Il simbolo e il feticcio, di Franco Campegiani

Il simbolo e il feticcio: la società dello spettacolo, di Franco Campegiani.

    

     

Agli albori dell’era televisiva, nel 1967, Guy Debord, con la sua Società dello spettacolo, profetizzò che il mondo reale si sarebbe trasformato in immagini e che lo spettacolo avrebbe preso il sopravvento sulla realtà. Ancora quarant’anni fa, chi scattava una foto lo faceva per conservare un ricordo o documentare un evento e già questo, probabilmente, non sarebbe piaciuto a Platone che aveva in odio i filodoxoi (amanti degli spettacoli): poeti e artisti bollati come esibizionisti persi nel fenomenico, rei di duplicare vanamente la realtà. L’era digitale è andata molto oltre quel peccato veniale di vanità, alimentando un culto per l’immagine che supera di gran lunga gli intenti mimetici messi al bando da Platone: culto teso a sostituire la vita reale con immagini virtuali poste come unica e indiscutibile realtà. Sta qui l’idolatria delle immagini del mondo attuale, che le moderne avanguardie artistiche hanno puntualmente vissuto e denunciato nelle maniere più varie.

Nell’essenzialismo delle culture aniconiche, la produzione di immagini è bandita in quanto tesa a nascondere la verità. Si ritiene, in quelle culture, che le icone siano forme senz’anima, e ciò paradossalmente coincide con il vuoto lasciato dal parossistico abbaglio delle immagini e dall’esaltazione sfrenata dell’effimero propria della nostra civiltà. Nichilismo ed Essenzialismo, da questo punto di vista, si equivalgono. Entrambi postulano, da angolazioni differenti, l’assenza, nelle forme, di ogni verità, mentre nelle visioni del mondo più arcaiche (animistiche), al contrario, le forme non sembra avessero il ruolo di negatrici o detrattrici, quanto piuttosto di evocatrici della verità. Evocazione intesa come richiamo e non come cattura, giacché la verità non potrà mai lasciarsi imprigionare nelle formule espressive, dove le è dato soltanto di balenare senza assumere fissa dimora. C’è un linguaggio mitopoietico, sorgivo, dove la verità si rivela, e c’è un linguaggio mitologico, ripetitivo, dove essa si cela.

Non tutte le immagini sono pertanto idolatriche. Esiste il simbolo ed esiste il feticcio. Esaminiamo la maschera dell’attore. Hipokrités è il termine con cui i greci indicavano il teatrante, l’istrione, termine che non aveva in origine il senso patologico della falsità radicale, dell’ipocrisia assoluta, del tradimento sistematico del vero, bensì quello di illuminare il confine tra l’apparire e l’essere, facendone intravedere l’incontro e lo scontro, la convergenza nella contrarietà. Ciò è contenuto splendidamente nel noto detto popolare secondo cui Pulcinella, ridendo e scherzando sulle debolezze umane (e dunque accettandone la convivenza) dice la verità. L’apparire e l’essere, la superficie e la profondità, sono dimensioni divergenti e convergenti, piani paralleli dello spirito che si separano e si rincorrono cercando l’allineamento, senza potersi trasferire l’uno nell’altro, ma senza neppure potersi radicalmente separare.

Nella nostra civiltà dell’immagine, invece, è esattamente questo che si fa e che s’intende fare. La distruzione delle forme propria delle avanguardie artistiche non sia fuorviante: non intende rappresentare un ritorno all’essere, sulla falsariga delle culture iconoclastiche ed aniconiche che impediscono la rappresentazione del divino e finanche del creato, come si legge nel monito rivolto a Mosé sul Sinai (libro dell’Esodo, 20, 4-6): “ Non avrai altro Dio all’infuori di me. Non fabbricarti nessun idolo e non farti nessuna immagine di quello che è in cielo, sulla terra o nelle acque sotto la terra”. La destrutturazione delle forme propria dell’arte contemporanea – senza per questo voler fare d’ogni erba un fascio – non è che una riprova, invece, del vuoto e del nulla lasciato dal trionfo delle immagini e dalla spettacolarizzazione assoluta promossa dall’attuale civiltà.

Non voglio con questo venire frainteso. Non è mio intendimento spezzare una lancia in favore dell’essenzialismo di quelle culture che non hanno buona reputazione delle immagini e dello spettacolo, come ad esempio quella platonica o di altri filosofi, ma come soprattutto quella di svariate tradizioni religiose. Ritengo che l’essenzialismo non faccia un buon servigio alle essenze, il cui intento è di manifestarsi nel sensibile, anche se il sensibile molto spesso le cela. Un conto è il simbolo, un altro il feticcio. Un conto è la mitopoiesi, un altro la mitologia. Un conto è l’adorazione dello spirito dell’albero, che ovviamente non può prescindere dalla fisicità dello stesso; un altro l’adorazione dell’albero in quanto puro e semplice oggetto materiale.

Sentirsi avvolti nella fisicità delle albe e dei tramonti, come in quella del vento e del sole, o del respiro del mare, o anche del puro e semplice alternarsi delle stagioni, non ha nulla a che fare con il feticismo, bensì con la spiritualità e la divinità propria del creato. Tra il mithos e il logos sono state create distanze abissali di comodo, del tutto arbitrarie. Nell’accezione originaria dei termini, logos è il linguaggio diretto dell’essere, mentre mithos è il linguaggio con cui l’essere appare nella scena dell’intelletto umano. Da un lato il verbo parlante, il suo farsi mondo; dall’altro l’ascolto e il racconto di questo farsi mondo e relazione. Il mithos, in fondo, non è altro che l’auto-rivelazione del logos, contrariamente a quanto i dottrinari insegnano ponendo i due termini in antitesi tra di loro.

            

Demetrio Polimeno, Linee d'ombra, Storie brevi, st 13 2015
Demetrio Polimeno, Linee d’ombra, Storie brevi, senza titolo 13- 2015

 

6 thoughts on “Il simbolo e il feticcio, di Franco Campegiani”

  1. L’articolo di Franco Campegiani, oltre ad essere interessante dal punto di vista dello studio – potremmo dire storicamente etimologico -, lo è vieppiù per gli approfondimenti che intende aprire in chi si sofferma nella sua lettura. E – me lo auguro – vorranno essere comunicati.
    Il saggista, giustamente, fa risalire l’avvento della spettacolarizzazione ai tempi di Platone, ai filodoxoi (amanti dell’esibizionismo e, per questo, tanto in odio al filosofo greco da reputarli dannosi alla corretta visione della realtà); ma non si accontenta e, attraverso i successivi e ricorrenti ritorni ora del nichilismo ora dell’essenzialismo, delle società dell’essere e dell’apparire
    (facce della stessa medaglia), giunge ai nostri giorni, senza alcun dubbio dominati dalla virtualità.
    Ciò che, però, come sostenevo, spinge alla riflessione è proprio il suo tenersi a debita distanza sia dall’una che dall’altra posizione. Di fondamentale importanza quanto lui stesso asserisce: “L’apparire e l’essere, la superficie e la profondità, sono dimensioni divergenti e convergenti, piani paralleli dello spirito che si separano e si rincorrono cercando l’allineamento, senza potersi trasferire l’uno nell’altro, ma senza neppure potersi radicalmente separare.”.
    Se ragioniamo in questi termini, non dovrebbe risultare difficile arrivare ad una inconfutabile conclusione: non si tratta di schierarsi: “Un conto è l’adorazione dello spirito dell’albero, che ovviamente non può prescindere dalla fisicità dello stesso; un altro l’adorazione dell’albero in quanto puro e semplice oggetto materiale.” – dice ancora -. Come sostenere che, se c’è una distinzione da fare, questa non è tra la forma (apparenza) e la sostanza (essere) ma quella, molto più costruttiva, tra simbolo e feticcio, tra mito e mitologia, tra il naturale e l’edulcorato.
    E – mi sia consentito aggiungere – proprio in questa sede; qui, dove viene ospitata: tra poesia della poesia e poesia non poesia.

    Sandro Angelucci

    1. Sandro Angelucci ha il grande merito di rendere più limpida la mia argomentazione. Culture dell’Essere e culture dell’Apparire, egli lascia intendere, tentano variamente di cancellare l’armonia dei contrari, risolvendola in una sola dimensione. Metafisiche e Nichilismi, aspetti differenti del razionalismo che da sempre domina nella storia dell’uomo, rifiutano drasticamente l’idea che l’armonia possa essere duale, e sta qui l’origine dei vari feticismi. Il Simbolismo arcaico (quello che dette, e ancora può dare, origine al mito) si fonda al contrario sull’aleggiare dell’Essere nelle formule espressive, sul suo puro e semplice balenare senza mai assumere fissa dimora. Una spiritualità ed una ricchezza che i materialismi contemporanei sembrano purtroppo avere cancellato, ma che in realtà sono sempre a nostra portata di mano.
      Franco Campegiani

  2. L’opposizione tra societa’ iconiche e aniconiche e’ molto piu’ ingarbugliata di quanto possa sembrare . Ad esempio la radice dottrinaria dell’islamismo vieterebbe la creazione e la diffusione di immagini eppure noi sappiamo che i gruppi jihadisti usano i video per diffondere la loro propaganda e per testimoniare i loro crimini. Ma per scendere alla normalita’ ho amici mussulmani che non disdegnano affatto di mettere la propria foto sul profilo whatsapp e alunne della stessa fede che amano i selfie. Io credo che la civilta’ dell’immagine abbia vinto perche’ ha vinto il capitalismo, analizzato perfettamente da Debord, in cui la merce e’ assurta a feticcio e la qualita’ fascinatoria dell’immagine e’ l garanzia della vendibilita’ del prodotto: i rotoloni Regina viaggiano fra le stelle, figuriamoci. Viviamo tra simulacri e noi stessi lo siamo. E’ l’epoca della perfettibilita’ e del ritocco, dal photoshop alla chirurgia estetica. Ma avere un’ immagine perfetta e’ una difesa contro il decadimento e l’oltraggio della morte. Al contrario l’esperienza mitica e’l’incontro con l’immagine spiritualmente e carnalmente unica. Quante volte puo’ succedere nella vita? Questa invece e’ l’eta’ in cui si continua a cliccare e ricliccare, nel gioco dell’eterna ripetizione e della proliferazione dell’impermanenza. Nel mito greco la maschera nascondeva il vuoto e il panico, oggi il dramma e’ che una maschera ne nasconde un’altra, all’infinito.

    1. Le due tendenze (iconiche ed aniconiche) convergono effettivamente in un punto: quello di avallare – direttamente o indirettamente – il feticismo, ovvero il vuoto lasciato da ogni immagine (apparenza) che non sappia rinviare all’essere che le vive dentro. E’ vero: il capitalismo contemporaneo (meglio definibile come “consumismo”) ha portato alle conseguenze estreme la tendenza nichilista del razionalismo occidentale, presente in tempi assai precedenti alla nascita del capitalismo stesso, se è vero che già nel mito greco la maschera poteva nascondere il vuoto e il panico. Il feticismo è in realtà una tendenza costante dell’animo umano che, a prescindere dai modelli culturali, è incline al materialismo da sempre, seppure a volte mascherato da spiritualismo. Tuttavia esiste pure, nell’animo umano, una tendenza simbolica radicalmente opposta a quella feticistica – e qui basterebbe ricordare il substrato misterico e mitico-sapienziale precedente alla nascita del razionalismo tragico nella Grecia classica – dove l’incontro con l’immagine garantisce davvero un’esperienza “spiritualmente e carnalmente unica”. Il simbolismo arcaico non nascondeva l’essere, né pretendeva di catturarlo, ma sapeva rivelarne il sussurro nelle formule espressive. Quel sussurro che può comunque e sempre venire captato dall’essere umano, a prescindere dai modelli culturali in cui vive, se ha il coraggio e la forza di credere in se stesso.
      Franco Campegiani

  3. Una sottolineatura importante e decisiva per cogliere la problematicità e l’originalità dell’argomentazione di F. Campegiani che ripropone gli argomenti che più gli sono cari:
    “Un conto è la mitopoiesi, un altro la mitologia. Un conto è l’adorazione dello spirito dell’albero, che ovviamente non può prescindere dalla fisicità dello stesso; un altro l’adorazione dell’albero in quanto puro e semplice oggetto materiale.
    Sentirsi avvolti nella fisicità delle albe e dei tramonti, come in quella del vento e del sole, o del respiro del mare, o anche del puro e semplice alternarsi delle stagioni, non ha nulla a che fare con il feticismo, bensì con la spiritualità e la divinità propria del creato. Tra il mithos e il logos sono state create distanze abissali di comodo, del tutto arbitrarie.
    Nell’accezione originaria dei termini, logos è il linguaggio diretto dell’essere, mentre mithos è il linguaggio con cui l’essere appare nella scena dell’intelletto umano. Da un lato il verbo parlante, il suo farsi mondo; dall’altro l’ascolto e il racconto di questo farsi mondo e relazione. Il mithos, in fondo, non è altro che l’auto-rivelazione del logos, contrariamente a quanto i dottrinari insegnano ponendo i due termini in antitesi tra di loro.”
    Da sottolineare pure la forza poetica con cui l’Autore si esprime, immettendoci nel suo complesso mondo che unisce la intesi argomentativa filosofica con la sensibilità estetica ed espressiva

    1. E’ un grande piacere incontrare Maria Grazia Ferraris in questo crocevia di fermenti poetici e stimolanti riflessioni culturali, al di fuori dei luoghi consueti e prestigiosi in cui si svolgono i nostri incontri culturali. La ringrazio vivamente per aver evidenziato passi significativi del mio modo di pensare, sottolineando “la problematicità e l’originalità” di una visione che intende in qualche modo coniugare sensibilità poetica e fascino argomentativo. Grazie. E’ quanto in realtà pretendo dalla mia scrittura.

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