Intervista a Gabriella Sica e una poesia

Intervista a Gabriella Sica e una poesia.

    

    

Per questo numero di Versante Ripido abbiamo proposto ad alcuni autori quattro domande uguali per tutti sul tema della casa, domande uguali per un confronto tra le differenti risposte, il differente modo di ognuno di loro di vivere umanamente e artisticamente l’unità basica dell’insediamento umano.

Gabriella Sica in una foto di Dino Ignani
Gabriella Sica in una foto di Dino Ignani

Qui vi proponiamo le risposte di Gabriella Sica e una sua poesia sul tema.

      

Gabriella Sica, romana dall’infanzia, ha scritto alcuni libri in versi e in prosa. Ultimi: Le lacrime delle cose (2009), Emily e le Altre. Con 56 poesie di Emily Dickinson (2010) e Cara Europa che ci guardi 1915-2015 (2015). Ha conseguito il Premio “LericiPea” 2014 all’Opera poetica. Un’autobiografia in terza persona, poesie, interviste e altre notizie nel sito www.gabriellasica.com/.

    

     

Che tipo di rapporto esiste tra i suoi versi e la sua casa?

Un rapporto fisico e simbiotico: la casa dove vivo è la fonte primaria dei miei versi. Non potrei scrivere che a casa, nel mio studio. Amo passeggiare, camminare, viaggiare e amo assai stare nei bar ma allora penso, leggo, guardo o prendo appunti, al massimo assemblo parole, abbozzo un groppo di parole che solo a casa prenderà forma. Se mi chiedessi cosa mi sia necessario per scrivere non posso che dire una scrivania o un tavolo qualsiasi purché disposto davanti alla finestra in modo che io sia dentro e nello stesso tempo frontale al fuori. E possa in un certo senso dialogare tra il qui e l’altrove, tra l’io e l’altro, tra quello che mi è familiare e l’estraneità. E il mio sguardo si possa posare sull’esterno, sia esso bello o brutto, fatto di case, alberi o mare, ma sicuramente pieno di aria e luce. Che sia piena d’amore per l’aria questo è evidente, e anzi ne sono decisamente avida. Del resto la poesia è sempre uno sguardo sul mondo La finestra è la mia cornice primaria, l’inquadratura originaria, e in questa apertura nasce un ponte con l’altro, un passaggio d’aria vitale. Posso vedere quello che la finestra delimita e incornicia e che non è mai statico, a una distanza abbastanza misurata, né vicino né lontano: la casa che ho di fronte è provvidamente a metà cieca, e a metà ha finestre con le serrande ora abbassate e ora alzate, vuote, in penombra o con qualche testa in movimento. Le cime degli alberi sono un po’ ferme e un po’ dondolano a ogni alito di vento. A sinistra due meravigliosi oleandri, uno rosa e uno rosso, come ce ne sono per tutta la via, a sinistra un nespolo e, più in là, un alloro che seduta non vedo. Non è una battuta, davvero l’albero di alloro è nascosto al mio sguardo, l’aura relegata a debita distanza, lontano. Lo vedo, alto quanto la casa che ho di fronte, inquadrato solo nella finestra della cucina. Di fronte alla finestra dello studio c’è una siepe d’edera, che, insieme al palazzo piuttosto ordinario, divide il mio sguardo, da qui all’infinito piuttosto difficile da immaginare in città. Incredibili i cambiamenti nell’inclinazione della luce dalla mattina al tramonto. La luce cambia e inavvertitamente è sempre sul punto di bruciare, trasformarsi, farsi magari istantanea sagoma di poesia colma di respiro, di invisibile, di forma fluida ed evanescente, in una circolazione triangolare di un possibile pensiero dell’aria. C’è un andirivieni, un continuo movimento in cui consiste la vita sia nel fuori, fatto di rumori e movimenti cittadini, che negli occhi di chi guarda, seduto al momento, ma inevitabilmente di passaggio. In questo singolare intreccio di spazio e tempo, nello sguardo di chi cerca fuori appare una forma nuova del nascente, il profilo di un annuncio.
Ogni volta che sono entrata in una casa, magari nella casa di vacanza più o meno provvisoria, e ho avuto modo di organizzare lo spazio, il primo gesto è stato di mettere un tavolo davanti ai vetri trasparenti della finestra e prendere così posizione davanti a un’immagine per riuscire a vedere meglio ed essere in movimento, evitare ogni sfumatura di cupezza e di morte. Non mi è mai venuto in mente che pormi con le spalle alla finestra consentirebbe alla luce di dilagare sui fogli. Del resto scrivo al computer e la luce è inevitabilmente artificiale. Il tavolo è per me comunque una zattera di salvezza, un oasi nella confusione generale e il luogo della sfida massima al tempo in cui consiste la poesia. Se potessi scegliere, vorrei che la finestra desse su un balcone, e fosse dunque una porta da aprire per uscire all’aperto, per essere contemporaneamente qui e là, magari sulla soglia, al passaggio tra fuori e dentro. Mi manca nella casa in cui vivo un balcone, che avevo invece prima. Mi piace scrivere nell’abbondanza della luce, quasi una reminiscenza sepolta della luce del sud amata da mio padre che in quelle terre era nato. Eppure nella luce l’occhio rimane abbagliato e allo stesso tempo accecato. Lo sguardo nel chiarore si capovolge nello sguardo rivolto al buio di Orfeo.
La mia casa immaginaria potrebbe essere non troppo diversa da questa in cui vivo, però con le finestre rivolta non a ovest, ma a est, dove sorge il sole. Bello sarebbe cominciare la giornata con un gesto di riverenza per il sole che non è affatto scontato nel suo ciclo, per quella sua intensa luce che entra nei giorni e ha sempre le movenze della carità. E avere un balcone, anche piccolo, dove mettere subito, con il bel tempo, un tavolinetto semplice con il computer portatile.
Quel che è certo è che l’abitante, chiunque sia, avrà nella casa spazio e silenziose sopravvivenze alla sua stessa scomparsa.

      

Ci racconti delle scatole segrete che custodiscono ricordi.

Le scatole che custodiscono i miei ricordi non sono altro che le mie poesie. C’è tutto lì, memoria, vita e attraversamenti, e se non c’è ancora arrivato tutto è solo questione di tempo se ci sarà concesso. Le poesie stesse sono scatole o astucci, nella loro forma visiva rettangolare. Scatole sono anche i libri in fila sugli scaffali, volumi chiusi che, una volta aperti, ci aprono mondi interi e sconfinati, che abbiamo già percorso, come documentano le sottolineature fitte e i micro appunti vergati a volte sulle ultime pagine, quando non ho un foglio a portata di mano. Sono scatole segrete che chiunque potrebbe avere. Non ne ho altre, se non metaforicamente.
Più che altro ho pochi oggetti che mi porto dietro nel tempo. Per esempio, qui sul ripiano della libreria c’è un porta ritratto in legno con la foto di Katherine Mansfield, che ho molto amato, più di Virginia Woolf. Anche se, per rimanere al nostro tema, ci ha lasciato indelebile l’incontrovertibile saggezza per una donna che scrive di avere una stanza tutta per sé, a disposizione ma anche di proprietà, per non essere in nessun caso dipendente da un uomo. Stava nella casa di Trastevere e sta in questa casa. E poi sulla scrivania c’è un uccellino in bronzo a bocca spalancata, che è “La più lontana cosa dell’infanzia”, un oggetto sopravvissuto al tempo più di ogni altro, chissà per quale legge del caso, e di cui scrivo nel mio ultimo libro, Cara Europa che ci guardi 1915-2015.
Per il resto sono sopraffatta dal disordine dei fogli e dei libri, sempre più fuori controllo. Vorrei vivere con meno cose intorno e anche dentro. Fare più pulizia, ma non riesco a buttare le cose del passato, vestiti e libri inutili, che non avrò più il tempo né la voglia di rileggere. Ambisco sempre a una scrivania in ordine, come quella di Billy Collins: “una superficie pulita al centro di un mondo pulito”. Insomma, un sogno, uno dei tanti.

     

Qual è il vento che spira tra i mobili? Della gioia, del rimpianto o del dolore?

Vivo da molto tempo in una casa non mia e non arredata da me, con mobili antichi che provenivano da altre case e che hanno raggiunto un’età superiore a quella di ogni suo abitante e superiore alla casa stessa, costruita negli anni Cinquanta. I mobili sono sempre al loro posto, magari con spostamenti e variazioni, nel tentativo di ridurre un’importanza antica e inattuale, da cui si può capire, se non ne sapessi niente, qualcosa dei precedenti proprietari. Un genius loci presiede “alla fattura delle suppellettili domestiche: armadi, tavoli e letti, fino al più piccolo scanno”, scrive Walter Benjamin. Nella mia casa da single a Trastevere (a cui ho dedicato le poesie di Vicolo del Bologna) ci sono tuttora gli stessi mobili poveri (ma con un certo spirito), un tavolo rettangolare e una libreria, che aveva artigianalmente e mirabilmente costruito per me, con vecchie tavole di noce, un gentile falegname-rigattiere di via dei Cappellari, Paolo, che ricordo, anche se non c’è più né lui, né il negozio. Quei mobili mi riportano alla mente i giorni di felicità assoluta (e di dolore) con cui mettevo su la mia prima casa, dopo la fuga rocambolesca dalla casa dei miei genitori. Alla fine, nella paura, aveva vinto la nuova vita, la nuova casa con i nuovi-vecchi mobili, i meravigliosi e sorprendenti, a me stessa, progetti di poesia che si realizzavano.
Ora, nella casa in cui ho vissuto la gioia di tante nascite, assisto da ferma (viaggiando con le parole) al cambiamento d’uso e destinazione degli abitanti, al muoversi e all’avvicendarsi tra le sue pareti di più persone. E tanti altri cambiamenti la casa potrà vedere, a mia insaputa. Ho dovuto intanto fronteggiare punte di precarietà alte, in una precarietà di fatto che ormai fa parte di me. Nei primi tempi in casa eravamo in sei e anche sette. In questo periodo siamo in due, a volte e per poco in tre o quattro. Nel mio passaggio lungo e nello stesso tempo inevitabilmente fugace c’è stato il tempo della gioia (per esempio la sorpresa per una poesia appena scritta) e del dolore (la fatica di scrivere), mai del rimpianto o della nostalgia. La vita è comunque, se va bene, un’alternanza di gioia e dolore. E comunque è infedele, come le persone, la poesia mai.

       

Ci dica del passaggio del tempo tra le cose e di come gli occhi le abbiano viste mutare.

Che dire? “La vita fugge e non s’arresta un’ora” diceva il poeta. E noi cambiano più delle cose e delle case, che quasi sempre ci sopravvivono, perché durano per più vite di più persone. Chissà, un giorno qualcuno butterà tutto, butterà finalmente i lampadari in vetro e metterà dappertutto faretti. Resterà la voce delle pareti, sarà una voce silenziosa e vibrante. Le case le portiamo dentro di noi e le case portano qualche nostra vibrazione tra le pareti, quando noi non ci saremo più, anche se i nuovi abitanti quasi mai se ne accorgono. La loro vita ulteriore sarà in altre mani e in altri occhi e nessuno quasi mai si chiederà chi e in che stato emotivo è passato per quelle stanze.
Le stesse poesie sono case di rifugio, alla ricerca di protezione e verità, che costruiamo con le parole: una parete, una finestra, le stanze-strofe. E ogni scritto è infatti per me un lavoro di architettura, con gli stessi principi costruttivi: creare e limitare spazi, aggiungere tramezzi e finestre, strutture magari invisibili a occhio nudo. Ecco, scrivere è costruire, edificare una casa, e allo stesso tempo vedere. Lo sguardo mi porta a fare spazio all’immagine o al paesaggio, esercizio che a volte ho praticato nella fotografia e nei video dedicati ai poeti. Sarà che mi sono trovata a dover ristrutturare nel tempo le case della mia vita, tanto che seguire questi lavori è stato negli ultimi venti anni quasi un lavoro supplementare e del tutto imprevisto. Infatti a Roma ho abitato, da quando sono bambina, in tre case in tre diversi quartieri, che per ipotesi potrebbero stare su tre punti di un’immaginaria circonferenza e formare una Y o le due braccia della croce che confluiscono in un tronco unico. Ogni casa è un’epoca della mia vita. L’adolescenza nella casa dei miei genitori alla Balduina, la giovinezza bohémienne nella mansarda di Trastevere e la maturità nella casa della mia famiglia, su un monte che fronteggia Monte Mario, dove vivono ancora mia madre e mio fratello. Tre case che sono rimaste contemporanee tutte e tre e dove continuo ad andare. Ognuna la porto sulle spalle, un sacco carico di memorie, affetti e, a volte, pesi. È il mio cerchio vitale e magico.

      

 

Una poesia:

Se piantasse la punta di un compasso
come un piede fisso
dove si muove l’acqua crespa
giusto al centro
del fondo fangoso del fiume
vicino al Ponte del Risorgimento
e con la stessa apertura
ruotasse l’altra asta su tre punti
le tre case dei tre quartieri
che ho abitato a lungo
per quasi tutta la mia vita
potrebbe un cerchio perfetto cerchiare
come una corona
sulla mia cartografia di Roma
e finire dove ho il mio inizio
e il mio scrivere circolare.

24 luglio 2016

                   

Martina Dalla Stella, 'Calicanto', olio su tela, 2013 - in apertura 'Alchechengi', olio su tela, 2016
Martina Dalla Stella, ‘Calicanto’, olio su tela, 2013 – in apertura ‘Alchechengi’, olio su tela, 2016

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