di un Orlo(CSA Editrice, 2011) è la sua prima raccolta. Seguono Memoriali Bianchi(Edizioni Smasher, 2014), Capogatto (Puntoacapo Editrice, 2016, I classificato sezione Libri Editi IX edizione del Concorso Nazionale di Poesia Chiaramonte Gulfi – Città dei musei), Il rigo tra i rami del sambuco (Pietre Vive Editore, 2018, I classificato Luce a Sud Est – concorso di scrittura sociale).   

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in apertura Tina Modotti, fotografa, attivista, combattente nella guerra civile spagnola, foto di Edward Weston, 1924

3 thoughts on “Il rigo tra i rami del sambuco. Intervista a Emilia Barbato, a cura di Paolo Polvani”

  1. Ringrazio infinitamente il poeta e grande amico Paolo Polvani per questa intervista e Versante Ripido per lo spazio concesso al mio libro e sempre ringrazio Lillo Antonio, Pietre Vive Editore per aver creduto in me

    1. Calibrata l’intervista. Rigoroso e toccante il tuo verso, libero al punto giusto, legato al cuore. Comprerò il libro. Lo leggerei subito se potessi ma non so ancora se c’è l’ebook e sono in vacanze forzate alle Canarie.

  2. ” In questa ottica la società non è più la stessa, il vero senso della vita è l’amore e non gli orpelli che il mercato impone, è tornare alle radici e parlare un linguaggio comprensibile e comune a tutti, un codice come quello delle piante, che si tramandano la memora e l’evoluzione nei secoli. Tutto uno, uno nel Tutto.” Credo che sia questo il grande dono che la malattia ci può fare. Non sempre, non subito, non a tutti. Ma talvolta lo fa. Come è successo a te. Ma inaspettatamente lo fa anche a chi non ha nè il sostegno della fede, nè quello delle persone intorno. Perché spesso la malattia fa paura e allontana gli altri. Ma tu che prima li detesti, poi li comprendi e li ami, perché tu, apparentemente quello più fragile e colpito, sei in realtà il più forte, quasi un privilegiato. Come è successo a me. Prima o poi leggerò le tue poesie, Da quel poco che ho letto, sento che sarà un’esperienza importante. Ti ringrazio e ti sono vicina.

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