Intervista a Claudia Fabris, la “cameriera di poesia”, a cura di Paolo Polvani.
Chi è la cameriera di poesia?
La Cameriera di Poesia è una performance che ho creato nel 2011, una ristorAzione dello spirito, in cui servo in cuffia agli ospiti i testi poetici che scelgono dal menù proposto.
Come nel menù di un ristorante ci sono antipasti, piatti, piatti unici, dolci (i dolci sono cantati) e alla fine il vocabolario, un elenco di parole di cui si può ascoltare la definizione tratta dal mio vocabolario poetico Parole sotto Sale.
Ogni sezione è composta da piatti della casa, che ho scritto io, classici e contemporanei.
Il pasto è comunitario, ciò che ordina il singolo verrà ascoltato anche dagli altri.
L’esperienza dura circa un’ora e tutto viene servito dal vivo, attraverso una postazione microfono-computer-mixer e un trasmettore per le cuffie wireless.
Cerco di creare ogni volta l’ambiente più comodo e intimo possibile, così che i miei ospiti possano godere al meglio dell’esperienza; l’ideale è stendersi, rilasciare ogni tensione del corpo, magari contemplando cielo e stelle, come è accaduto in qualche terrazza delle masserie in puglia o in riva al mare in Croazia; chiudere gli occhi, ovunque ci si trovi.
A Napoli, al teatro della città della scienza, avevo fatto salire il pubblico sul palcoscenico allestito con cuscini, materassi e una piccola tenda.
La prima risale al 2011, per la rassegna di Tam Teatromusica a Padova con 3 cuffie, una per me e due per gli ospiti, su un letto matrimoniale di velluto rosso, un’esperienza per coppie provvisorie.
Ora sono arrivata a 50 cuffie e lo faccio ovunque, dai teatri alle case private, dalle scuole ai parchi, ai musei, alle piazze alle chiese.
Com’è nata l’idea delle cene di poesia?
È stata una gestazione lunga, a tappe.
La prima fu uno spettacolo sulla poesia della Galizia commissionato dall’Università di Padova anni fa. All’ennesima replica abbiamo deciso di abbandonare la struttura frontale attori-pubblico e abbiamo allestito un’osteria sul palcoscenico: il pubblico sedeva ai tavoli, noi eravamo vestiti da camerieri, sulle tovagliette erano stampate le poesie e gli ospiti le ordinavano cosa ascoltare e tra un servizio e l’altro di poesie offrivamo da bere e da mangiare.
Ho fatto la cameriera, quella vera, per anni ed era un lavoro che mi piaceva molto perchè mi dava la possibilità di prendermi cura delle persone senza che se ne rendessero conto, nell’unico momento della giornata in cui sono disposte ad abbassare le proprie difese e rilassarsi un poco, mentre mangiano.
Ritrovare il ruolo della cameriera in teatro, dopo anni, mi ha ricordato quanto mi venisse naturale e mi piacesse. Semplificai la struttura del lavoro fino ad arrivare all’essenza: un menù da cui gli ospiti potevano ordinare cosa ascoltare.
Quando mi venne, anni dopo, l’idea di utilizzare le cuffie wireless come dispositivo, compresi che era giunto il momento di realizzare la performance, perchè con le cuffie avevo finalmente trovato lo strumento per far provare ad altri lo stupore che provo quando leggo alcuni testi, quando le parole, messe nella disposizione perfetta, reagiscono come fossero elementi chimici e davvero agiscono sulla materia, quasi fossero una formula magica, fanno luce, sono un lampo che ti attraversa la carne con un brivido.
Grazie alle cuffie posso lavorare sulla voce al microfono in maniera molto delicata mettendomi il più possibile al servizio delle parole, facendomi attraversare, non interpretandole, ma piuttosto lasciandomi suonare, esattamente come fossi uno strumento musicale. Sono una cameriera a doppio servizio, dei clienti e delle parole.
Cibo e poesia: un connubio certamente consapevole, puoi raccontarci da dove viene?
Ho un rapporto molto intenso con il cibo, sono cuoca appassionata e una buonaforchetta.
L’ho lungamente utilizzato nelle mie performance e installazioni d’arte.
All’inaugurazione de “La via lattea”, prima personale di fotografia nel 2003, ero quasi più orgogliosa dell’installazione di cibo che avevo allestito, che della mostra in sè.
Al centro della galleria campeggiava una tavola nuziale lunga sei metri con 100 budini bianchi, 100 calici di cristallo differenti, una grande coppa di panna (pochi minuti prima dell’inaugurazione ancora la montavo), una grande coppa di fragole ed un cestino di vetro antico pieno di zucchero; non si beveva vino ma quattro tipi di latte differente. Accanto ad ogni budino c’era il titolo di una fotografia esposta e i visitatori erano invitati a prendere un budino e mangiarlo guardando la fotografia corrispondente, per vedere se si innescasse qualche cortocircuito sinestetico tra gli occhi e la lingua (il cuore della mostra erano nudi femminili immersi nel latte stampati in bianco e nero).
Detto questo, da quando il cibo è divenuto la seduzione inevitabile, onnipresente e mondana, per agganciare l’attenzione e l’interesse degli esseri umani, ho iniziato ad allontanarmene e nella Cameriera di Poesia l’ho tenuto volutamente e accuratamente a distanza, nonostante le molteplici offerte.
Le parole sono il cibo, ci nutrono costantemente e informano la nostra narrazione del mondo, creandolo costantemente nei nostri occhi. Attraverso questa performance mi piace pensare che regalo alle persone la possibilità di farne esperienza, di sperimentare e ricordare la potenza della parola. La parola poesia deriva da un verbo greco che significa creare, agire. In Inglese parola è word che si pronuncia allo stesso modo di world – il mondo – e spell è l’incantesimo, il sortilegio e contemporaneamente un modo particolare di pronunciare le parole una lettera alla volta. Nella Bibbia Dio ha creato il mondo parlando ed il suo Verbo sembra essere la sua manifestazione più potente e diretta. E se le parole davvero fossero mondi? E se il mondo fosse davvero stato creato parlando? E se le parole che usiamo generassero continuamente a nostra insaputa mondi in un luogo a noi invisibile? in un al d là dei nostri sensi? Allora gli architetti e gli ingegneri da cui imparare e a cui chiedere consiglio sarebbero davvero i poeti e le parole sarebbero il nutrimento più prezioso.
Metterei volentieri la performance in relazione al cibo nella costruzione di un percorso in cui ascolto e gusto si fondessero in un’esperienza unica, costruita ad hoc, cosicché le parole ascoltate potessero trasformare anche l’esperienza del gusto, nei modi, nei tempi e forse anche nei sapori. Per questo dovrò fare un progetto con uno chef e scrivere un menù a quattro mani in grado di risuonare come in un passo a due, tra la lingua e l’orecchio.
E’ un progetto per il futuro.
Nei tuoi menù presenti poeti classici, contemporanei e tue creazioni, si tratta di ingredienti che risvegliano un interesse nei confronti della poesia?
Io non sono propriamente una studiosa, sono un’amante. Nei menù metto i testi che ho incontrato nella mia vita e per qualche motivo mi hanno fatta innamorare, con cui sono entrata in risonanza. Non potrei dirlo in altro modo, non c’è un ragionamento razionale, c’è un sentire e una trama di incontri, è del tutto arbitrario, ovviamente, e raccolgo sempre stimoli nuovi, i menù sono in costante mutamento. Per esempio da un paio d’anni c’è una nuova sezione del menù fatta di suoni che inserisco di tanto in tanto tra un testo e un altro, perchè anche i suoni sono poesia e perchè la mente ha bisogno di respirare: troppe parole, anche se bellissime, la intasano.
Sono suoni che registro vivendo, ho sempre con me un piccolo registratore digitale e quando ascolto un suono che mi incuriosisce e mi emoziona, che sia il mare, un ruscello, un animale, un uomo, il vento… lo registro e lo inserisco nel menù.
Di recente ho inziato a registrare anche alcuni poeti dialettali, perchè percorrendo in lungo e in largo questo nostro paese mi acccorgo di quanto i suoni della nostra lingua siano una declinazione della terra, di come cambino spostandosi di pochi chilometri e di quanto anche questo sia poesia, ascoltare la terra che ci suona come fossimo flauti e canta nelle lingue che parliamo. Durante la performance una parte è composta da ciò che gli ospiti ordinano dal menù, un’altra è a mia discrezione: comprende il vino, il coperto, i suoni, caffè, amari e sgroppini alla fine. La carta dei vini è interamente dedicata a Mariangela Gualtieri, il coperto a Franco Arminio, il resto sono incontri singoli, folgoranti.
A proposito del tuo lavoro, qualcuno ne ha parlato come di “necessario”; anch’io ritengo che una visione della vita affinata dal senso estetico e da valori etici divenga più profonda e partecipe; sta in questo la “necessarietà”?
Conosco la persona che lo ha detto, credo che la necessità si riferisse principalmente alla possibilità di instaurare una relazione intima con la parola e la poesia attraverso un’ esperienza di abbandono all’ascolto, piuttosto rara al giorno d’oggi.
Non stiamo mai nel silenzio e non ascoltiamo quasi mai la parola riverberare nel silenzio, anche a teatro spesso le poesie sono accompagnate da un tappeto sonoro.
Io credo invece che ascoltare la parola che risuona e riverbera nel silenzio, portata da una voce che non pretende di interpretarla ma si lascia attraversare, sia necessario per comprenderne la potenza.
Come dicevo prima, il mondo intero è frutto della narrazione che costantemente ci facciamo su di esso, entrare in intimità con se stessi e con le parole, fare l’esperienza dell’ascolto è scoprire uno stato dell’essere che può poi essere prezioso nella vita di ognuno.
Di questo lavoro la cosa che colpisce l’immaginazione quando lo descrivo è il dispositivo della ristorAzione, mentre quando una persona vive l’esperienza, ciò che la colpisce e ricorda più intensamente è l’abbandono e il grado di rilassamento profondo a cui le parole poetiche, servite in questo particolare modo, la conducono.
Un giovane avvocato siciliano alla fine della performance a Palermo, indossando ancora le cuffie, sorridendo mi disse: Tra le medicine ti dovrebbero mettere!
Ciò che tutti alla fine vogliono raccontarmi – dai bambini, agli adolescenti, agli adulti – è il profondo stato di rilassamento che hanno provato, come se la parola poetica potesse davvero essere pharmakon.
Riporto qui le frasi di due ragazzini delle medie che hanno fatto l’esperienza nella loro scuola a Barletta. “Io non mi sono mai sentito così. Non ero proprio qui, sulla terra, ero altrove, in un luogo mio.” e poi “Entrai in quella stanza con la testa che mi frullava di pensieri. Uscii da quella stanza con un solo pensiero in testa: “ecco cos’è la tranquillità, la pace, la quiete, la serenità. Ecco cosa provano i cani quando corrono in un prato scorrazzando a destra e a manca. Ecco cosa provano i pesci quando nuotano nei vostri oceani. Ecco cosa ho provato io, anzi ecco cosa ho trovato io. Ho trovato me stesso”
Il tuo lavoro nelle scuole restituisce la poesia al suo ambiente naturale, che è la meraviglia, lo stupore; ne traggono spunto gli insegnanti? Credi che la scuola capirà che si tratta del modello didattico giusto?
Ad essere onesta credo dipenda molto dagli insegnanti.
Alcuni insegnanti si sono dimostrati molto interessati e molto curiosi, anche molto grati al termine dell’esperienza. Mi hanno chiesto di inviargli i menù che avevo servito durante la performance per poterci lavorare in seguito con la classe. Hanno lavorato con i ragazzi sulle parole, prendendo spunto dalle Parole sotto sale, il piccolo vocabolario poetico che sto scrivendo dal 2013 e hanno fatto tesoro dall’esperienza.
Altri era evidente che avrebbero avuto bisogno di un piccolo laboratorio preliminare per riuscire ad entrare nello spirito del lavoro.
Mi ha colpito molto quello che è accaduto in una scuola elementare di Corato dove i genitori, stupiti dei racconti dei figli sull’esperienza vissuta a scuola, hanno chiesto alla mestra di potermi incontrare e dopo avermi fatto molte domande, hanno espresso il desiderio di provare loro stessi l’esperienza, cosa che faremo al mio ritorno in Puglia.
Non ho la pretesa di cambiare un modello didattico, ma quel che è certo è che la gran parte degli studenti che fanno quest’esperienza non hanno un gran rapporto con la poesia e alla fine mi manifestano spesso uno stupore che si può ben sintetizzare nella frase: “Non pensavo che la poesia potesse fare quest’effetto”.
Credo che gli insegnanti che sono già sensibili all’ascolto e cercano nuovi modi per far entrare i ragazzi in contatto con la poesia ne trarranno grande ispirazione e quelli che vedono gli alunni come sacchi da riempire di nozioni, la vivranno come un’esperienza interessante, originale, e probabilmente continueranno per la propria strada.
Ho letto che stai preparando nuovi menù: con quale criterio li scegli? come nascono gli abbinamenti?
Il criterio è sempre lo stesso, scelgo solo ciò di cui mi innamoro, i testi che mi smuovono, mi emozionano, mi aprono nuovi scenari. I testi che mi fanno risuonare e mi allargano.
La composizione di un menù invece è un processo più lento e complesso, si arricchisce e si completa lentamente. Un menù per funzionare deve essere un percorso emotivo, che io metto alla prova nel tempo, facendolo e rifacendolo e ogni volta che incontro un testo o un suono che potebbe essere adatto lo inserisco.
Dal giorno della sua creazione so che La Cameriera di Poesia mi accompagnarà per molti anni e continuerà a crescere e a trasformarsi con me. Ho ben chiare molte delle direzioni che può prendere, dei luoghi e dei modi in cui può essere declinata.
L’idea di comporre diversi menù è presente dall’inizio, ora è giunto il momento di metterci mano. Vorrei creare un menù sacro, che raccolga sia testi provenienti da varie tradizioni religiose che testi non propriamente sacri ma in grado di risvegliare il senso del sacro e la relazione con il mondo dello spirito in chi li ascolta; un menù storico-politico, con i discorsi più belli e più brutti fatti nella storia, ma anche testimonianze bizzarre e curiose, riflessioni, specchi del passato in cui rifletterci; un menù geografico, dedicato alla relazione intima tra l’animo umano, la natura e il paesaggio e uno piccante, dedicato all’amore del corpo quando giunge ad infiammare anche l’anima.
Un menù che ho giù approntato, ma non ho mai servito è quello degli incipit, potrebbe essere una sorta di aperitivo, data la sua natura sfiziosa, è composto degli incipit più belli della storia della letteratura (e anche in questo caso la scelta è arbitraria e sempre pronta ad ampliarsi).