In grado di viaggiare, poesie di Monia Gaita

In grado di viaggiare, poesie di Monia Gaita

 

     

Ho composto questi inediti per l’evento “Poeti in itinere” svoltosi il 28 settembre a Fiumicino nella necropoli di Porto. La scrittrice Elisabetta Destasio che ha felicemente promosso l’iniziativa, aveva dato come tema “Il verso dalla morte alla vita”. Ho subito pensato quanto la poesia risulti più adiacente alla vita che alla morte, più prossima al cielo che alla terra, più vicina a un cuore pulsante che a un cuore fermo. Ho pensato che la poesia libera, ci congeda dagli intoppi del buio e dai voltafaccia del divenire, ci licenzia dai capitomboli del vuoto, dai ruzzoloni delle promesse e dei progetti, dai gorghi dell’io e dai cortocircuiti delle vicende fenomeniche. La poesia dà voce. Dà voce anche all’incorporeo. Conferisce spessore, massa e volume non solo alla materia fisica, ma pure a quella spirituale. La poesia mette una toppa a tante scuciture. Le parole ridestano dal sonno alcune fasi del vivere, ricompongono schegge e brandelli a gesti e affetti, restituiscono luce, fiato e forza a certi istanti. Attraverso lo scrivere, proviamo a reperire una via d’uscita dall’impasse, risarcendo il caduco, l’instabilità e l’insignificanza, agganciando i giorni alla maniglia di un soccorso che solleva, abbraccia e redime. La poesia è una funzione carica di responsabilità, vuole organismi vivi fatti di carne, di ossa, di muscoli e di sangue. Tutto ciò che di inerte e di esanime la poesia tocchi, fuoriesce dallo stato di dormienza riattivando metabolismo e crescita. La poesia non soccombe mai alle sabbie mobili della dimenticanza. Nessun processo di arresto o di dissoluzione. Trasforma ogni suolo desertificato dal salino dell’incuria o della fretta, in un campo fertile di frutti e di fiori.  MG

 

La rapida

Entriamo nelle miniere di carbone del moderno.
Le vie del centro hanno gli occhi stanchi 
e i lineamenti tirati,
ingoiano gesti confusi in un ritardo 
che s’incolla alle portiere come fango.  

Il sole dall’alto del ponteggio
atterra in diagonale tra i palazzi
e ogni negozio ha fasci di fili scoperti
che non conducono a nessuna lampadina. 

Bizzarro che la luce risieda altrove,
nelle radici ancora non divelte 
dei capitelli e delle soglie.
A sormontare le colonne ci sono molti occhi,
da lesena a lesena, si appostano sulle iscrizioni,
attizzano braci assopite di antiche civiltà.  

Possiamo immaginare 
uomini magri e vecchi già a trent’anni, 
salici e agguati tremare alla violenza del vento,
perdite e colpe 
baluginare dietro l’orizzonte.  

Aggrappati alla coda dei secoli
tratteniamo quei corpi con la fune
senza sapere, a sole sei bracciate di distanza dal fondale,
la rapida che salderà le costole alle sponde
e ci farà liberi, e finalmente forse,
in grado di viaggiare. 

      

La tela

La scala dei secoli si è sollevata fino alla finestra,
l’architrave dalla bocca della storia
lancia l’arpione delle usanze scempiate
sui minuti.  

So che quelle donne furono madri,
che quegli uomini furono padri mai troppo teneri
forse perché l’acacia della normalità 
aveva graffi e fenditure.  

So che distesero la stuoia delle preghiere 
su concordati d’erba,
che ispezionarono il tuono
con basamenti di paura nella notte.  

Quando la morte ne perforò senza preavviso 
la tela delle indeperibili abitudini,
l’aria non sobbalzò per il dolore.
Nessuno si scompose troppo a lungo:  

le piante cariche di frutti continuarono a fiorire
e le pennate foglie dei cespugli
si inerpicarono, malgrado i sogni dirupati,
in cima al muro. 

 

Una pietra

Una pietra può spingersi avanti e indietro 
lungo il litorale,
sbucare come una nuvola calda 
dal folto dei secoli,  

inginocchiarsi al suono di risacca 
degli andati
fra l’incredulità dei vivi 
cresciuti in una terra 
di scontri e di miracoli. 

Raccogliere i capelli delle storie 
in una lunga treccia sulla schiena,
vale a recuperare l’equilibrio,
insinuarsi più veloce nel passato
con zampe trasformate in ruote,
la testa del distante che rotola lontano.  

E dappertutto 
echeggia un sangue di memoria,
mette in catene lo scomporsi delle cose,
ordina tronfio 
di non dimenticare. 

Sono le voci 
che frugano la grotta ad altre ere
e in uno spruzzo bianco 
dicono che la pietra
non è mai quella che si vede. 

 

 

Monia Gaita è nata a Imola (BO) il 7-11-71 ma vive da sempre a Montefredane, paese d’origine in provincia di Avellino.
Giornalista e critico letterario, ha all’attivo pubblicazioni in prosa: Rimandi (Montedit-2000), e in poesia, Ferroluna (Montedit-2002), Chiave di volta (Montedit-2003), Puntasecca (Istituto Italiano Cultura Napoli-2006), Falsomagro (Editore Guida-2008), Moniaspina (L’Arca Felice-2010), Madre terra (Passigli-2015)che ha ottenuto il Premio di Letteratura allo Spoleto Art Festival 2016.
Diverse le antologie che si sono occupate della sua poesia.
Collabora a importanti riviste web e cartacee tra cui “Poetarum silva”, “Clandestino” e “Nuovo Meridionalismo”.
La sua scrittura si connota per un uso libero della lingua che punta a coniugare lessemi ricercati e parole attinte al quotidiano in originale mescidanza.
E’ direttore editoriale di Delta3 Edizioni.
Porta avanti nella sua Montefredane, con la Proloco che presiede, il Premio di Cultura “Oreste Giordano”, volto a valorizzare eminenti personalità del mondo giornalistico, della poesia, della scrittura, dell’arte e della scienza.
       

 

Monia Gaita – in apertura Ksenja Laginja, Scanner Animals, 2017

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