Intervista a Cristina Annino

Intervista a Cristina Annino, a cura di Paolo Polvani.

   

   

Ringraziamo Cristina Annino che ci ha concesso un’intervista. In questo stesso numero trovate un articolo con sue poesie edite e inedite. Passiamo subito alle domande.

   

In un bellissimo verso da Ottetto per madre, tu scrivi: …io amo / la mamma e i topi; li metto insieme chissà / perché.
Nei tuoi primi componimenti il gatto rimane defilato, un accessorio nel panorama e nella testa del cane, che pensa “a gatti interminabili / che nella sua azzurra testa / lascino occhi e saliva”. Però finalmente nelle ultime poesie viene fuori il gatto Kokò!
E hai dedicato ai cani versi indimenticabili, e il titolo di un libro: Il cane dei miracoli.

La prima domanda che desideriamo porti è sul rapporto che hai avuto e hai con gli animali, se si è modificato nel tempo, se hai episodi da raccontare.

Vorrei precisare che io preferisco definire “bestie” gli animali, per un recupero anche etimologico del termine e togliere quella sgradevolezza concettuale ritenuta comunemente il più basso grado morale di un essere vivente.

Rispondendo con ordine. Ho unito la mamma ai topi (l’accostamento è venuto inconsciamente, ma possiamo motivarlo, giacché nessuna parola cade in un testo “per caso”), volendo evidenziare che l’accostamento madre-topo, oltre a non privilegiare una sola specie animale, non tiene ovviamente in conto superstizioni più o meno leggendarie.
Per ridare inoltre alla figura materna quella coscienza del regno animale che le apparteneva, per unire, infine, due sfere del sacro. Nell’Ottetto ho ampliamente dimostrato il valore sacro che per me ha avuto ed ha il ricordo mia madre. Non perché faccia miracoli, non perché sia stata priva di errori, ma per come l’ho vissuta per come lei ha vissuto me.
C’erano delle gerarchie tra di noi-questo per me è stato molto importante- un rituale affettivo che ci ha separate dal mondo per costruirne un altro ugualmente ordinato, c’era soprattutto la priorità del sentire sulla ragione. Tra di noi ogni metodo interpretativo del mondo e degli avvenimenti non aveva niente a che fare con la logica genericamente intesa.

Salvando tutte le possibili e immaginabili differenze, io considero gli animali in modo quasi analogo, il che esclude da subito un sentimento egoistico e possessivo nei loro confronti. Amo le bestie perché sono differenti dall’uomo e potremmo, proprio per questo arrivare a una seria collaborazione tra i due (già stiamo vedendo quali risultati di enorme importanza siano stati realizzati fin ora in tutti i campi da tale cooperazione non cruenta) Sarebbe auspicabile che anche quelle specie animali non utili in tal senso, avessero il diritto di vivere nei loro habitat naturali senza essere disturbati dall’ignorante speculazione umana. L’essere umano dovrebbe loro almeno il rispetto timoroso che sempre prova nei confronti dell’opinabile esistenza degli alieni.
Sappiamo che ciò non avviene, sappiamo tutto ed io considero tutto questo che sappiamo uno sfacelo, uno dei più gravi insulti alla dimensione religiosa o allo spiritualismo che ognuno penso dovrebbe mantenere dentro di sé.

Perché li definisco “sacri”? perché penso che essi siano quella parte dell’umanità che, per qualunque motivo, non si è evoluta nel nostro modo. Del resto anche il Sacro non ha evoluzione, non dialoga con tutti noi, non si adegua alle regole mondane, eppure ha tutto il rispetto e la generale credibilità che sappiamo. Dunque io considero le bestie, tutte le bestie indistintamente, come nostri diretti antenati.

Per quanto riguarda gli animali domestici, ne ho avuti parecchi, ma solo in età non infantile ho teorizzato quanto detto sopra. Si può intendere quindi che il mio modo di rapportarmi a loro è cambiato solo in tal senso.

Gli aneddoti da raccontare sarebbero molti, ma cadremmo nel personalismo togliendo importanza al discorso. Sostengo solo che da sempre le bestie avute in casa, hanno costituito il veicolo del mio pensiero, il quale passando attraverso di esse, si allargava, si complicava, arricchendosi. Ciò trova riscontro nella plaquette “Céline” dove parlo della vita e della morte del mio gatto Koko; qui la complicità direi intellettuale tra noi due e lo stimolo a pensare cose che vanno al di là di una semplice convivenza tra uomo e animale, è evidente.

   

Hai affermato che per te scrivere versi è come parlare. Alcuni dicono: corro / semplicemente sulla poesia. E’ il mio cucchiaio / e la bevo, senza di lei, che farei. Che ti ha dato e che ti regala la poesia?

Nel mio caso la poesia è venuta come dici tu, appunto. Ma a parte l’aneddoto personale, salverei il metodo che sottintende. Cioè che per me fare poesia non è sedersi e scrivere pensando alla propria cultura, alla produzione poetica altrui, ecc; in alcuni casi bisogna riflettere molto, certo, sì se si vuol comunicare qualcosa di particolarmente importante ed esterno alla nostra quotidianità. In entrambi i casi comunque, ritengo che sia necessario mantenere una grande umiltà nei confronti della parola, di qualsiasi parola, e far sì che queste non vadano sprecate, non eccedano quello che intendiamo dire.

Mi piace guardare la pagina bianca come se tutto corresse lì, terra e cielo e anche niente, perché anche il Niente corre. Ecco, per dirla sinceramente e con un filo di ironia, credo che la poesia, la nostra poesia, sia già avvenuta prima di noi nel mondo che ci circonda, ha già compreso tutto quel che potremmo pensare noi, e che noi siamo solo specchietti per allodole.

    

Nella poesia Madrid scrivi: -per essere / poeti non si deve mica fare granché. Io lascio che le cose / vengano a me e tutto finalmente si somigli.- Somiglianza come interconnessione? unità ? vicinanza? fusione?

Quando mi colpisce un fatto eccezionale, so che non potrei raccontarlo scrivendone, non sono un giornalista, devo allora usare gli strumenti “del mio mestiere”.
Tale fatto reale – ammettiamo che sia enorme- in poesia, nella mia intendo, assumerà un’autentica rilevanza, tanto più ne abbasserò il livello di linguaggio o l’impatto emotivo. Questo verrà fuori ugualmente, ma secondo la distribuzione delle varie parole e l’uso improprio di esse.

Tutto il mondo sta immerso in un basso livello linguistico, anche la tragedia classica, degli autori classici voglio dire. E’ solo il giornalismo e l’informazione mediatica che facendo della notizia uno scoop deve gonfiare l’accaduto. Ciò che succede nel nostro pianeta, anche il più apparentemente disumano, ha la dimensione mediocre o media, di ognuno di noi. Tutti gli eccessi che ruotano nel nostro universo sono prevedibili come le api in un alveare, dove si uccide, si esclude, si fa giustizia sommaria, ecc. La ragione, per me o per me poeta, rimane sempre al disopra di ciò che accade, e mai diventerà moralismo, cioè superiorità rispetto all’avvenimento stesso. Sarà il racconto che ne faccio, il tipo di esposizione verbale, a generare in chi legge sentimenti più o meno adeguati.
In questo modo intendo che, quando succede qualcosa di spaventoso, se io posso ridurlo a livello di uguaglianza o somiglianza con altri fatti che apparentemente non sono tali, non andrà perduto nessun peso morale dell’accaduto, ma il senso tragico si allargherà anzi in livelli di coscienza sempre maggiori. Come gettare un sasso nello stagno.

    

Senza dubbio sono io il paese più poeta del mondo.- E’ uno di quei versi che si incidono, e da cui è difficile liberarsi. E’ forse questa la funzione della poesia? mostrarci la muta fedeltà di un cane? divenire una viva ossessione?

E’ quello che io chiamo  un “sistema di trazione”. Ogni frase simile a questa non può che spingere la poesia, darle corpo. In effetti la poesia non ha bisogno di molte verità, soprattutto quando l’autore parla in prima persona. A chi vuoi che interessi la vita di chi scrive? Avessi usato il “tu” che evito volontariamente, sarebbe apparsa un’affermazione affettiva, e non avrebbe avuto alcun significato o sarebbe stata una dichiarazione falsa, attribuibile a tutti i poeti, cosa che non penso.

Parlare in prima persona, per il mio modo di concepire il lavoro di poeta, è molto difficile e tollerabile solo in casi di fortissima sentimentalità (vedi Ottetto per madre, anzi l’intero libro “Casa d’Aquila” progettato in tal senso), per il resto l’”io” va trattato in modo scandaloso, eccessivo, ironico. Quando invece parlo dei miei personaggi -che sono quasi sempre reali- allora c’è per me l’obbligo della verità o di una verità che io vi vedo seriamente e che intendo sottoporre all’attenzione di chi legge.

        

Hai scritto che da bambina sognavi molto e raccontavi i tuoi sogni alla mamma. Conservi ancora un’intensa attività onirica?

Sì, la conservo ancora, come penso succeda a molti, ma adesso ciò avviene dopo momenti di lavoro intenso o come risposta a stress di qualunque genere. Mi rimane, per breve tempo, il ricordo anche di immagini suggestive, ma anche questo è naturale, dal momento che, dipingendo, ho ovviamente arricchito il mio quoziente onirico. Il sogno ha inoltre la qualità di una leggerissima droga, esalta cioè a dismisura ciò che contiene, nel bene e nel male, nell’incubo o nel sogno felice. Credo che se trascrivessi, ricordandomele, quelle parole o ridipingessi le immagini sognate, avrei dei prodotti molto scadenti.

    

Tu pensi che la poesia abbia una funzione sociale?

Se fosse letta, se diffusa quindi di più, se pubblicata e distribuita degnamente, potrebbe avere un impatto sociale anche in un paese come il nostro. La poesia non è una merce, non è un manufatto, quindi i libri di poesia per essere venduti, dovrebbero entrare nel mercato. In questo caso, nel mercato della scrittura a pari merito della narrativa, libri gialli, ecc. Ma come possono diventare di mercato se il primo nemico della poesia è colui che potrebbe fare questo grande cambiamento culturale? cioè l’editore importante. Lui pubblica per la maggior parte testi poetici scadenti che non reggeranno oltre l’anno di pubblicazione e non perché sia stupido, perché sa che i libri di poesia non vendono… e così il serpente si morde la coda. Ci vorrebbe, oltre a una vera selezione in campo editoriale, anche un cambiamento nell’ambito della scuola. La poesia italiana non dovrebbe terminare con i grandi del novecento, ma introdurre anche poeti viventi validi. Il discorso sarebbe lungo e forse è solo un discorso squallidamente economico, ma certa è una cosa: che non si fa e non si legge poesia fuori dalla storia e la poesia inoltre permetterebbe, grazie alla sua inesauribile potenza di linguaggio, di attraversare (senza consumarsi perché appunto non è una merce, né soggetta a variabili interessi di utilità quotidiana) passaggi storici ulteriori, riuscendo a influenzare il pensiero di chi per adesso è molto distante da noi.

    

Infine, poichè il tema di questo mese di Versante Ripido è “i nuovi luoghi della contemporaneità” ti poniamo una domanda attinente. Tu delinei prevalentemente paesaggi urbani, che rapporto hai con il paesaggio?

Dipende dal paesaggio, dipende se con questo sostantivo intendi il sole al tramonto o la vista del mare, di montagne, campagna ecc. Dipende da quanto tempo dovrei guardarlo o rimanerci dentro…Se invece parli di paesaggio come espressione solo naturale, per intenderci, beh, allora ce ne sono alcuni che, solo standoci davanti, ho l’idea di tuffarmi fuori dalla terra. Sembrerebbe il contrario, ma è questa la sensazione. Mi procurano grandi emozioni, certo, ma non per lungo tempo e, dovendo scegliere, preferisco vivere dentro il paesaggio urbano. Questo mi immette in una dimensione meno ripetitiva (niente è più ripetitivo del bello, figuriamoci quello assoluto perché immobile) e di conseguenza più attiva, immediata e personale. Inoltre, amo gli ambienti sciupati, corrotti, li trovo più significativi e anche più consolatori, non mi mettono in crisi, mi liberano da quel senso di solitudine direi negativa che forse tutti abbiamo dentro e che i “paesaggi” tirano fuori però a senso unico, dando l’idea di succhiarti. Cosa potrei mai scrivere davanti a un oceano o a delle montagne? Perderei ogni creatività cadendo nell’imitazione.

Credo anche che una certa dimensione di paesaggio naturale esista dovunque, città, paesi, e qualsiasi individuo l’abbia da sempre dentro di sé e addirittura la simbolizzi o la usi incosciamente come parte del proprio corpo.

Nel mio caso lo testimonia il libro “Madrid” dove si trovano poesie nelle quali i due mondi paesaggistici si sovrappongono, si confondono, ma sempre uno di supporto all’altro. Ci sono poesie nelle quali alcune case hanno pareti sottili attraverso le quali possono entrare palme, tramonti o albe, persino la vastità del mare, corridoi che diventano strade, ecc. Ho reso vegetali strutture che avvertivo appartenere già meno all’uomo, nella misura in questo perdeva un po’ del suo senso umanistico. In situazioni, mi spiego, dove la solitudine, la disperazione o un qualunque disagio, veniva compensata da una confusione tra due immagini, una ormai fuori dalla sua storia personale e una realtà vissuta al momento.

In altre poesie troviamo che il paesaggio urbano fagocita, ingoia addirittura se stesso: come se le case si spalancassero per far entrare le strade e anche i bar, i grandi supermercati. Quasi che le case diventassero infinite, imitando la prospettiva che si ha guardando la città da un punto di vista fermo. Ma non solo in “Madrid”, in altri testi anche più attuali o più vecchi, sebbene in maniera più moderata, si può leggere questa contaminazione architettonico-paesaggistica.

Del resto, e lungi dal voler far passare per totale la mia auto proiezione, mi sembra di notare che certi ceti sociali, gradualmente stiano perdendo il senso della casa come centro chiuso. La gente, ripeto, negli ampi centri urbani, mi sembra molto più casalinga in un luogo qualunque di aggregazione che non dentro le proprie stanze. Devo comunque precisare che io da sempre guardo tutto in maniera passiva, cioè non riflessiva, non mediata da alcun pensiero estraneo alle mie sensazioni immediate.

                 

Cosimo Mauro, "Vertigo" - in apertura "Vertebrate"
Cosimo Mauro, “Vertigo” – in apertura “Vertebrate”

7 thoughts on “Intervista a Cristina Annino”

  1. Freschezza di pensiero che alterna lucidità quasi astratta (“niente è più ripetitivo del bello, figuriamoci quello assoluto perché immobile”) a verità bieca detta fuori dai denti (“il primo nemico della poesia è colui che potrebbe fare questo grande cambiamento culturale? cioè l’editore importante”). Com’è raro trovare un poeta che anche quando parla della poesia non scada in luoghi comuni e non minimizzi. Qui la grandezza del mondo e la sua mediocrità trovano il corrispettivo prosastico di 40 anni di testi intatti e vorremmo dire eterni. Se non fosse che finiranno anche loro col sistema solare e tutto il resto tra qualche bilione d’anni. Ma ne siamo poi così sicuri? Io se potessi decidere cosa portarmi via quando scapperemo dalla Terra verso altre galassie questi libri di Annino me lo porterei tutti, altro che Bibbia. Assieme alle bestie s’intende. L’Arca di Annino.

  2. “la poesia di Cristina Annino è orchestrazione complessa in cui prevale di volta in volta qualche strumento d’assolo, toni che vanno dalle note profonde a quelle altissime, con la spericolatezza del funambolo.
    L’impressione che se ne riporta è un lungo rintoccare dentro, come se si sguinzagliassero le immagini del suo mondo real-visionario, e non è un paradosso, visto che ci si sente attratti dal susseguirsi dei contraccolpi, in equilibrio sempre, però, nell’eleganza di partiture audaci, per sola parola e capoverso.

    La sua poesia travolge, anche conduce, e non se ne vorrebbe uscire.”
    c.b.

  3. Da quando leggo le parole di Cristina Annino (ecco, lei preferirà forse questo approccio), o da quando ho incontrato il suo pensiero-scritto, un tantino è cambiato il mio modo di leggere – debbo nominarla – la poesia – e vi aggiungerei, anche – italiana. Ha ragione lei, quando dice che ogni persona che scrive, che poi magari sarà un poeta, dovrebbe avere “da offrire” uno scrivere nuovo. Con l’umiltà e il rispetto nei confronti di ogni parola, che tutte servono, dalle meno altisonanti alle più “regali” – insomma credo che di belle poesie con belle parole il mondo sia davvero davvero tanto abitato, anche commosso, premiato, a tratti anche ammutolito, o, viceversa, le parole “belle” delle cosiddette poesie belle fanno davvero un rumore niente affatto singolare, certo, comune al “sentire” della maggioranza – però il sentire di ciascuno molto spesso va “portato” anche con dei mezzi che, a mio avviso, potrebbero anzi dovrebbero essere “altri”, che rispecchino la visione di chi decida di esporla (la propria visione, le proprie visioni). Probabilmente ogni libro di poesia dovrebbe essere un luogo molto vasto in cui non succede un granché, ma quel “non-granché” dovrebbe riuscire a far “dimenticare” quella vastità per arricchire una piccola abitazione di mondo, e mondo si sa, da che “lui è”, sa essere variegato in differenti forme e sostanze. Saluti, Giampaolo

  4. Ascoltare questa conversazione con Cristina Annino è partecipare a un dialogo a bassa voce, dal tono intimo e fermo, come una serie di rivelazioni che (tutte) portano a formare una eredità etico- poetica (o testamento spirituale) che tutti dovremmo,ma che qualche autore ci lascia: giorno dopo giorno, come traccia, come la saliva dei gatti che è scia celeste probabilmente, una via sapienziale dal più che terrestre dove stiamo..Sono i nostri diretti antenati, dice all ‘inizio, e si parla molto di questa dimensione religiosa, pre- umana del nostro essere uomini che si è diversamente si è evoluta. Un incipit. del suo raccontarsi.
    E dopo, c’è il foglio bianco dove corre lo spazio tra cielo e terra ( il Nulla ) nella scrittura che verrà.. Poi, ci sono tanti quadri; sui sogni, sula madre, sulle città con cui si conclude il pezzo, Perché certamente è tutta un bellissimo pezzo di narrazione poetica, questa intervista.: La poesia che è già avvenuta che è nel mondo, e che quando ci raggiunge suscita somiglianze esistenti, ciò che gli corrisponde. Queste sono parole molto religiose, creano legame, come la singolare teoria del domestico spostato fuori casa, nell’ uomo di oggi, che non è la teoria dei non luoghi, ma la sete di radunare sé, abitare fuori dal domestico dalle stanzette, nel mondo anche dentro il vortice che ogni grande città alimenta. Per ultimo c’è la faccenda del linguaggio, che è abbassato per dare spazio alla creazione, all’ irruzione del mondo. Un pò come l’ en sof ebraico, dove D-o si contrae, per dare luogo alla creazione, siamo già alla vigilia del necessario spossessamento dell io, che va trattato in modo scandaloso e ironico.
    Direi che può bastare, Cristina Annino. Here we are.
    Maria Pia Quintavalla

  5. Mi fa piacere poter esprimere qui la mia totale ammirazione per la poesia di Cristina Annino e concordo con altri commentatori: dopo aver letto i suoi libri l’ idea che si ha della scrittura cambia radicalmente. E, per quel che può importare, dirò che anche per me MADRID è un’opera sublime e oggetto di continuomstudio, fermo restando il fatto che tutti i libri successivi sono eccezionali per struttura e tessitura linguistica.

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