Intervista a Vincenzo Mascolo a proposito del concorso “RITRATTI DI POESIA.280”, a cura di Francesca Del Moro.
Il concorso per poesie inedite “Ritratti di poesia.140”, dal 2019 “Ritratti di poesia.280”, è nato nel 2014 ed è collegato all’annuale manifestazione romana “Ritratti di poesia”, promossa e organizzata dalla Fondazione Terzo Pilastro e dalla Fondazione Cultura e Arte in collaborazione con InventaEventi S.r.l. Sono ammesse al concorso poesie che non superino i 280 caratteri (140 fino al 2018) che vengono valutate da una giuria di tre poeti, la cui composizione cambia ogni anno. Per saperne di più, abbiamo intervistato Vincenzo Mascolo, ideatore del concorso e curatore della rassegna “Ritratti di poesia”, giunta quest’anno alla tredicesima edizione.
Fin dalla prima edizione del concorso, il bando esplicita l’intenzione di promuovere un incontro tra la poesia e la nuova modalità di comunicazione via Twitter. Quest’anno il limite dei caratteri è salito a 280, in linea con il cambiamento che ha interessato il social network. Da cosa nasce l’esigenza di un incontro tra questi due linguaggi?
Ritratti di poesia, come sai, si propone di contribuire alla diffusione della poesia contemporanea, italiana e internazionale, e per questo ospita numerosi poeti provenienti da ogni parte del mondo. Siamo convinti, però, che sia utile anche contestualizzare la poesia, calarla nel tempo in cui si muove e opera. La manifestazione, pertanto, guarda con interesse ai molteplici aspetti della contemporaneità, cercando spazi di dialogo con gli altri linguaggi artistici e con i fenomeni che caratterizzano la nostra società. L’idea di dare vita a Ritratti di poesia.140 (ora Ritratti di poesia.280), il concorso per testi poetici inediti di 140 caratteri (ora 280), nel rispetto della modalità di scrittura di Twitter, è nata da questa considerazione, in cui era implicita anche la volontà di far entrare la poesia in contatto con i numerosi utenti della rete.
Una nota di presentazione del concorso apparsa lo scorso anno su “Poesia del nostro tempo” inizia con queste parole: “La brachilogia, ovvero il discorrere brevemente, sembra un paradosso, ma è un’arte. Intelligenti pauca, dicevano i latini; che poi è diventato il nostro ‘a buon intenditor, poche parole’.”. In che senso questa definizione può applicarsi specificamente alla poesia?
Considero positivamente la capacità di sintesi e ammiro i testi poetici che riescono a condensare in pochi versi il loro senso. Non credo, però, che una poesia debba essere necessariamente breve. Ogni testo ha la sua storia, la sua dimensione, la sua corporeità. Ciò che conta, secondo me, è che vi sia equilibrio tra la parola e la sua sospensione, tra detto e non detto, perché è in quegli spazi vuoti, nell’attesa, nella capacità di evocare, che l’essere si annida, si rivela. E l’essere, come scriveva Giudici, è più del dire.
Sulla base dei testi pervenuti negli anni, ritieni possibile individuare alcune caratteristiche comuni, determinate dal limite di caratteri da rispettare? Eventuali meccanismi virtuosi innescati da questa restrizione?
Non mi sembra che siano individuabili caratteristiche comuni, né meccanismi virtuosi. Accanto a testi in linea con la contemporaneità sono pervenuti componimenti di impianto più classico, poesie in forma chiusa, in rima, haiku, aforismi. Una grande varietà di forme, di stili e di linguaggi che rappresenta una conferma della libertà in cui si muove la poesia. Come ho già detto, del resto, non ritengo che la brevità sia una qualità necessaria della scrittura poetica. Il concorso vuole solo stimolare il confronto tra il linguaggio della poesia e la velocità che, anche attraverso i nuovi linguaggi tecnologici, sta diventando uno degli aspetti principali del nostro vivere quotidiano.
Nell’ultimo libro di Sara Ventroni, La sommersione, si legge: “Una poesia è finita quando non c’è più niente da levare.”, una formulazione che a sua volta riprende le parole di Saint-Exupéry: “Un progettista capisce di aver raggiunto la perfezione non quando non c’è più niente da aggiungere ma quando non c’è più niente da levare”. Cosa pensi di questa definizione?
Sul principio sono sicuramente d’accordo. Come diceva Caproni, bisogna risparmiare al massimo il rumore delle parole. Ogni poesia dovrebbe essere scarnificata, ridotta all’osso della parola ineludibile. Il lavoro di sottrazione, però, è permeato della soggettività del poeta. La certezza che non ci sia più niente da eliminare, invece, implica una valutazione oggettiva che non può appartenere all’autore. Potremmo dire allora che una poesia è finita quando il poeta pensa che non ci sia più niente da levare. O forse quando, esausto e desideroso di staccarsi dalla poesia, finge di crederlo. Il poeta, del resto, è pur sempre “un fingitore”.
Non ravvisi qualche rischio nella contaminazione tra la poesia e la comunicazione tramite social? Non credi che si stia rafforzando la tendenza, da parte di autori e editori, a inseguire il linguaggio tipico dei social, semplice, rapido e generalmente piatto e superficiale? Basti pensare ad alcuni fenomeni come Gio Evan, Francesco Sole, Rupi Kaur, solo per citarne alcuni. Nonché vedere come poeti anche validi, penso a Guido Catalano e Franco Arminio, sentano il bisogno di mantenere un canale aperto con i propri fan sfornando poesie a ripetizione e abbassando necessariamente il livello della propria proposta a favore di una produzione costante e rassicurante.
No, non ravviso alcun rischio nella contaminazione tra la poesia e la comunicazione tramite social. Anche perché non mi sembra ci sia una vera contaminazione. Secondo me i due linguaggi continuano a essere ben distinti e mantengono la loro identità, perfettamente riconoscibile. Certo, non si può negare che da alcune parti si stia cercando di legittimare il linguaggio dei social, ma credo si tratti di un’operazione commerciale, non di una nuova idea di poesia. Né penso che le vendite, indubbiamente elevate, dei libri di autori nati sui social possano essere considerate segni premonitori di una resa del linguaggio della poesia, della nascita di un nuovo canone poetico. Così come non è un segno premonitore la pubblicazione costante e rassicurante, come l’hai definita, da parte di autori poeticamente più validi. Non darei troppa importanza a tutto questo. Anzi, credo sia utile confrontarsi, riflettere sulle ragioni del successo che hanno queste operazioni. Penso, del resto, che per l’ineluttabile evoluzione del linguaggio poetico sia necessario prendere in considerazione tutto ciò che accade intorno a noi.
Sempre in tema di social, mi ha colpito particolarmente una risposta che qualche mese fa avevi dato a una mia domanda mentre dialogavamo proprio su Facebook: “Io navigo in rete senza sosta alla ricerca di nuove voci interessanti”. La rete dunque rappresenta per te uno strumento sostanzialmente positivo per la diffusione e la conoscenza della poesia?
Sì, lo confermo. Per quanto mi riguarda, considero la rete una risorsa importante. La consulto quotidianamente e leggo testi poetici, ma anche riviste e blog letterari, articoli sparsi, interviste, e non solo ciò che proviene dall’Italia. In questo modo accade di conoscere autori che, pur essendo interessanti, non hanno una buona diffusione. Ma è anche un’opportunità per essere in contatto con la poesia che si fa in altre parti del mondo e di cui raramente in Italia si ha notizia. I risultati di queste continue esplorazioni confluiscono spesso in Ritratti di poesia. Più in generale, comunque, ritengo che la rete possa aiutare la diffusione e la conoscenza della poesia.
Nella tua ricognizione costante del panorama poetico attuale, quale peso ha l’aspetto della sintesi tra i tuoi criteri di valutazione?
Come dicevo prima, non credo che la sintesi, intesa come brevità del testo, sia una qualità necessaria della poesia. Né ho criteri di valutazione predefiniti. La lettura del testo è per me molto più importante di qualsiasi disputa teorica aprioristica. Mi piacciono sia testi lunghi, anche poematici, sia testi molto brevi, quasi aforistici. Non posso nascondere, però, che sono affascinato dalle poesie che riescono a condensare significati importanti in pochi versi asciutti, scarni, essenziali.
Ringraziando Vincenzo Mascolo per la sua cortesia e disponibilità, proponiamo di seguito le poesie vincitrici della sezione italiane nelle sei edizioni del concorso.
condividendo metri
ne occupi lo spazio
non pensi quale spazio
connoti la misura
nel tutto vivo della grazia
che metro è un metro
(Giuseppe Cornacchia, 2014)
*
La rosa come l’acqua mossa dal sasso della mano s’apre a cerchi infiniti sempre più grandi
(Fernanda Mancini, 2015)
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La droghiera greca non sa cos’è Syriza
Tornerà a casa un giorno
Ma quest’estate con il suo ragazzo
Andranno a ballare su in riviera.
(Maria Angela Rossi, 2016)
*
Lo schiudersi di abeti sulla faccia
ti sgretola le ossa
è il monte che ti abbraccia
e mare enorme con un cuore
a nuda roccia
(Simone Maria Bonin, 2017)
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Tutto ciò che abbiamo intorno
lo sbucciamo a viva forza
dalla vita d’ogni giorno:
come fosse della scorza.
(Alessandro Madeddu, 2018)
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Tu ed io
Il cenno di fastidio che non cogli
l’ho già fatto durante quel mattino
mentre passeggiavamo in un giardino
d’alberi spogli;
torna l’inverno, con giornate scure
intrise dell’umore risentito
per tutto ciò che tu non hai capito
ed io neppure.
(Alessandro Madeddu, 2019)
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Vincenzo Mascolo, nato a Salerno nel 1959, vive a Roma. Ha pubblicato Il pensiero originale che ho commesso (Edizioni Angolo Manzoni, 2004), Scovando l’uovo (appunti di bioetica) (LietoColle, 2009) e Q. e l’allodola (Mursia, 2018). Per la casa editrice LietoColle ha curato alcune antologie, tra cui Quadernario – venticinque poeti d’oggi, insieme a Giampiero Neri. Dal 2006 è il direttore artistico di Ritratti di poesia, manifestazione di poesia internazionale promossa da Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale e Fondazione Cultura e Arte.