Intervista a Giulio Maffii

Intervista a Giulio Maffii, a cura di Paolo Polvani.

    

   

Abbiamo proposto alcune domande sul tema del mese al critico e scrittore Giulio Maffii.

   

Si stima che in Italia siano circa un milione quelli che con la poesia ci provano, che si esprimono in versi e intasano internet, sfornano (a volte orribili) libretti. Qualè l’aspetto dannoso in tutto questo?

Credo che forse la stima sia per difetto. In realtà si assiste ad un fenomeno che è uno dei tanti controsensi e paradossi del mondo pseudo-poetico. Concordo sul fatto che la maggior parte di questi versi e di libretti sia veramente orribile. La terribile produzione massificata produce un offuscamento di molti talenti ( e ce ne sono parecchi in Italia), consentendo a molti improvvisati privi di estro e preparazione ma pieni di ego, di mortificare la poesia decretando l’inutilità del poeta. A tutto questo si deve aggiungere che la critica non aiuta molto, limitandosi a fare marchette agli autori noti e a case editrici consolidate. Nel mio “Le mucche non leggono Montale” Marco Saya ed. parlo coscienziosamente di erbacce che soffocano e di mancanza di una tassonomia critica. Si dovrebbe poi anche ragionare sulla reale importanza di quel grande libro gratuito che sono i social ma il discorso sarebbe in questa sede troppo lungo.

 

Dietro questo proliferare di poeti esistono delle ragioni? Si tratta di persone particolarmente sensibili? di narcisismo allo stato brado? di desiderio di notorietà? più semplicemente di autoterapia?

Dare una spiegazione antropologica e psicologica dell’esistenza della poesia (non su cosa sia) è relativamente semplice e sono stati spesi fiumi di parole. Si deve fare comunque un distinguo: chi scrive per il piacere di farlo e chi si intestardisce a voler pubblicare a tutti i costi libri totalmente inutili buoni per la stufa o da regalare ai parenti. La sensibilità del poeta fa parte di un immaginario collettivo stereotipato che nasconde in sé anche un’evidente tautologia. Vedere con occhi chiusi non è da tutti e comprendere ciò che si vede ancora più difficile. Il poeta deve riuscire a far confluire tutto. Recentemente ho affrontato, in vari articoli, l’argomento sull’Ego smodato di poeti e pseudotali. Da un lato vi è un pervicace sentirsi speciale e superiore agli altri magari solo perché con conoscenze e nomi giusti si pubblica con case editrici note. Dall’altro lato c’è il signor nessuno che pur di apparire su google come “poeta” paga “tipografie mascherate” da case editrici, che lo sfruttano per un ricavo incredibile. Non ho niente in contrario su chi decide di pagare per pubblicare a tutti i costi ma a conti fatti meglio un selfpublishing che farsi spennare da qualche EAP. Mi spiego meglio: a fronte di una spesa effettiva di 2-300 euro per stampare 100 copie di un testo perché chiedere ad un autore 1000 e più euro per un qualcosa che non avrà distribuzione e visibilità? Il paradosso poi è nella richiesta stessa; ci sono EAP che premettono a questa richiesta che il mercato della poesia è inesistente, che la poesia non vende e allora per quale ragione questi truffaldini pubblicano anche 30 titoli al mese? Credo che sia evidente il meccanismo mercificatore e svilente dell’uso di qualcosa che con la poesia non c’entra niente, basato su problematiche egotiche. La poesia come autoterapia? Su questo posso dire poco se non che credo fermamente che l’Analisi dovrebbe essere resa obbligatoria per tutti.

       

E’ possibile secondo te tracciare una linea di demarcazione netta tra tentativi di poesia, semplici conati, e creazione di poesia?

Eliot diceva che la poesia si divide in buoni, cattivi versi, il caos e niente altro In maniera semplicistica la linea di demarcazione è tutta qui, poi ci sono gli strumenti necessari per capire cosa siano versi buoni o no. Dal punto di vista di chi scrive è la stessa cosa. Per scrivere non bastano un foglio e una penna ma anche una serie di strumenti. Non esiste una classificazione precisa di questi ma già Majakowskji, quasi cent’anni fa, ne sottolineava l’importanza. In effetti ognuno dovrebbe costruirsi gli utensili necessari utilizzando quel reale ipertesto universale che è la poesia. Invece la presunzione e l’inutilità del poeta è già nella sua scarsa base di partenza. Mi piace fare l’esempio del violinista o del pianista che diventano tali solo dopo anni di studio e applicazione. Perché mai uno dovrebbe “sentirsi” poeta solo per aver imbrattato un foglio di carta con banalità, luoghi comuni, poetichese ? La linea di demarcazione si evidenzia da sola, certo è che scogliere e gabbiani dominano i luoghi del sottobosco poetico e quindi l’uso di antiemetici è decisamente consigliato.

 

E’ possibile pensare a una campagna di alfabetizzazione poetica?

È la cosa per cui mi batto da anni. Dovremmo pensare più che altro ad una pedagogia della poesia come atto di educazione continua, sia come campagna di formazione in età scolare, sia come processo di alfabetizzazione per adulti. Nelle scuole la poesia risente di programmi obsoleti e desueti. I nomi che si fanno studiare sono sempre i soliti, la poesia contemporanea inesistente. Manca una cultura della poesia per cui passa lo stereotipo che essa sia una cosa intima, personale, inintelligibile. Non se ne conoscono le fondamenta, non si stimolano gli studenti offrendo loro alternative ai “classici” o mostrando loro quali strade può percorrere una singola lirica. C’è una fossilizzazione ed una noia totale, ecco, la poesia diventa sinonimo di noia. Il contrario della sua propria essenza.

                                 

Dismaland, foto Byrion Smith, Wikimedia Commons
Dismaland, foto Byrion Smith, Wikimedia Commons

 

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