Intervista a Elisabetta Sancino, a cura di Paolo Polvani.
Elisabetta Sancino si è classificata prima al “Premio Claudia Ruggeri” per la poesia inedita organizzato da Versante ripido. Paolo Polvani ha proposto all’autrice alcune domande.
Quando e come si è manifestata in te l’urgenza della poesia?
Scrivo da quando ero bambina, sempre e solo poesia. Non so dire il perché, dato che nessuno in casa mia è mai stato appassionato alla letteratura o alla scrittura. So che non ne ho mai potuto fare a meno e che anche da ragazzina prima di uscire di casa avevo l’abitudine di portare con me un foglio e una biro, da tenere in tasca qualora avessi sentito il bisogno di scrivere anche solo un verso. Scrivevo per me stessa, per sfogarmi, per esprimere la mia creatività, per entrare in un universo nel quale potevo essere libera di dire ciò che volevo e come volevo. Scrivevo anche per gli altri, ogni volta che sentivo il bisogno di comunicare qualcosa di profondo agli amici lo facevo attraverso la poesia. Ho sempre scritto dovunque, a scuola, sul metro, in bagno, anche in coda all’ufficio postale. I miei insegnanti mi hanno sempre spronato a non mollare ma al tempo stesso mi hanno saggiamente consigliato di trovare innanzitutto il modo di far coincidere la mia passione con un lavoro che mi potesse permettere di mantenermi. Oggi è più facile venire allo scoperto, farsi conoscere, scambiarsi testi, partecipare ai concorsi ecc. Prima era tutto più complicato, specie per chi, come me, abitava in un paesino di campagna e proveniva da una famiglia modesta. Per me, raggiungere l’indipendenza economica sin da giovanissima, mantenermi agli studi e perseguire i miei obiettivi senza pesare sugli altri sono state tappe fondamentali che mi hanno portato ad essere quella che sono oggi. Questo ha significato attendere molto tempo prima di potermi concedere il lusso di dedicare alla scrittura tutto il tempo che è necessario quando si vuole togliere i testi dal cassetto e farli conoscere al mondo, misurandosi con altri autori, sottoponendosi al giudizio di persone sconosciute, accogliendo sia i successi che le critiche che un’uscita allo scoperto porta con sé.
In quale occasione sono nate le poesie che hai inviato al concorso Claudia Ruggeri?
I tre testi che ho inviato erano già stati composti da qualche mese. La poesia vincitrice, in particolare, è stata scritta durante un viaggio in treno di ritorno da Pescara, dove ero andata a ritirare il premio per il secondo posto al concorso letterario “Scrivere Donna”. Purtroppo nessuno mi aveva potuto accompagnare, quindi il testo è scaturito dalla malinconia che ho provato, sentendomi lontana soprattutto da mio marito, che non è né uno scrittore né un lettore di poesia ma riesce lo stesso a comprendermi nel profondo. Gli altri testi mostrano due diversi aspetti di me: “L’allievo” è dedicato a un mio ex allievo delle scuole medie, che negli anni è diventato un amico. Un allievo difficile, complesso ma con un cuore grande. Lui rappresenta una sfida che abbiamo vinto insieme. Ci siamo dati reciprocamente molto e la sua presenza nella mia vita è per me importante. “In corsa” mi ritrae nel momento in cui scrivo, quindi è una riflessione sul fare poesia e sull’importanza che questo ha nella mia vita. Malgrado tutto ciò che succede di doloroso dentro e fuori di noi, la poesia (sia essa intesa come creazione o come lettura) resta un’arma molto potente per andare avanti e non arrendersi.
Ci sono poeti che sono tuoi punti di riferimento, poeti nei confronti dei quali ti senti in debito?
Prima ancora di provare ad essere una scrittrice, io sono una lettrice accanita da sempre. Leggo costantemente innanzitutto perché mi piace. Credo inoltre che nessun aspirante scrittore possa prescindere dalla conoscenza delle opere di autori ritenuti degni di attenzione. Leggere i “maestri” è un modo per confrontarsi, per migliorarsi, comprendere i propri limiti e tentare di superarli, approcciarsi a stili diversi, riuscire a tirar fuori tutte le voci che si hanno dentro fino a trovare la propria. La mia formazione è avvenuta soprattutto attraverso lo studio degli autori stranieri, che ho sempre letto in lingua originale (inizialmente con testo a fronte) sin dall’adolescenza. Ovviamente a scuola studiavo la letteratura italiana, come tutti, ma l’interesse per le lingue era in me più forte e la curiosità per le culture diverse dalla nostra mi ha sempre portato istintivamente a leggere testi specie in inglese e francese. Questa curiosità si è mantenuta viva durante gli anni dell’Università (ho studiato Lingue e Letterature Straniere), anche se spesso gli autori da me più amati erano quelli che non venivano fatti oggetto di uno studio approfondito nei corsi. Mi riferisco per esempio a Walcott o Heaney, che ho scoperto da sola e che mi sono entrati dentro da subito. Altri autori che continuo a rileggere costantemente sono Blake, Yeats, Eliot. Si tratta di scrittori molto diversi fra loro, ma tutti in grado di sollecitare una risposta emotiva molto forte in me. Penso alla forza visionaria di Blake ma anche al mondo dei miti e delle leggende che popolano l’universo di Yeats e che in lui hanno la stessa importanza dei fatti oggettivi. Penso anche alla capacità che ha Eliot di rendere lo squallore e la decadenza dell’epoca moderna, facendo ricorso a un linguaggio e a una tecnica espressiva che ancora oggi trovo attualissime (personalmente ne ho trovato traccia anche nell’opera di Kate Tempest, la poetessa di culto della Londra 2.0).
Tra le autrici, mi sento molto vicina ad Adrienne Rich e Nina Cassian, che al pubblico italiano non sono ancora molto note e che a mio avviso meriterebbero maggiore attenzione. Della Rich mi piace il suo definirsi una “cospiratrice” che va alla ricerca di “acque più calde dove partorire di nuovo”, scova le crepe nel sistema dalle quali entrano nel mondo “erbacce e luce”. La funzione della poesia è, secondo me, soprattutto questa. Una forza rivoluzionaria, che custodisce in sé il lato più selvaggio e più autentico di noi. Della Cassian amo quella che definirei una poesia sinestetica, sensuale, carnale, a volte onirica, capace di scardinare ogni ordine precostituito con versi trancianti ma senza mai perdere il proprio carattere di apparente giocosità e leggerezza.
Negli ultimi anni mi sono dedicata con grande passione anche agli autori italiani, perché sentivo l’esigenza di leggere poesia scritta nella mia lingua madre. In questo percorso sono stata anche stimolata anche dalla frequentazione della Casa della Poesia di Milano e ho scoperto o riscoperto autori che avevo affrontato solo superficialmente nel corso dei miei studi ma che invece adesso credo di poter comprendere meglio. Non mi sento di fare un elenco, ma vorrei citare Raboni e Sereni, che mi hanno colpito in modo particolare anche per via della loro radice lombarda, che è anche la mia. Conoscendo molti dei luoghi da loro evocati, è per me più facile entrare in sintonia con i loro testi e sentirli parte di me.
Di cosa si occupa nella vita Elisabetta Sancino?
Nella vita faccio sono insegnante part-time di lingua e letteratura inglese e guida turistica. Svolgo questi lavori ormai da molti anni e non ho mai pensato di privilegiarne uno a spese dell’altro, perché si completano a vicenda e mi danno entrambi molte soddisfazioni. Insegnare mi permette di stare a contatto coi ragazzi ma anche con persone adulte, dato che insegno anche ad un corso serale e tengo corsi di letteratura all’Università del Sapere. Ogni fascia d’età ha le proprie caratteristiche e le proprie esigenze e per me la sfida costante è cercare di tenere sempre alti il livello di attenzione, l’entusiasmo, la voglia di scoprire cose nuove. Cerco anche di far capire ai miei allievi l’importanza di imparare una lingua viva, magari talvolta commettendo errori grammaticali ma privilegiando sempre la voglia di comunicare piuttosto che la perfezione.
Quando lavoro come guida, invece, mi muovo costantemente da una parte all’altra di Milano, trascorrendo molto tempo all’aperto in contesti sempre diversi: io sono una pendolare, quindi per arrivare nei luoghi più propriamente turistici attraverso la periferia in metro, vedo realtà che non somigliano a quelle del centro ma che per certi versi mi affascinano comunque. Lavoro quasi sempre con clienti stranieri, a volte parlando due o tre lingue diverse nell’arco della stessa giornata: non si tratta solo di comunicare con loro a livello linguistico e di farli appassionare alle bellezze di Milano ma anche di capire e rispettare la diversa mentalità di ogni persona, mettendo tutti a proprio agio e facendoli sentire accolti. Trovo che questo scambio continuo sia esaltante e profondamente arricchente.
La mia poesia si nutre di tutto ciò che vivo nelle mie giornate, che sono sempre diverse l’una dall’altra e che mi mettono di fronte a situazioni spesso imprevedibili, nelle quali devo tenere ben saldo il controllo e trovare velocemente la soluzione migliore. Vivo in modo molto intenso, a volte ho l’impressione di essere sempre su un palcoscenico. Scrivere mi serve per fare silenzio dentro di me, portando nei miei testi tutte le emozioni che ho vissuto a contatto con il mondo esterno, per poterle condividere. A differenza di quando ero ragazza, non penso più alle mie poesie come a degli sfoghi personali, ma come a qualcosa che tutti possono comprendere e nelle quali tutti possono immedesimarsi.
Tu sei insegnante, hai un metodo per far appassionare i tuoi studenti alla poesia?
Insegno Letteratura ai ragazzi del triennio del Liceo Linguistico e Scientifico e confesso che non è sempre facile farli appassionare alla poesia. Tuttavia, ritengo questa una sfida molto stimolante, specie in un mondo come il nostro dove si corre sempre, si è sempre connessi con il villaggio globale e non si ha tempo per fare silenzio dentro di sé. Non ho mai studiato nessun tipo di approccio particolare, quello che faccio mi viene naturale. Quando insegno io porto sempre me stessa e questo, specie quando si parla di letteratura, viene percepito dai miei allievi come un valore aggiunto. Non mi metto “in cattedra”, malgrado la cattedra ci sia, ovviamente, perché l’idea è quella di fare un viaggio insieme, un viaggio che potrà contare su una guida sempre pronta ad aiutarli ma bisognosa del loro aiuto, perché il fine del viaggio è giungere da qualche parte insieme, condividendo le paure, i dubbi ma anche le scoperte che si faranno. Evito di parlare in modo tecnico di poesia: i ragazzi già conoscono la metrica e le figure retoriche perché le studiano con i professori di italiano, quindi io mi limito a farle riconoscere, laddove si renda necessario per comprendere la loro funzione all’interno del testo. Per il resto, voglio che si immergano nel testo e che siano consapevoli che le poesie, nella maggior parte dei casi, hanno bisogno solo della nostra attenzione totale, più che di continue note, citazioni colte o appunti integrativi. Mi piace lasciare gli studenti soli davanti alle poesie per un po’, affinché scoprano a modo loro i collegamenti tra le parole, la magia dei suoni, la funzione del ritmo….lavorano per lo più a coppie, discutono e io non intervengo più di tanto. Poi c’è il momento del confronto e in quel caso chiedo sempre a loro di calare il testo nella propria vita, cercando di trovare collegamenti col loro quotidiano o col loro mondo interiore. Non forzo mai nessuno a esporsi in prima persona, ma molti sentono il desiderio di liberarsi, di tirar fuori qualcosa che forse non sapevano neppure di avere dentro e che scoprono attraverso le parole di un altro. La sensibilità con cui ci si accosta alla poesia non c’entra con lo studio di date e dati, è una faccenda molto intima tra noi e il testo. Questa consapevolezza aiuta le persone a non sentirsi in competizione, a non avere paura, a non vergognarsi qualora non abbiano i requisiti che di solito vengono richiesti per potersi avvicinare alla poesia. Il problema è proprio questo: nel momento in cui i poeti o gli stessi insegnanti trattano la poesia come se fosse un dono per pochissimi eletti, la poesia viene davvero relegata agli scaffali più lontani e irrangiungibili del sapere (e anche delle librerie).
Un’ultima cosa: io dico sempre che nessuno ha la chiave della verità in tasca, quindi il bello delle nostre discussioni è che non c’è mai una cosa davvero giusta e una totalmente sbagliata. Ci sono tante verità che emergono, si completano anche attraverso la contrapposizione, un po’ come diceva Blake parlando dei “complementary opposites”, perché senza opposti non ci sarebbe un vero progresso.
Qual’è secondo te la funzione sociale della poesia?
La poesia apparentemente non fa rumore, ha pochissima visibilità, non porta profitti, non è immediata, per molti è del tutto inutile in un mondo come il nostro. Io ovviamente non sono d’accordo e credo che rivalutare la poesia sia fondamentale, a partire proprio dalla scuola, dove ci si dovrebbe accostare ad essa in modo più diretto, schietto, autentico, facendola scendere dal piedistallo polveroso dove è stata relegata da ormai troppo tempo per far sì che i ragazzi la sentano come una cosa viva e, a partire da questo, possano esserne a loro volta trasformati.
Secondo me la poesia è un’arma molto potente per connetterci alla parte più profonda di noi stessi e guardarci in modo più autentico, senza maschere e senza finzioni. Quando parlo di poesia coi ragazzi io sento che, malgrado la differenza d’età e di formazione, noi riusciamo a sentirci e a sentire l’altro in modo nuovo e sorprendente. Dico sempre loro che la poesia può davvero farli diventare persone migliori, adulti migliori perché hanno accettato di guardare a se stessi e al mondo con occhi diversi, prendendosi cura del proprio lato selvatico, quello che Mariangela Gualtieri in suo testo definisce come “la capra nascosta” nel fondo di noi che non vuole (e non deve) dormire.
La poesia è qualcosa di “sociale” anche perché ha il potere di liberarci dall’isolamento, mostrandoci che qualcun altro ha vissuto quello che viviamo noi, ha sofferto, sbagliato, gioito e goduto come noi ed è proprio dalla condivisione che nascono la consolazione e la speranza.
Nel contempo, la poesia può anche servire come presa di coscienza e denuncia degli orrori che ogni giorno accadono intorno a noi, può e deve sovvertire le regole (“avvelenare i pozzi”, dice Fortini) ma può essere anche l’occasione per dare valore ai tanti miracoli quotidiani a cui non si fa più caso, distratti come siamo dai troppi stimoli che ci bombardano e ci portano a perdere di vista le cose apparentemente minori, silenziose, che passano quindi inosservate. Oggi più che mai la poesia è la miglior cura contro la cultura del tutto e subito, l’impazienza, la fretta di sapere senza darsi la pena di cercare davvero. La poesia richiede una “pazienza orribile”, per citare di nuovo la Rich, ma è da questa pazienza che si può provare a ricostruire qualcosa dentro e fuori di noi.