Intervista a Ana Luisa Amaral a cura di Anna Belozorovitch.
Ana Luisa Amaral è una delle più importanti voci poetiche portoghesi. Nata a Lisbona nel 1956, vive a Leça da Palmeira, al nord del Paese. È professore associato all’Università Letras di Porto, ateneo dove ha conseguito un Dottorato di ricerca sulla poesia di Emily Dickinson. Le sue aree di studio sono la Poesia Comparata, gli Studi Femministi e la Teoria Queer.
Ha pubblicato sedici libri di poesia, oltre a numerosi libri per l’infanzia, prosa e teatro. Suoi testi sono stati tradotti in Francia, Brasile, Svezia, Olanda, Venezuela, Italia, Colombia, Argentina, Spagna, Messico, Germania. Ha tradotto verso il portoghese Emily Dickinson, John Updike, Patricia Highsmith, Shakepeare.
In Italia, sono uscite Poesie, trad. Livia Apa, (Instituto Camões, 2008), La Genesi dell’Amore, trad. Piero Ceccucci, (Firenze University Press, 2009), La Scala di Giacobbe: Poesia di Ana Luísa Amaral, trad. Livia Apa, (Manni Editori, 2010). In prossima uscita la raccolta Voce, trad. Livia Apa e Chiara DiLucca, (Kolibris, 2015).
Seguita in altro articolo dal poemetto inedito “Galileo, la sua torre e altre rotazioni” tradotto da Livia Apa, qui si propone un’intervista con l’autrice. L’intervista si è svolta sotto forma di conversazione registrata e successivamente editata. AB
Come ha cominciato a scrivere?
Ho cominciato a scrivere nel momento in cui ho imparato a scrivere.
Anzi, ancora non sapevo scrivere e ho sentito la parola outrora [già, un tempo]. Credo di aver cominciato in quel momento. Avevo circa quattro anni e dissi a mia madre: “Sta arrivando, sta arrivando” e non sapevo cosa stessi arrivando. Poi dissi: “Outono, chegou o outono, as folhas que outrora foram verdes e belas, hoje sao amarelas”. [L’autunno, è arrivato l’autunno. Le foglie che già furono verdi e belle, oggi sono gialle]. Questo non è nulla, avevo cinque anni. Ma credo che la musicalità sia stata sempre molto importante per la mia poesia.
Poi, ho fatto una scuola di suore e ho passato una fase molto mistica, attorno ai quindici anni. Scrivevo poesie mistiche. Le suore mi chiedevano poesie, dicevano “Scrivici una poesia alla Madonna” – non l’ho mai detto in un’intervista! – e gliele componevo.
Un’altra cosa importante, è la memoria che ho per la poesia. Conosco moltissima poesia a memoria, e conosco quasi tutte le mie poesie a memoria. Quando ero bambina, non era obbligatorio mettere la cintura di sicurezza in macchina. E io, quando andavo con i miei genitori, mi sedevo dietro e mi giravo verso la strada per vedere le macchine e salutare le persone. Mi piaceva guardare le targhe, le memorizzavo ascoltando la loro musicalità. A scuola ho imparato a memoria anche la Storia – al tempo del fascismo, Storia significava imparare a memoria – componendo poesie, su melodie conosciute. È una cosa piuttosto bizzarra. Ho imparato a memoria le basi dell’Antichità, del Medioevo, dell’età contemporanea con Strangers in the Night. Facevo rime.
Quindi, come ho cominciato a scrivere? In questo modo molto… come spiegare, carnale. Perché io credo che la poesia appartenga al mondo. Noi siamo corpo. Tutto è parte del mondo: il nostro corpo e le cose che ci circondano. E la poesia è per me la forma più economica e più bella di tradurre queste cose.
Quale è stato invece il Suo primo incontro con la poesia?
A scuola avevo imparato a memoria una poesia che si chiama O passeio de Santo Antonio di Augusto Gil, che allora andava molto di moda perché era un poeta legato al regime, e credo che proprio la cadenza di quella poesia mi abbia incantato. Poi, a nove anni circa, ho letto un libro che è stato per me una rivelazione: O cavaleiro da Dinamarca, di Sophia de Mello Breyner. È un racconto per ragazzi, ma è tra i testi più belli che io conosca. Ho letto il libro e mi è venuta la febbre a quaranta. L’ho sentito davvero nel mio corpo.
Emily Dickinson diceva: “Se leggo un libro e mi sento gelare in tutto il corpo così che nessun fuoco mi può scaldare, allora so che quella è poesia”. Ecco, nel mio caso non lo ha reso freddo… anzi sì, perché con quaranta gradi si hanno i brividi! Quella lettura è stata per me un’esperienza sconvolgente.
Mi piacerebbe che mi raccontasse qualcosa della realtà portoghese. Come se la passa la poesia in Portogallo? Esistono lettori di poesia e chi sono?
Siamo un Paese dove, nonostante la crisi, si pubblica moltissima poesia. Naturalmente molte pubblicazioni sono fatte da case editrici piccole o a cura degli stessi autori, ma si pubblica molto. Abbiamo anche quel modo di dire, “Il Portogallo è una Nazione di poeti”, che viene utilizzato nella politica, in senso dispregiativo. I miei libri escono con una buona tiratura, 2000 copie. Vozes [Dom Quixote, 2011] è alla terza edizione.
Quanto al pubblico, direi che ce ne sono vari. In primo luogo, i critici. Non vado in ordine di importanza, i critici non sono i più importanti. Perché la critica spesso – come docente di letteratura lo dico per esperienza diretta – ha il problema di costruire la teoria prima della poesia. Si mettono le cose in cassetti e quando qualcosa non entra, resta fuori. Credo che all’inizio mi sia successo proprio questo. Quando è uscito il mio primo libro Minha Senhora de Quê [Fora do Texto, 1990], molte delle risposte sono state positive, ma io, da parte mia, avevo esitato moltissimo, perché pensavo: o questo che faccio è molto diverso oppure è molto cattivo. Non mi riconoscevo in nulla di quello che vedevo attorno.
C’è poi un pubblico che chiamerei anonimo, di persone che vanno alle letture, alle presentazioni dei miei libri, e che io non conosco. Possono essere studenti, professori, persone abituate a leggere poesie o perché piace o perché devono. Questo pubblico è capace di comprendere in maniera diversa la poesia e devo dire che è abbastanza vasto.
Poi, c’è il mio pubblico preferito: sono le persone che non hanno l’abitudine di leggere poesia. Un libro di poesie costa attorno a 12 euro: per 12 euro si compra un romanzo tascabile. E nel romanzo c’è molto più da leggere! In vacanza dura di più! Ma questo terzo pubblico a un certo punto incrocia il secondo. A me è capitato, una volta, che una donna che mi avesse detto: “Quella sua poesia mi ha salvato la vita”. È una poesia che inizia con “De pè, sobre o abismo / e nao morrì” [1] [trad. dell’intervistatrice: “In piedi, sull’abisso / e non sono morta”]. Non mi ha spiegato cosa intendesse. Ma io so che quando leggo una poesia la faccio diventare mia. Quando qualcuno legge la mia poesia, cessa di essere mia e appartiene alla persona che legge. E questo pubblico, in Portogallo, esiste, ed esiste sempre più spesso.
Ora ci sono i giovani che cominciano ad apprezzare la poesia. Io credo che c’entri la crisi. Nei caffè, nei locali, si vedono persone che leggono, gruppi che si incontrano. È come se in questo momento il bello diventasse necessario. L’arte è necessaria per resistere, per combattere questo mondo di numeri e di neoliberismo in cui viviamo. La poesia è sempre un tentativo di dare un ordine diverso alle cose. È la quintessenza della resistenza. Persino quando è lirica. Proprio perché è lirica. Perché possiamo dire “Non serve a niente” e non serve: con una poesia non costruisci un tavolo. Ma può muovere, in due direzioni: nel senso di commuovere e nel senso di far agire.
Qualsiasi editore direbbe che vende più romanzi che libri di poesia. La poesia è sempre meno soggetta alle leggi del mercato. Ma meno male! Perché è più libera.
Cosa significa essere donna e poeta per lei? È un dato che ha rilevanza oggi?
Sa, io insegno studi femministi. E quando faccio l’introduzione al corso, una delle domande che faccio è: “Ditemi nomi di poeti uomini”. Loro ne nominano moltissimi. Dopo due minuti li interrompo e chiedo nomi di donne. E si fermano molto presto.
In effetti le donne sono arrivate tardi alla poesia, alla letteratura in generale. Se vogliamo, sono arrivate tardi al simbolico. La Storia della letteratura in Portogallo inizia da Florbela Espanca. E poi, grazie a Paula Mourão, che ha raccolto e curato le sue poesie, Irene Lisboa, contemporanea di Florbela Espanca. Dopo, Natalia Correia, Sophia de Mello Breyner. Quel che è curioso è che Sophia avesse sempre parlato al maschile: “il poeta” per lei è sempre un uomo. Sophia, come Fiamma Hasse Pais Brandão, che è stata mia cara amica, non voleva che la sua poesia venisse connotata come poesia di donna, men che meno con un’idea di femminile.
In Portogallo si discute mai se siano “poetesse” o “poeti / poete”, [in portoghese il plurale di “poeta” è uguale al maschile e al femminile; una differenziazione è possibile grazie all’articolo] le donne che scrivono poesia?
C’è stato un periodo in cui questa questione mi preoccupava molto. Nella mia tesi di dottorato chiamavo Emily Dickinson “la donna poeta”. Ora non mi importa niente. La grande questione è che il portoghese, come l’italiano, a differenza dell’inglese, è una lingua più marcata e per questa ragione più aperta. Poetisa [poetessa] non è una parola formata a partire da “poeta”, no, viene da più lontano. Mentre poetess, in inglese, è davvero “poet” più “ess”. A nessuno verrebbe in mente di dire “poetess” in inglese, mentre in italiano si può dire “la poetessa”, “poetisa” in portoghese.
La questione è di tipo culturale, storico, sociale. È una parola che ha sminuito le donne. Per qualche ragione, Jorge de Sena, quando traduce Emiliy Dickinson in portoghese per la prima volta, ne parla come di “un grande poeta”. Non usa nemmeno l’articolo femminile, perché sa che grammaticalmente è sbagliato. Per qualche ragione, il nostro Teixeira de Pascoaes ha affermato: “Antonio Nobre è la nostra migliore poetessa”. Questo è stato un modo orribile di denigrare, di sminuire Antonio Nobre. Voleva dire che la sua poesia sfiorava tematiche simili a quelle delle donne – perché Nobre utilizzava molti diminutivi, ha scritto della casa, del camino, della famiglia – e si riferiva alle voci che correvano sulla sua omosessualità.
Più che chiedermi cosa sia la scrittura femminile, a me interessa invece pensare a quali siano i meccanismi di oppressione, di disuguaglianza, di discriminazione che ha sofferto metà della specie umana. E, all’interno di questa metà, quella parte che scrive poesia.
La stessa lingua non è libera da questo problema. Se io voglio affermare che nella seconda metà del XX secolo in Portogallo Maria Velho da Costa è il miglior romanziere che ci sia, posso dire “è il nostro miglior romanziere”, ma è sbagliato; posso dire “è la nostra migliore romanziera” ma non è ciò che intendo perché in questo modo escludo gli uomini. Devo fare un giro di parole.
Che significa essere donna e poeta, in Portogallo? Sa, stare nella pelle, parlare da dentro la pelle, è sempre complicato. Io so che per qualche ragione il filosofo americano Emerson scrisse a proposito della poesia un saggio intitolato Self-Reliance. E so che self-reliance è stato qualcosa – per quanto sembri ridicolo – che sempre è mancato alle donne più che agli uomini. Nonostante i poeti non siano mai stati padroni di nulla e nonostante siano sempre stati ai margini, le donne si trovano ai margini dei margini. Una poeta come Maria Teresa Horta, che per prima ha scritto sul desiderio femminile, per il semplice fatto di parlare dei genitali in maniera esplicita è diventata oggetto di burla. Autori uomini lo fanno senza difficoltà e a nessuno viene in mente di punzecchiarli. Joana Espain, poetessa giovane, è stata mia alunna nei corsi di scrittura creativa ed è arrivata con molta vergogna di scrivere. Parliamo di una persona che ha un dottorato in materia oscura, fisica teorica. L’accesso allo spazio pubblico dal punto di vista professionale, per le donne, è già più o meno conquistato. Il problema è che la poesia si muove tra pubblico e privato. È qualcosa di intimo, personale, ma che per vivere ha bisogno di comunicazione. Perché passa sempre attraverso lo sguardo soggettivo dell’altro.
Io ancora non ho sentito una poetessa, con un libro pubblicato, parlare di “la mia opera”. Ma invece ho sentito molti giovani ragazzi di vent’anni dire “la mia opera”. Io mi vergogno di dire “la mia opera”! L’opera è di Sophia, di Herberto Helder… Quindi credo che la società fallocentrica ancora esista, che lo vogliamo o no. Non ho mai sentito un uomo dire “Mia moglie/compagna/fidanzata è meravigliosa perché fa un sacco di cose in casa”. Invece sento spesso: “Mio marito è fantastico. Mi aiuta, passa l’aspirapolvere, stira, ecc.”. Mi aiuta!
Il mio primo libro, del 1990, Minha Senhora de Quê, ha a che fare anche con questo. I ruoli sociali non sono cambiati quanto avrebbero dovuto. E dovrebbero. Ma per cambiare i ruoli dovrebbe cambiare il sistema. Per cambiare il sistema dovrebbe aver luogo una rivoluzione. Io credo. E nel mentre non possiamo fare rivoluzioni politiche, facciamone di poetiche.
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[1] Da Epopeias, Fora do Texto, 1994.
la faccenda relativa al genere, femminile o maschile, da adottarsi per le donne poeta, ma anche per altre inclinazioni, o professioni, è, ormai, mi pare, meno rilevante, essendo le donne entrate in molte professioni e ruoli. Trovo più squalificante, per le donne, volersi qualificare al maschile, io non l’ho mai fatto, è sbagliato grammaticamente, e anche concettualmente, diventa una caricatura. Poeta, va bene in entrambi i sessi, ma ci vuole l’articolo, un poeta, oppure si può dire – una poeta- ? Però è vero che è brutto sentire – ministra – , – assessora, avvocata, mentre si potrebbe dire avvocatessa, che male c’è? La versione al femminile di professioni inventate al solo maschile.
essa: l’es-sa e non lessa, come la gallina di natale, come si vorrebbe spesso divorare la parola e specialmente quella nata dall’uovo di poesia covato dalle donne. A lungo covato, amato quell’uovo si è fatto la nostra specie, il nostro specchio comune è l’essere, che può farsi o femmina o maschio o entrambi.
Cercherò i suoi libri, non la conoscevo ma molto condivido del suo pensiero. Grazie, ferni