Il sistema poetico di Idea Vilariño: retrospettiva di Martha L. Canfield – 1^ puntata.
Dall’uscita della sua prima plaquette, La suplicante, nel 1945, ai libri maggiori, Nocturnos e Poemas de amor, che hanno avuto tantissime edizioni in ormai più di mezzo secolo – edizioni quasi sempre accresciute o modificate –, ai nuovi titoli che rimandano alla sua poesia più impegnata, come Pobre mundo, del 1966, o più nichilista, come No, dell’80, e anche ai testi aggiunti nelle ultime raccolte complessive (v. Poesía 1945-1990, del ’94, e Poesía completa del 2002), la poesia di Idea Vilariño offre immediatamente al lettore un segno inconfondibile e indimenticabile, che parte senza dubbio dal suo ritmo incalzante.
Affinità e fonti.
Possiamo tuttavia riconoscere una rete perfino fitta di affinità tematiche o tonali con altri poeti a lei precedenti o contemporanei, attraverso la quale il suo personalissimo poetare trova preciso luogo nel presente storico. A cominciare dalla novalisiana contemplazione della notte e la conseguente insofferenza nei confronti della “sudicia sudicia luce”[1]. La prospettiva con la quale Idea legge il mondo è agnostica, tormentosamente agnostica, ed in questo si allontana da Novalis; ma anche così non si può negare che in lei prosegua, con notevole intensità ed efficacia, il misticismo notturno (o la notturnità mistica) del primo romantico, la sua ricerca instancabile della comunione con la notte, il suo voluttuoso calarsi negli abissi dell’oscuro, così come, sul piano formale, la sua moderna preferenza del ritmo alla rima.
Echi di Baudelaire e di Darío, ai quali Idea dedica una poesia ciascuno, si percepiscono disseminati nella sua opera, benché soltanto, specialmente per quanto riguarda il secondo, come punti di riferimento da cui prende l’avvio il suo personale codice d’interpretazione del mondo. E naturalmente non si tratta mai del Darío estetizzante, ma del Darío tormentato dall’ineluttabilità della morte, il Darío che oppone alla freschezza della carne il profumo soffocante dei fiori funebri[2], o meglio, detto con le parole di Idea, l’estate, la fugacità di “un giorno d’estate”, a “le foglie che ogni autunno fa marcire”[3].
Inoltre, la frammentazione della sintassi (“come se il dio se il vento / se l’ardente rugiada / come se mai”[4], oppure “l’aria amara del / l’aria amara”[5]),l’ellissi frequente del verbo e la tendenza a sostantivare, così come un certo sperimentalismo delle prime composizioni (non sempre modificato nelle successive edizioni: “cade la lo autunno”[6]), segnalano l’assimilazione da parte sua di certe libertà formali diffuse dalle avanguardie, che nell’Uruguay degli anni ‘40[7] poterono affascinarla soprattutto, molto probabilmente, attraverso la lettura di Neruda. Del resto Idea ha lasciato testimonianza scritta del suo interesse per Juan Parra del Riego, il poeta peruviano al quale si attribuisce solitamente l’introduzione dello spirito avanguardista (futurista) in Uruguay[8].
L’inclinazione morale e filosofica della poesia di Idea, la seria e costante riflessione sulla morte concepita come una presenza attiva in ogni essere mortale, che cresce con la vita fino a trionfare su questa cancellandola, richiama direttamente la poesia di Quevedo. Ma anche quella di Paul Valéry, con il suo “misticismo senza Dio” e il suo anelito di purezza; e di César Vallejo con la sua pietà per l’uomo (“E l’uomo… Povero… Povero!”[9]), pietà che in Idea si dilata dall’io all’uomo e dall’uomo al mondo (Povero mondo[10]). La lettura da lei fatta da quest’altro peruviano, la sua affinità con lui, del quale si è occupata criticamente più volte, si realizza nella superficie di alcuni versi che sembrano quasi citazioni o, meglio, appropriazioni personalizzate:
I morti danno strattoni al cuore. La vita
li rifiuta
li picchia forte con il piede
per favore per favore
li picchia duramente[11]
dice una poesia di Por aire sucio, evocando una celebre strofa di Poemas humanos:
César Vallejo è morto, lo picchiavano
tutti senza che lui facesse nessun male;
lo picchiavano duramente con un bastone e duramente
pure con una cinghia[12]
Diceva Vallejo:
C’è qualcuno che ha bevuto molto e si beffa,
e avvicina e allontana da noi, come nero cucchiaio
d’amara essenza umana, la tomba[13]
e dice la Vilariño:
Come una zuppa amara
come una dura cucchiaiata atroce
spinta fino in fondo nella gola
riferendosi non alla tomba, ovvero alla minaccia della morte, ma alla solitudine, l’altra condanna della vita che è in realtà “forma del morire / che è morte”[14].
Le forme intense schiette concentratissime e spoglie del linguaggio amoroso fanno pensare a volte a Pedro Salinas. Questi, per esempio, conferma l’illusione vana dell’amore con un verso trimembre: “Ha sido, ocurrió, es verdad”[15]; Idea lo fa con tre versi che potremmo leggere come uno solo e di struttura somigliante al verso saliniano: “fue colmado / atestiguó / fue cierto”[16]. La stessa cosa si può dire di una certa propensione allo stile colloquiale e all’enumerazione degli oggetti del quotidiano, anche se in minor misura in Idea che nel poeta spagnolo.
Invece la sua attenzione alla problematica del silenzio, sia del silenzio primordiale che del silenzio della parola – e diciamo che il tentativo di rivalorizzare la parola attraverso il silenzio è una preoccupazione propria di certa poesia del ‘900 – la collocano accanto a poeti con i quali forse non ha avuto contatti diretti, ma che le sono sicuramente affini, come per esempio Yves Bonnefoy, Mario Luzi, Giorgio Caproni o Alejandra Pizarnik.
Per la trascendenza del dolore e per la centralità di questa tematica nella sua poesia, Idea è vicina anche a Sylvia Plath. Per l’attenzione ossessionante all’io, la tendenza alla frantumazione del centro psichico e infine all’annientamento (v. La metamorfosis in Pobre mundo) è molto prossima, ancora una volta, ad Alejandra Pizarnik. Per la sua concezione della vita come un “vizio”, una “impurità”, la sua poesia sembra un’altra versione della filosofia neoschopenhaueriana di Cioran, di Ceronetti o di Savater.
Così, la poesia di Idea diventa espressione intensissima del malessere contemporaneo. Si può dire che in lei l’essere contemporaneo si definisce a partire dalla sua angolazione più drammatica: il dolore di esistere, l’impossibilità di mantenere quella coerenza e quella “purezza” che implicherebbero il rifiuto stesso della vita, la perdita di ogni speranza di trascendenza metafisica o religiosa, la perdita di ogni teleologia che non sia negativa: si nasce per morire, si vive per essere distrutti, si ama per essere traditi, umiliati, abbandonati.
Non c’è nessuna speranza
che tutto si sistemi
che si calmi il dolore
e il mondo si organizzi.[17]
Tutto è tuo
per te
va verso la tua mano il tuo orecchio il tuo sguardo
andava andò
[…]
tutto si muoveva
avviato
cieco
arreso
verso il luogo
da dove saresti passato
perché lo trovassi tu
perché lo calpestassi.[18]
Il tessuto fonico
Quello che rende questa poesia “inconfondibile” e “indimenticabile” è qualcosa di più della quantità dei suoi contenuti: è il veicolo espressivo, l’impronta del suo stile. Ne abbiamo anticipato qualcosa nell’accennare alla frammentazione sintattica e alla preferenza dell’autrice per il ritmo piuttosto che per la rima. Ma quello che è più caratteristico di questa poesia è l’impressione di ripetizione e litania che lascia nel lettore, la successione di brevi unità ritmiche più o meno vivaci o più o meno malinconiche ma sempre martellanti. I suoi versi, come quelli di E. E. Cummings, o del secondo Neruda, possono essere brevissimi, di due o tre e perfino di una sola parola (come nella citazione precedente); ma in essi la assenza o l’uso molto libero della punteggiatura possono autorizzare ad una lettura che sottolinei lo smembramento sintattico o l’attenui, riducendo l’effetto di enjambement.
Se leggiamo seguendo le unità ritmiche, indipendentemente dalla disposizione tipografica, noteremo che tutti o quasi tutti i suoi versi, con pochissime eccezioni, si riducono a tre metri: settenari, endecasillabi e pentasillabi (in ordine di frequenza decrescente). Fra questi si scoprono, con regolarità quasi matematica e in successioni simmetriche, pochi tipi di “piedi”, cioè, giambo, trocheo, anapesto. I versi molto brevi, di due o tre o quattro sillabe, sono divisioni tipografiche di metri maggiori. I versi lunghi, sovrapposizioni di versi minori; così, i versi di quattordici sillabe, che talvolta si trovano, corrispondono in realtà a due settenari e mai, per il ritmo del contesto e per la sintassi, potrebbero essere considerati “alessandrini”.
Riporto alcuni esempi di “ricostruzione metrica”[19], segnalando con barra la divisione tipografica dell’autrice secondo l’ultima o penultima versione pubblicata della poesia. Il secondo dei Poemas de amor (1957), secondo la versione della Segunda antología (1980), può servire come primo esempio:
Yo quisiera / llorando /
decírtelo / mostrarte /
decirte destrucción /
y que tú me entendieras /
o decirte / se fue /
el verano se fue /
o decirte / no te amo /
y que tú me entendieras. /
Io vorrei / piangendo /
dirtelo / farti vedere /
dirti distruzione /
e che tu mi capissi /
o dirti / se n’è andata /
l’estate se n’è andata /
o dirti / non ti amo /
e che tu mi capissi. /
Secondo questa ricostruzione la lettura dovrebbe realizzarsi facendo una semi pausa nelle cesure e una pausa completa alla fine di ogni nuovo verso. Si ottiene così una serie di otto settenari, tre dei quali acuti. Sei di questi – per il momento non teniamo conto né del secondo né del terzo – sono composti da due anapesti e rimano due a due: il primo con il settimo, il quinto con il sesto e il quarto si ripete identico nell’ultimo, di modo che si potrebbe parlare di due quartine con ritornello. A parte gli ossitoni quinto e sesto, che si separano nell’insieme anapestico formando un distico con parola-rima o epifora, gli altri quattro hanno una settima sillaba post-tonica, come è naturale nella lingua spagnola. Considerando che il pronome del primo verso è atonizzato (AR = atona ritmica secondo Macrí) e non segnalando le sillabe assorbite dalla sinalefe, poiché non si contano, possiamo trascrivere così:
U U — / U U — /U
Yo qui-sie ra llo ran do
U U — / U U — / U
y que tú me-en ten die ras
U U — / U U — / U
o de cir te no te a mo
E il distico di quattro anapesti così:
U U —/ U U —
o de cir te se fue
U U —/ U U —
el ve ra no se fue
In quanto ai settenari secondo e terzo, in realtà, fanno eccezione perché presentano un inizio giambico (U —) che, in entrambi i casi, intensifica il verbo decir, oggetto e finalità principale della composizione: decir e, naturalmente, decirte, dal momento che il tu allocutorio è fondamentale nella poesia di Idea e soprattutto nelle poesie d’amore. Si potrebbe obiettare che l’armonia tra l’omogeneità ritmica e la carica semantica si rompe, sia nel quinto che nel penultimo settenario, perché in questi versi l’inizio anapestico è mantenuto nonostante la presenza di decir e di decirte. Tuttavia, sembra evidente che in ambedue i casi l’accento è posto non nell’atto della parola (l’enunciazione, decir), ma nel messaggio portato dal verbo (ciò che è enunciato), che è, prima “se fue” e poi “no te amo”. Lo spostamento dell’accento emotivo è annunciato anche dall’anteposizione della congiunzione “o” (AN = atona naturale): “o decirte”.
L’istinto musicale della Vilariño è molto forte: non dimentichiamo che è cresciuta in una casa nella quale si coltivava la musica, che ha studiato piano, violino, chitarra e altri strumenti a corda, che ha composto canzoni e che si è occupata varie volte del tango[20]. Così l’introduzione di certe forme colloquiali nelle sue poesie sembra spesso condizionata dal metro predominante nella composizione. Per esempio, “enamorandosé” (in Es un hombre cualquiera) o “enumerandoló” (titolo di un Nocturno), trascritti secondo la pronuncia gergale rioplatense, risultano settenari in un insieme di settenari. Specialmente il secondo, con la variazione di accento nelle ultime versioni (Enumerándolo risulta in Nocturnos del 1963 e nell’antologia Poesía, Arca, 1970; mentre invece adotta Enumerandoló in Nocturnos del 1976, nella Segunda Antología, 1980, e in Nocturnos del 1986), sembra dimostrare quello che era intuitivo e non razionalizzato, a forza di riscriverlo, diviene cosciente. Probabilmente lei ha sempre letto “Enumerandoló”. Questo Nocturno, d’altra parte, è formato da una serie esclusiva di settenari, non modificati tipograficamente.
Si ricompone egualmente in settenari, con un solo endecasillabo centrale, “y voy enajenada por la casa” (trad. it.: “e giro allucinata per la casa”), la celeberrima Carta I dei Poemas de amor. Anche qui c’è stata una specie di “incontro” tipografico con il ritmo reale del verso: nelle prime versioni l’endecasillabo compariva diviso, “y voy enajenada / por la casa” (v. edizioni del ’57 e del ’58).
Si ricostruiscono come silvas, cioè strofe combinate di endecasillabi e settenari, El amor (Un pájaro me canta…) – e così facendo si mette in evidenza la rima assonante in a-o / e- o / i-o – e El encuentro (Todo es tuyo), entrambi di Poemas de amor, Noche desierta e Ven di Nocturnos. È interessante la tonicizzazione ritmica (TR) delle atone naturali (AN) in due articoli di Que fue la vida (Nocturnos), uno alla fine del verso (las varias faltas làs), l’altro dopo la cesura (miserias / èl cansancio). Infine (ma gli esempi si potrebbero moltiplicare), Te estoy llamando, di Poemas de amor, si ricompone in un settenario iniziale e poi una serie omogenea di endecasillabi a maiore.
Il ritmo martellante e l’impressione di litania non sono affidati solamente alla struttura metrica delle poesie. Vi contribuiscono anche il tessuto fonico delle stesse, il ricorso notevole al fonosimbolismo e l’uso costante di quasi tutte le figure retoriche di ripetizione. Il decimo dei Poemas de amor (Amor amor jamás…), che si ricompone in forma di silva, dà prevalenza assoluta agli accenti e alle rime in ó, come se le parole chiave “amor” e “no” fossero disseminate fonicamente nella composizione. Il verso centrale – decimo su un totale di venti secondo la mia ricostruzione – è un endecasillabo composto da due piedi anapestici e due giambici più una sillaba atona, e tutti gli accenti cadono sulla ‘o’, come si vede nello schema seguente, precisando che “qué” è reso atono (TN → AR) dalla sua posizione fra due toniche naturali e ritmiche (TN → TR):
U U — / U U — // U — / U — / U
pe ro dón de que dó qué cons ta a ho ra
La a di amor, che si oppone fonicamente a “no”, è presente massicciamente nei vocaboli che testimoniano l’esistenza passata ma reale di questo amore: “pañuelo / que alguien guarda olvidado”, “sangre”, “lágrimas”, “amarillo”, per prolungarsi nelle tre sillabe di ognuno dei due vocaboli che sintetizzano ciò che è stato sognato, la felicità mai raggiunta: “mañana” e “palabra”. L’ultima parola “palabra”, come ultimo appello a questa felicità impossibile, appare dopo una drammatica successione di negazioni (“no hubo nunca”), sottolineata da una serie ininterrotta di accenti in ó:
una nóche un amór
un amór
una nóche de amór
una palabra.
Fra tutte le figure retoriche, quelle di ripetizione risultano le più frequenti in questa poesia, dalla semplice epizeusi (“cielo cielo”[21], “la sudicia sudicia sudicia luce del giorno”[22],
“solo solo solo”[23], “amore amore mai più”[24], ecc.) o l’anafora (“come un cieco un pazzo / come una banderuola”[25], “luna che esce sì / luna che esce”[26]), all’epanalessi (“Trasparente l’aria trasparente”[27], “corpi distesi corpi”[28], “Arcangelo d’ala nera […] Arcangelo”[29]) o al poliptoto (“geme la sua voce e gemo / rido e ride / e mi guarda e lo guardo / mi dice e io gli dico / e mi ama e lo amo”[30]). Questa preferenza si spiega per il fatto che sono soprattutto il ritmo e la scansione a veicolare i significati, che rimangono racchiusi in brevi formule talvolta ripetute ossessivamente a mo’ di litania.
Tale dizione può sconfinare infine in una specie di “balbettio”, un andare alla ricerca della parola giusta, sviscerandola dall’insieme indeterminato o corrotto del linguaggio (v. El que come noche, Paraíso, Volver, Si muriera esta noche, ecc.), balbettio che dipende, probabilmente, dalla condizione di angoscia che determina e segna la scrittura di Idea e anche dalla drammatica ricerca della parola-verità, che è per lei l’obiettivo fondamentale della poesia. Tutto ciò la inclina verso una dizione estremamente spoglia e concentrata fino al silenzio. Una volta le ho domandato se era pentita di aver pubblicato qualcuno dei suoi libri, e lei ha risposto così: “Adesso non c’è più rimedio, ma non avrei dovuto pubblicare nessuno”. Ad ogni modo credo che quello che più apprezzava della sua poesia era il rigore formale: è questa la ragione dell’opportunità di un’analisi tecnica prima di addentrarci nell’analisi dei suoi principali motivi.
_____________________________
[1] Si vedano i versi quartultimo e terzultimo di Paraíso Perdido, primo componimento della raccolta omonima del 1949: “[…] No quiero ya no quiero / la sucia sucia sucia luz del día” (trad. it.: “Non voglio ormai non voglio / la sudicia sudicia sudicia luce del giorno”). Per la poesia di Idea si veda la prima edizione completa da lei stessa curata, nella quale raccoglie testi anteriori a La suplicante: Idea Vilariño, Poesía (1945-1990), Cal y Canto, Montevideo, 1994; per le versioni di gran parte della sua poesia, si veda l’antologia La sudicia luce del giorno, a cura di M. Canfield, QuattroVenti, Urbino, 1989, che d’ora in poi sarà citata con la sigla SLG. Tutte le traduzioni della Vilariño e di altri poeti citati, se non diversamente specificato, sono mie.
[2] A Rubén Darío Idea ha dedicato un lavoro crítico-didattico, Rubén Darío (Editorial Técnica, Montevideo, 1979), nel quale analizza, fra le altre, la poesia Lo fatal, che considera una delle migliori della sua opera e, si può aggiungere, fra le più affini alla poesia della Vilariño stessa. Anni dopo pubblicò ancora Conocimiento de Darío (Arca, Montevideo, 1988).
[3] Il tema della fugacità e dell’insignificanza dell’essere è drammaticamente presente in due componimenti dei Nocturnos: Una vez, che chiude con “un día de verano / que otros días del mundo / disiparon“, e Quiénes son, dedicato ai suoi fratelli e sorelle Alma, Azul, Poema e Numen, visti come “espectros como yo / momentáneos y vanos / iguales a las hojas que pudre cada otoño”.
[4] Vedi La limosna, di Por aire sucio (1951): “como si el dios si el viento / si el ardiente rocío / como si nunca”; trad. it.: in SLG, p. 63.
[5] “el aire amargo del / el aire amargo”, nella seconda strofa di Los cielos, di Por aire sucio (1951); trad. it.: in SLG, p. 71.
[6] “Se cae la el otoño” è l’inizio della seconda strofa di Los cielos, in Por aire sucio; trad. it.: in SLG, p. 71.
[7] L’impatto delle avanguardie in Uruguay è stato comunque modesto e minore rispetto ad altri paesi ispanoamericani. Cfr. Hugo Verani, Las vanguardias literarias en Hispanoamérica, Bulzoni, Roma, 1986, pp. 41-42.
[8] Juan Parra del Riego, Nocturnos y otros poemas (selezione e prologo di Idea Vilariño), Ediciones de la Revista «Siete Poetas Hispanoamericanos», Montevideo, 1965.
[9] “Hay golpes en la vida tan fuertes… Yo no sé! / Golpes como del odio de Dios […] Y el hombre… Pobre… pobre!”: è il primo componimento della raccolta Los heraldos negros (1919): César Vallejo, Opera poetica completa, a cura di Roberto Paoli, prologo di Antonio Melis, Edizioni Gorée, Iesa (SI), 2008, pp. 2-3.
[10] Pobre mundo s’intitola il primo componimento e l’intera raccolta del 1988.
[11] “Los muertos tironeando del corazón. / La vida rechazando / dándoles fuerte con el pie / por favor por favor / dándoles duro”: Trabajar para la muerte, di Por aire sucio (1951).
[12] “César Vallejo ha muerto, le pegaban / todos sin que él les haga nada; / le daban duro con un palo y duro // también con una soga; […]”: è il celebre sonetto Piedra negra sobre una piedra blanca di Poemas humanos.
[13] “Hay alguien que ha bebido mucho, y se burla, / y acerca y aleja de nosotros, como negra cuchara / de amarga esencia humana, la tumba…”: La cena miserable, di Los heraldos negros.
[14] “Como una sopa amarga / como una dura cucharada atroz / empujada hasta el fondo de la boca / hasta golpear la blanda garganta dolorida / y abrir su horrible náusea / de soledad / que es soledad / que es forma del morir / que es muerte”: Más soledad, di Nocturnos (1955).
[15] Pedro Salinas, La voz a ti debida (1933), trad. it. di Emma Scoles: “È stato, accadde, è vero”, in P. Salinas, La voce a te dovuta, Einaudi, Torino, 1979, pp. 14-15.
[16] La strofa completa dice: “Lo que hubo fue dolor / lo solo que hubo / que fue colmado / atestiguó / fue cierto”: El amor (Amor amor jamás), in Poemas de amor (1957-1965); trad. it.: “Ciò che è stato è dolore / la sola cosa che è stata / che si è realizzata / la sola cosa che è stata / si pronunciò / fu vera”, in SLG, p. 109.
[17] “No hay ninguna esperanza / de que todo se arregle / de que ceda el dolor / y el mundo se organice.”: No hay ninguna esperanza, di Nocturnos (1955); trad. it.: SLG, p. 81.
[18] “Todo es tuyo / por ti / va a tu mano tu oído tu mirada / iba fue / […] / todo iba / encaminado / ciego / rendido / hacia el lugar / donde ibas a pasar / para que lo encontraras / para que lo pisaras”: El encuentro, di Poemas de amor (1957-1965); trad. it.: SLG, p. 95.
[19] Mi prendo questa libertà ispirandomi all’analisi métrica insegnata da Oreste Macrí nei suoi seminari, e testimoniata in Ensayo de métrica sintagmática, Gredos, Madrid, 1968; Analisi metrica delle «Rimas» di G. A. Bécquer, in «Quaderni Iberoamericani», Nº 30-40, 1971; Semantica e metrica nei «Sepolcri» del Foscolo, Bulzoni, Roma, 1978. La trascrizione completa vorrebbe anche le sillabe in sinalefe fra parentesi; ma ho preferito eliminarle per semplificare e per rendere più evidente la simmetria delle unità melodiche.
[20] Cfr. Idea Vilariño, Las letras de tango, Schapire, Buenos Aires, 1965; El tango cantado (antología e prefazione di I. Vilariño), Calicanto, Montevideo, 1971: El tango cantado, in «Texto crítico», n. 6, anno III, Universidad Veracruzana, México, 1977; El tango, Centro Editor, Buenos Aires, 1981 (fascicoli nº. 117 e 121 di «Capítulo», Historia de la literatura argentina.
[21] Titolo della poesia nella raccolta omonima del 1947, Cielo cielo.
[22] “la sucia sucia sucia luz del día”: terzultimo verso di Paraíso perdido, dell’omonima raccolta del 1949; trad. it.: Paradiso perduto, SLG, p. 53.
[23] Quarto e ultimo verso di Se está solo, in Por aire sucio (1951); trad. it.: Si è soli, SLG, p. 59.
[24] “amor amor jamás”: primo verso di El amor (Amor amor jamás…), in Poemas de amor (1957-1965); trad. it.: L’amore (Amore amore mai più), SLG, p. 109.
[25] “como un ciego un loco / como una veleta”: altri versi di Se está solo, cit.
[26] “Luna que sale sí luna que sale”, incipit della poesia Por aire sucio dell’omonima raccolta del 1951; trad. it.: Per aria sporca, SLG, p. 65.
[27] “Transparentes los aires, transparentes”: inizio di Verano, in La suplicante (1945); trad. it.: Estate, SLG, p. 43.
[28] “Cuerpos tendidos, cuerpos”, ibidem.
[29] “Arcángel de ala negra / […] / arcángel”, primo e ultimo verso di El desdén, in Por aire sucio (1951); trad. it.: SLG, p. 61.
[30] “gime su voz y gimo / río y ríe / y me mira y lo miro / me dice y yo le digo / y me ama y lo amo”, El amor (Un pájaro me canta…) di Poemas de amor (1957-1965); trad. it.: L’amore (Un uccello mi canta…) SLG, p. 93.