Intervista a Flavio Ermini, a cura di Paolo Polvani.
Dopo avere letto “Essere il nemico. Discorso sulla via estetica alla liberazione”, di Flavio Ermini, Mimesis ed., 2013, ho ritenuto di porre alcune domande all’autore che gentilmente ha accettato di rispondere.
Flavio tu scrivi: “La rivoluzione non va più immaginata soltanto come rovesciamento del potere della classe dominante, ma va soprattutto pensata come rottura delle gerarchie repressive interne ai singoli individui di tutte le classi”. Una lotta contro le repressioni individuali presuppone una presa di coscienza forte, molto lontana dalla situazione di totale obnubilamento attuale. Come pensi che possa realizzarsi?
Stiamo vivendo un’emergenza che impone di ripensare il nostro rapporto con le cose e con il mondo, un rapporto che sta sempre più logorando l’antico legame che l’essere umano intratteneva con la natura. Solo un gesto che recuperi questo antico legame può garantire un cammino che conduca fuori dalla repressione sociale e individuale alla quale siamo sottoposti. Penso a un gesto in sintonia “perfetta” con la natura. Un gesto oltre le ideologie e i sistemi economici, e che ci imponga di tornare a pensare in modo originario alla natura; di tornare a pensarla come a un tutto da cui tutto – animale, uomo, divino – ha origine. Di tornare a pensarla non come l’essere nel molteplice, bensì come principio delle molte cose che esistono… Ed ecco che con l’aprire il nostro intelletto alla natura può essere favorito il risveglio delle libertà.
Facciamo sì che la natura si riveli nella sua interezza. Intraprendiamo il lungo viaggio che conduce dove noi siamo già, prendendo così coscienza che ciascuna delle sue forme significa di più di quel che essa rappresenta immediatamente, nella sua apparenza. Teniamo lo sguardo fisso sulle stagioni, sul moto apparente del sole. Proviamo a guadagnare un accesso alla cosa in quanto cosa, ad accedere al fiore in quanto fiore. Ad accedere alla natura come automanifestazione dell’essere. Sottraendo così la natura sia alla spiritualità, sia allo sfruttamento, sia alla pura contemplazione.
Insomma, ridimensioniamo l’essere umano. Spogliamolo dalla sua hybris; lasciamolo parlare una lingua albale, insieme oscura e saggia, che stravolga la vita consueta.
Insomma, torniamo alla scuola di Hölderlin e – contro le patetiche resistenze di quegli interpreti che ritengono la poesia qualcosa di estraneo al pensiero – accogliamo il suo invito ad abitare poeticamente la terra.
“Senza un nuovo linguaggio non può formarsi un essere umano nuovo”. Questo assunto rimette in gioco la funzione sociale del poeta. A chi altro il compito di inventare un nuovo linguaggio? Ma soprattutto: come inventarlo?
Non siamo noi a parlare la lingua. È la lingua a parlare attraverso noi. Chiunque abbia questa convinzione ha il compito di svelare un nuovo linguaggio. La lingua che parliamo è il risultato di una lunga pratica collettiva e di una incessante mediazione culturale che dura secoli. Ecco perché è necessario insegnare a non “impadronirsi” della lingua. Un nuovo linguaggio può nascere solo se si fanno tacere le proprie personali opinioni per far vivere la lingua viva, aurorale, quella collettiva. Chi si assume il compito di dare voce a un nuovo linguaggio è colui che volendo scrivere si dimentica di sé. Ecco l’atto rivoluzionario: testimoniare la dimensione transpersonale della parola. Scrivere non è un fatto privato. Si scrive per circoscrivere uno spazio di intellegibilità sottratto all’abisso e offerto a tutti! È il primo passo verso la comunità. Ed è il più difficile. D’altra parte altri passi non possono essere compiuti se prima non viene combattuta la pretesa autonomia del soggetto.
Tu parli di una specie di “fame” profonda, una fame che si genera nell’essere umano quando la realtà storica è sentita come carenza e, in pari tempo, come impellente esigenza di trasformazione. Ora non ci sono dubbi che questa “fame” risulti condivisibile e condivisa da frange della società. Ma come estendere il “contagio”? Da dove ripartire?
Scrive Rilke in una delle sue Lettere a un giovane: “È poco ciò che sappiamo, ma che noi dobbiamo restare in ciò che è difficile è una certezza che non deve mai abbandonarci”. E allora, con contagiosa inattualità e realistico buonsenso cerchiamo di commerciare sempre meno in denaro e in beni materiali e proviamo a commerciare di più in ciò che è “umano”, anche se l’umano richiede più lavoro e più fatica. “Commerciare in umano” significa abbracciare per esempio la felice anarchia dei Grimm, nelle cui favole c’è una grande simpatia per il modesto fratello minore, per la disprezzata figliastra, per gli avventurosi orfanelli, per il perdigiorno, il disadattato, il ribelle: tutti spiriti vitali, che non sono semplice forza-lavoro che eroga energia a tempo determinato. Individui che se la squagliano da giovani per godersi subito la vita, senza attendere i sessantasette anni. Non smettiamo di raccontare le favole dei Grimm ai bambini. Non cessiamo di evidenziare lo spirito dell’azione negatrice che in esse è sempre contenuta. Liberiamo i bambini dagli schermi luminosi delle macchine.
“Ci vuole qualcosa che sbilanci noi stessi da dentro”. È certamente un concetto ricco di suggestioni e d’implicazioni. Tu parli di un’umanità “immanente”, secondo la definizione di Nancy, fondata sulla gioia e sulla generosità: “Immanenza dell’essere umano per il proprio simile e per l’altro”. Dunque una rinascita. Che presuppone delle rovine, apre scenari apocalittici.
Quando qualcuno demanda ad altri la cura del proprio prendersi cura, diviene dipendente e dominato; tanto che in questo caso la relazione dell’essere gli uni accanto agli altri si trasforma in dominio e sudditanza. L’invito è a prendere sul serio la propria vita; a convivere con gli enigmi che sono in noi e a non accordare a nessuno il diritto di risolverli. Vivere è l’arte di determinarsi per la libertà e pagare il prezzo necessario per realizzarla. Il servo si rende tale per conservare almeno la certezza della vita. Rinunciare alla libertà è il prezzo della formalizzazione dei rapporti di scambio fra le cose. Il che non è certo lo specchio di armoniosi rapporti fra soggetti. Anzi, è proprio da qui che partono le ombre oscure dell’accumulazione e del mercato arcano della merce. Non stare dalla parte della necessità, ovvero sottrarci alla scienza dei vincoli, impone una critica radicale al sistema sociale vigente; impone di avanzare la pretesa di una società in cui l’uomo trovi la sua assoluta libertà. Una libertà fondata proprio sulla “gioia” e sulla “generosità”. Non parlerei dunque di “apocalisse”. Tuttavia che questa visione del mondo richieda, per compiersi, delle “rovine”, come dici tu, sì, certo, è così.
Tu scrivi: “L’unione degli esseri umani può venire da un sogno comune: il cerchio grande dell’immaginazione”. È molto bello; l’immaginazione al potere è sempre stato un cartello segnaletico, un indicatore di percorso, ma a livello operativo, concreto, come pensi che possa attuarsi? con quali condizioni?
Il tempo che noi viviamo – che è il tempo della tecnica, inutile negarlo – non tende a uno scopo, né promuove un senso. Lo spirito del tempo non apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità. In questo cupo scenario, come non rivolgerci all’immaginazione? Come non continuare a ripetere il gesto dei nostri fratelli del Sessantotto? E come non farlo se non sognando? E subito dopo provando la solidità dei sogni nell’impatto con la realtà? La vecchia formula dei nostri padri, “prassi-teoria-prassi”, può ancora funzionare. Dove la prassi è il sogno; la teoria è la verifica dell’attuabilità del sogno per tornare a sognare.
Diciamolo con chiarezza: se le cose si afferrano senza interiore necessità (come vuole la tecnica) vengono solo messe a profitto. Cose, strumenti, istituzioni non passano più, nel processo di produzione, attraverso la visibilità del cuore, ma tutto resta fuori dall’interiorità. Ebbene, il sogno svela che il pensiero puramente funzionale e calcolante non ha interiorità. Cercare le nuvole nella corrente della storia resta una buona idea contro l’intelletto calcolatore di una società votata alla produzione delle merci.
“Tu che scrivi lo sai: letteratura è la morfologia del grande disagio in cui si trova il mondo ridotto alla categoria della mercificazione. La letteratura è già rivolta”. Tutto vero, ma anche la letteratura è stata mercificata, e la poesia talmente marginale da essere irrilevante… Che fare?
Letteratura e poesia si sono condannate da sole all’irrilevanza perché si sono affidate alla leggerezza della piuma. Scrive Valéry: “Il faut etre léger comme l’oiseau et non comme la plume”. Troppo casuale è il deporsi inerte della piuma! Dobbiamo affidarci alla leggerezza delle ali della rondine. Ecco il gesto che va compiuto. Un gesto originariamente libero. Un gesto che garantisca l’autonomia dell’incontro. Un gesto affidato all’antipensiero, ovvero alla parte in ombra (quella impensata) del pensiero. Dalla decisione di guadagnare questa libertà dipende il nostro futuro.
Tu scrivi che ognuno di noi deve aprire nuovi scenari, “ognuno per sé, per la propria specificità”. Ma questo già avviene con l’atto creativo, che tuttavia non ha prodotto cambiamenti sensibili…
È innegabile: il nemico è potente e ha grande fascino, circondato com’è da tutti quegli schermi luminosi… Al contrario, noi che ci ribelliamo siamo simili ai personaggi di Svevo, di Pirandello, di Kafka. Viaggiamo per il nostro quotidiano un po’ come automi, disadattati e goffi. Abbiamo perso il controllo non solo del nostro iter, ma anche di noi stessi. Siamo gli antieroi per eccellenza: noi poeti, noi artisti, noi filosofi, noi saltimbanchi, noi fantasisti. Non conosciamo la nostra destinazione e la finale disposizione delle cose. Non accade per noi come avviene nella Divina Commedia: non viaggiamo per arrivare dove sappiamo che saremmo voluti arrivare.
Noi che ci ribelliamo sappiamo che occorre mettere a soqquadro il mondo così come sta, scardinare le coordinate della percezione ordinaria. Come? Questa domanda ci impegnerà lungo tutto il nostro cammino, attraverso l’immaginazione, fino alla fase dell’inimmaginabile, dell’impensato. Anche se una cosa è certa: al contrario del figliol prodigo non torneremo a casa, accolti con feste e vitelli arrosto, rinnegando l’evasione e rubando il posto al fratello. Noi che ci ribelliamo, indossiamo le vesti del viandante in vista di un futuro che si dà solo a chi vuole vedere.
“Siamo chiamati qui a ripetere il gesto originario del seminatore: creare relazioni, coinvolgere e stimolare le forze di liberazione; preparare l’evento di un’unità armonica”. Ritieni che la rete costituisca il terreno favorevole per preparare questo evento?
Una compenetrazione di natura e passato principiale deve entrare nella terra come semente di una nuova esistenza. Va rammemorata quella profondità dell’essere che si rivelò agli albori del pensiero. Il pensiero meditante ci porta in un luogo in cui noi già da tempo abitiamo. Questo luogo non è un posto utopico, né tanto meno è un modello cui adeguarci; costituisce bensì la modalità che ci è assegnata storicamente dal mistero stesso dell’essere per poterci accostare all’essenza delle cose, per intravvederne il destino.
Il pensiero meditante non rifiuta a priori la scienza, né si pone contro di essa o contro i suoi prodotti (rete compresa), ma sta a dire che non possiamo acriticamente far coincidere la nostra capacità di pensare l’essere del mondo con la nostra abilità nell’oggettivarlo scientificamente.
Comunque si configuri, il paradiso della tecnica è destinato all’angoscia estrema. Esso non si rivela come un futuro da abitare poeticamente. Tanto che ci chiede di rinunciare alla vita naturale facendoci cadere con tale rinuncia in balia delle macchine; persuadendoci di poter disporre a nostro pieno piacimento degli elementi naturali, mercificandoli.
Teniamone conto nel nostro affidarci ciecamente alla rete.
“Vivere alla rovescia è il compito di ogni rivoluzionario”. Che cosa comporta a livello operativo, pratico?
La società dei consumi globale ha soffocato ogni pensiero critico, ha impedito l’insorgere di un pensiero alternativo, ha fatto proprio il progetto del Grande Inquisitore dostoevskiano: rendere tutti puntualmente felici e apatici. Uscire da questa ipnosi capitalistica – per la quale questo sarebbe l’unico mondo davvero naturale per gli esseri umani – richiede strategie inedite, così come inedito è questo violento attacco contro la libertà di scelta, contro il diritto di sognare, contro la pretesa esaustività del presente.
A tale proposito è necessario che l’uomo sappia riconoscere con spirito accorto la grandezza della natura e sappia a essa rispondere con la forma vivente della propria vita.
Votarsi alla natura è sempre stata l’azione umana più sacra, in quanto primo e ultimo termine: primo termine, da cui tutto si genera; ultimo termine, in cui tutto trapassa. Oggi, semplicemente, allearci con la natura è diventata l’azione più sensata, se non vogliamo condannarci all’estinzione…
“Ci sono battaglie che ogni individuo deve combattere da solo: sostituire il dono alla vendita, l’onore al lucro, la magia alla religione…”. Pensi che sia iniziato questo cammino? Si scorgono alcuni segnali, ma qual è il passo decisivo da compiere in questa direzione?
Il dono, l’onore, la magia, il sacro… solo una relazione autentica e aurorale con la natura può far sì che si ritorni a considerare la terra come dimora poetica che dona nutimento. Nessun altro passo può essere compiuto se prima non abbiamo imparato che la natura non va solo “usata” o “ammirata”. E questo passo può essere compiuto dall’essere umano solo nella misura in cui l’essere umano non si costituisce come puro soggetto del conoscere e dell’agire, ma quando vive profondamente l’esperienza di un accordo naturale con il mondo.
Portare alla parola questo accordo può accelerare il nostro cammino sulla via estetica alla liberazione.