Intervista a Alessandra Racca

Intervista a Alessandra Racca, a cura di Paolo Polvani.

    

    

Benvenuta alla poeta Alessandra Racca, per la prima volta su Versante Ripido. Le proponiamo alcune domande per conoscerla.

Chi è e come è nata la signora dei calzini?

La signora dei calzini è un alter ego che è nato a causa e per merito della mia timidezza.
Quando ho iniziato a  scrivere poesie, ho pensato che il modo migliore per capire se la loro esistenza potesse interessare altre persone, oltre a me che le avevo generate, era leggergliele in faccia, non dargliele da leggere, perché così potevano mentire. Volevo proprio vedere le reazioni. Così ho radunato un po’ di amici in una stanza e ho letto loro le mie poesie. Dalle loro reazioni ho capito che mi andava di continuare a condividere ciò che scrivevo con altri. E siccome non avevo ancora iniziato a navigare nel mare magno delle pubblicazioni, ho pensato che il modo più efficace e a me accessibile erano le letture pubbliche. Ho sempre amato la dimensione della parola “detta” e così mi sono avventurata. Ma morivo di paura. E allora ho creato questo alter ego, la signora dei calzini, con la quale mi presentavo al pubblico. Poi ho vinto le mie paure e alle letture ho iniziato ad andarci con la mia faccia. Ma la signora dei calzini la tengo ancora con me, ci facciamo compagnia.
Questa è la poesia dalla quale è stata evocata.

Nostra Signora dei calzini

Due calzini
uno brutto e uno bello
li compero ogni autunno.

Due calzini,
uno brutto e uno bello
si perdono: ogni autunno.

C’è un luogo, signora,
dove si perdono i calzini,
c’è, signora,
in ogni casa.

La signora che vende i calzini
sorride
e ha quella certa comprensione
negli occhi:
è d’accordo con me.

Ci accaniamo
per un buon cinque minuti
io e la signora
sui calzini scomparsi
e su chi li faccia scomparire.

Dopo mi sento meglio,
ma non mi volto a guardare:
la voglio pensare assorta,
la signora dei calzini,
con una certa profondità negli occhi
con una certa comprensione per me.

Perché ciò che veramente volevo dirle
ciò che veramente mi infastidisce
è che ho perso qualcosa
che ieri sera avevo capito
e che ora non so più,
non me lo ricordo.

C’è un luogo, signora,
dove si perdono i pensieri,
c’è, signora,
in ogni corpo.

Perciò ho due calzini nuovi
in borsa,
uno bello e uno brutto,
due calzini perduti
in casa,
uno bello e uno brutto,
e ho il cuore terribilmente confuso.

   

La tua scrittura è una specie di abbraccio affettuoso, forse l’ironia è un deterrente 
per tenere a freno un eccesso di affetto?

L’ironia è una potente alleata, è qualcosa che fa parte del mio modo di affrontare la vita e del mio linguaggio in maniera molto profonda. Scelgo spesso, in poesia, di accordarmi a questo modo “ironico” di dire ciò che voglio dire, per tanti motivi. Uno di questi è che così mi pare di riuscire ad essere efficace. E’ un “tono”, quello della leggerezza e dell’ironia, che ho capito essere proprio della mia voce, mi aiuta a non essere finta, retorica. Può essere una posa, ma faccio molta attenzione affinché il mezzo non mi prenda la mano. Nel mio sguardo, tu hai ragione, c’è dell’affetto per ciò che viene osservato e descritto (che sia interno o esterno a me), sicuramente l’ironia aiuta a non eccedere in amorevolezza, a tramutare il sentimento in sentimentalismo, consente una distanza e soprattutto mi permette di giocare (e quindi di essere estremamente seria).

    

Dove si incontrano le correnti del tuo mare? di cosa si alimenta il tuo sole?

Il mio è un pianeta molto variegato, posso vantare una quantità di climi e paesaggi antitetici, come molte persone. Non so dove si incontrano le correnti del mio mare, ma so che lo scontro interiore fra correnti antitetiche è per me una potente spinta. Il mio sole di alimenta di curiosità e di relazioni umane.

    

Credo che tu abbia venduto più di Zanzotto. Come lo interpreti?

Beh, non l’avevo mai vista in questi termini: non so se ho venduto più di Zanzotto, ma so che le raccolte di poesia che ho scritto hanno venduto bene (scusate il linguaggio da piazzista) e molto se raffrontate ai numeri della poesia, che sono esigui, soprattutto considerando che Nostra signora dei calzini è un libro che non ha avuto distribuzione e le altre due raccolte (Poesie antirughe e L’amore non si cura con la citrosodina) sono state pubblicate dalla Neo edizioni, casa editrice gagliarda ma piccola.
Sicuramente il fatto che io faccia numerose letture pubbliche ha un suo ruolo: in questo modo ci si smarca dai meccanismi della distribuzione, dallo strapotere delle grandi case editrici, dall’affollamento in libreria e dal ghetto della poesia: si porta il libro alle persone. Ti ascoltano e poi in molti decidono di acquistare il libro. Non è certo una formula per tutti, ma per me, che amo la dimensione “sonora” di ciò che scrivo, è molto bello, in parte perché mi piace fare i reading, in parte perché mi dà un enorme riscontro rispetto all’efficacia del mio lavoro.
E qui viene la parte che riguarda la scrittura: sicuramente quello che scrivo e come lo scrivo è l’altra componente che spinge all’acquisto dei libri. Questa parte la affronto nella prossima risposta.

    

Ti hanno mai accusato di strizzare troppo l’occhio al pubblico?

No, non apertamente, ma so bene che la mia scrittura si presta a questo tipo di “accusa”, tuttavia la sento infondata.
Io credo fondamentalmente di utilizzare una scrittura semplice e comprensibile, che riesce perciò ad arrivare anche a persone che magari non hanno tutta questa dimestichezza con il linguaggio poetico (allargando in questo modo i potenziali lettori, per riagganciarmi alla domanda precedente). Credo inoltre di parlare di cose in cui anche altri si possono rispecchiare e cerco di farlo in una maniera onesta e con un linguaggio interessante (interessante per me, innanzitutto, che vuol dire lavorare – e molto – sul linguaggio). Ovviamente non è un’operazione studiata a tavolino “per strizzare l’occhio al pubblico”, non mi sono mai detta: sii semplice, onesta, usa una lingua interessante. Posto che io riesca a esserlo, questo è semplicemente il mio modo di scrivere. Ho fatto a lungo le prove di voce (e tutt’ora le faccio, scrivendo), ho letto e scritto tanto, leggo e scrivo tanto, quanto più posso, mi faccio tante domande, cerco di essere onnivora nelle letture, cerco di essere aperta, cerco di non essere noiosa – questo sì, ma mi pare una forma di rispetto per i lettori non una strizzatina d’occhio -, mi metto tanto ma tanto in discussione ma cerco di dirmi chi sono, qual è la direzione della mia scrittura, sono desolata di non essere colta quanto vorrei, di non essere in possesso di una struttura che regga bene le cose che ho letto e ingurgitato in questi anni così che mi pare sempre di sapere meno di quanto so (ma da quando ho letto ciò che scriveva una stupenda scrittrice come Natalia Ginzburg a proposito di questo problema, ho un po’ fatto pace con me stessa). Quello che ne è venuto fuori, da tutto questo lavorio, è questa mia scrittura. E se strizza l’occhio è perché è per vivacità e non per calcolo.

    

Quando e come la poesia ti ha chiamato?

Mi ha chiamato dai libri degli altri. Guarda, diceva – e lo diceva in un modo bellissimo – questa roba qui ti riguarda. Mi ricordo certe poesie di Anna Achmatova che leggevo come un mantra. Passavo da lei a Allen Ginzberg, a Luzi, per dirti quanto erano eterogenee le mie letture.
Intanto, ero adolescente, ho fatto come tutti, ho scritto brutte poesie. Ho smesso verso i diciott’anni.
Poi a venticinque ho incrociato le americane, Anne Sexton, Sylvia Plath la cosiddetta confessional poetry, soprattutto anglofona (ma, in traduzione), e, non so, mi si è attivato qualcosa. Sicuramente in quel periodo io dovevo capire chi ero. Avevo una questione identitaria molto forte e molto aperta, direi sanguinante. La scrittura poetica mi ha aiutata, mi ha aiutata a costruirmi, mi ha permesso di parlare con gli altri. Attraverso la confessione sono entrata maggiormente dentro il linguaggio della poesia, che poi ho esplorato, mi è piaciuto, ho continuato.

    

Ti senti debitrice nei confronti di alcuni poeti?

Certo, come dicevo, sono debitrice alle americane di cui sopra, ho letto e riletto l’antologia enaudiana Nuovi poeti americani, ma anche, fra gli italiani, Patrizia Cavalli e Vivian Lamarque, poi Wisława Szymborska, Aldo Nove, ad esempio e non solo, e poi i versi delle canzoni dei Massimo Volume, i Marlene Kuntz, Cristina Donà, i Csi, i cantautori, ma sono debitrice anche al teatro contemporaneo e alla poesia dei miei coetanei, poeti e amici che ho incrociato in questi anni.

    

Nelle tue poesie si avverte una grande curiosità per il mondo, e anche una grande disponibilità
 ad amare, viene il sospetto che non sia sincero il tuo verso: “Non ho un animo gentile”.

Sono totalmente rude verso me stessa, la poesia che citi parla di questo. Mi sgrido e mi critico molto, purtroppo. Per fortuna esistono gli altri. E il senso dell’umorismo.

    

Si direbbe anche che la tua infanzia sia stata passabilmente felice.

La mia infanzia è stata scandalosamente felice. Sono stata amata e la mia curiosità e voglia di imparare nutrita, igrassata e pasciuta. Ho avuto tanti libri, in casa mia hanno circolato tante persone “strane”, sono stata portata in giro, mia nonna faceva la rana, mio nonno ci faceva costruire strani oggetti nel suo antro e l’altro faceva i versi degli uccelli, mio padre ci ha fatto credere per anni che un armadio di casa fosse magico, mia mamma ha sempre guardato con curiosità e divertimento a tutte le nostre fasi di vita. Per questo non li ringrazierò mai abbastanza. Uscire da un’infanzia così è stato un incubo e per questo mi tengo stretta la voglia di giocare.

                   

Frida Kahlo Ritratto di Lucha Maria, bimba tehuacana 1942 in apertura La sposa che si spaventa vedendo la vita aperta 1943
Frida Kahlo Ritratto di Lucha Maria, bimba tehuacana 1942 in apertura La sposa che si spaventa vedendo la vita aperta 1943

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