Intervista a Fernando Gerometta a cura di Natalia Bondarenko.
Prima di tutto vorrei farti una domanda quasi banale: scrivi in italiano e traduci in dialetto asìno o viceversa? Ha ancora senso scrivere in dialetto? E se c’è il pericolo di rimanere rinchiuso in una specie di gabbia territoriale e nei temi strettamente locali scrivendo in dialetto?
Se ciò accade (scrivere in friulano asìno e tradurre in italiano o viceversa), è un evento di natura palindroma. La mia partecipazione a concorsi vernacolari nazionali è assidua, dunque i testi vanno accompagnati sempre dalla traduzione.
Estrapolo alcuni termini dalla tua domanda: “senso”, “pericolo”, “gabbia”, “stretto”.
Sono dimensioni a me aliene, poiché scrivo. E svincolato da qualsiasi ottica editoriale.
Ciò che scrivo rimarrà per chi mi ama, o per chi potrà amare ciò che io ero in ciò che scrivevo.
A volte vengo avvolto dalla dimensione che ha preceduto l’italianizzazione, non certo dolce. La macerazione della genziana nel vino bianco produca un amaro che abbia come obiettivo l’amore.
Io a sei anni conoscevo una decina di parole italiane. Ed è allora prepotente il manifestarsi dell’inconscio collettivo junghiano. Altre volte mi assale il desiderio di volare, ed allora ricorro in modo disincantato alla lingua italiana, strumento tecnicamente compiuto, a ciò che di essa conosco, con nel bagaglio il conforto del mio vernacolo.
Mi chiedi se ci sia il pericolo di rimanere rinchiuso nel piccolo. No. Citando Blaise Pascal, c’è l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Prigionieri del tempo, ci si può perdere nell’una o nell’altra dimensione. L’angustia, la paura di essa, svanisce sull’arenile di fronte al mare o aprendo il cassetto della scrivania del nonno.
C’è una poesia alla quale sei (se si può dire) affezionato? E perché?
Tra le poesie in Friulano asìno sono affezionato a Inventari, proprio qualche giorno in finale al concorso Salva la tua lingua locale in Campidoglio, perché è nata nel tentativo di dire che l’umiltà non ha bisogno di una dignità altra, ovvero anche la scheggia di selce del Neolitico ha contribuito a proiettare l’umanità su Marte (e per cortesia non andare a vedere 2001 Odissea nello spazio).
“Tant sot, tant denta, pì di cussì nuia
e tant al é encja ator ma dut ši šcriva un; cjessût
di fôr, zentesens tencj, apenas dišplumât
da durmions di cuatri diš (…) Semen quod seminas
Polpa cença vués e vuéš a šlaš co ai ven adùn
uchì e cumò sora la sagra mondiâl dai pixel
la granda nivula cjoca dai muscjins, resurrezion
cercja chešta not di prima dal imbrunî, ogni
fîl co al era vert al š’incjalina, gli ascari con
noi und die anderen dort e ti che qua ti xè ti
resta proprio a la Riva dei Sciavoni y los
indios todos aquí, God save the Queen
culùar, duta l’iride, pari, rien ne va plus (…)”
in italiano:
“Tanto sotto, tanto dentro, più di così niente
e tanto c’è anche intorno ma tutto si scriva uno; tessuto
fuori, centimetri tanti, appena spiumato
dal sebo palpebrale di quattro giorni (…) Semen quod seminas
Polpa senza osso e ossa sparpagliate che si adunano
qui e ora sopra la sagra mondiale dei pixel
la grande nuvola ubriaca dei moscerini, resurrezione
assaggia questa note di prima dell’imbrunire, ogni
filo che era verde s’incaligina, gli ascari con
noi und die anderen dort e ti che qua ti xè ti
resta proprio a la Riva dei Sciavoni y los
indios todos aquí, God save the Queen
colore, tutta l’iride, pari, rien ne va plus(…)”
So che lavori molto insieme a Luigina Lorenzini e chiami questa collaborazione in un modo tutto tuo: scrittura a quattro ‘ali’. Potresti spiegare questa scelta?
Lo yin e lo yang, il contemperarsi del differente: un’esigenza espressa anche nell’infinitamente piccolo (leggi Val d’Arzino).
L’espressione “a quattro ali” è un conio di Luigina e risale al tempo in cui assieme abbiamo scritto il primo racconto lungo in Friulano asìno, “Pavéa un’eštȃt” (Farfalla un’estate). Inizialmente l’idea era di una collaborazione tra tre poeti del gruppo I Poeti della Val d’Arzino, poi siamo rimasti io e Luigina a interagire. Salvare quello che si può di una lingua richiede un grande impegno.
Prima di farti l’ultima domanda vorrei citare Lello Voce che sul Fatto Quotidiano ha scritto: “Cerchiamo dunque… di riflettere sul significato di ‘intrattenitore’, o ‘intrattenimento’. Scopriremo così che ‘intrattenere’ significa trattenere qualcuno, tenerlo fermo dov’è (su quell’argomento, o su quel tema), aiutarlo a far scorrere il tempo magari in modo piacevole, ma anche trattenere presso di sé, conservare, mantenere”. La mia domanda è la seguente: quando usi la parola ‘spettacolo’ per i tuoi reading, lo intendi come una tua forma personale per proporre i tuoi testi e per essere più vicino al pubblico? E siccome siamo sulla stessa onda… cosa pensi tu dei Poetry Slam?
La parola chiave è condivisione. Tu e l’altro, verbo. Immersioni fortissime già vissute da me alla scuola di ecologia sociale. Spettacolo come sostantivo, non come aggettivo, spettacolare.
É una grande responsabilità sia proporsi come oracolo sia avvicinarsi all’oracolo. Sull’architrave del tempio di Delphi era incisa l’iscrizione ΓΝΩΘΙ ΣΕΑΥΤΟΝ (gnōthi seautón) che significa “Conosci te stesso” ma non ci è dato sapere con certezza se quel motto fosse affermativo o interrogativo.
Per quanto riguarda i Poetry Slam, la risposta è personale e soggettiva. C’è stata una sola occasione in cui ho partecipato a un Poetry Slam. Ho scoperto di non essere adeguato a questo tipo di rassegna, ma ben vengano.