Intervista a Nadia Agustoni, a cura di Daniele Barbieri.
“Racconto” e “I necrologi”, entrambe appena uscite, sono due opere molto diverse, ma ciascuna sembra girare attorno a un filo ben definito. Che cosa rappresentano per l’autrice? Hanno anche qualcosa in comune?
Sono due libri diversi per il tema trattato, ma in comune vi sono certe immagini che ricorrono spesso nei miei libri.
Racconto è un libro molto importante per me, è il racconto di un’educazione sentimentale, dove si intende proprio una educazione dei sentimenti nel senso del sentire/essere. Il modo di essere è la postura che teniamo nel mondo, rispetto al mondo.
Il libro, come tutti i miei del resto, è un aperto, sulla scrittura e poi su come si guarda/vede il presente, il passato e quel che è storia personale e storia. Scriviamo ormai in presenza di Auschwitz ogni giorno. La tragedia delle guerre, della fame, dei disastri climatici sono davanti a noi e nella nostra vita. Tante cose ci toccano, dalla mancanza di lavoro, ai suicidi e insieme il dolore di tutti e le altre tragedie, immense, che ci raggiungono con i migranti. La povertà dilaga e lo si voglia o meno tutto questo entra in noi.
Fin qui per quanto riguarda il tema, la scelta di fare un certo tipo di poesia, com’è la mia, in cui a volte non c’è soggetto parlante, non si sa chi parla o a volte come in Taccuino nero invece c’è, è dovuta al semplice fatto che per me se c’è poesia la voce è sempre un io/tu/voi…noi essi ecc. Sento il mondo al plurale, per me l’io in poesia non è ego, è semplicemente una posizione in cui siamo in un certo momento. Da lì si può parlare o tacere. E’ un io testimone quando c’è, e se devo diffidare, diffido molto più del noi che tende a fare folla, e ad arricchire le carriere di qualcuno. Teniamo conto che inoltre, ci piaccia o meno, un soggetto che parla c’è sempre. Non siamo fantasmi. Per quanto, ed è un bene, ci si occulti, la voce è la nostra.
Nei Necrologi parla un ragazzo, è come un romanzo-poema, un raccontare la fabbrica e cos’è un certo mondo del lavoro. Chiaramente e lo dico in nota, ho visto le cose di cui parlo. Ho mischiato più luoghi e persone, nessuno è riconoscibile, ma qui l’esperienza è quella di una realtà vissuta. Il fatto di far dire a un ragazzo certe cose evita una voce troppo armata e le trappole ideologiche.
Così arriva l’umanità che c’è in lui, quel che sente e fa fatica a dire, ma che può dire perché infine racconta semplicemente un mondo che porta nelle mani, nelle braccia, negli occhi.
In che senso le prose de “I necrologi” sono comunque per te poesia?
E’ un libro di poesia, lo è nel mio orecchio. Il ritmo quando lo leggo non è che poesia. Il fatto di chiamarla prosa per me non ha senso alcuno. Penso al lavoro di Giampiero Neri e ad altri. I Necrologi sono stati letti in anteprima da alcuni poeti, scrivono da decenni, hanno l’orecchio affinato diciamo e nessuno ha parlato di prose.
Mi sembra che a un certo punto della tua produzione, intorno a “Taccuino nero” (2009), ci sia stata una svolta importante. Che cosa è cambiato?
Se penso a quanto ho scritto lo vedo in un continuum. Forse da Taccuino in poi la ricerca segue tracce più certe e la scrittura si apre in più direzioni. Ma già nel Quaderno di San Francisco c’è questo, non saprei indicare di preciso una svolta, piuttosto dal Taccuino in avanti ricorrono certi temi e certe immagini e suoni.
Che cos’è per te il verso? Come vai a capo? Ci sono maggiormente principi metrici (sillabici o di altro tipo) o principi sintattici a governare la lunghezza del verso? I versi tradizionali italiani hanno una qualche importanza nel tuo modo di versificare?
Il verso nasce un po’ da solo. All’improvviso comincia qualcosa, c’è una sonorità, una musicalità, poi vengono le immagini. E’ il suono a guidare la scrittura. Il suono prima delle immagini. Se cambio un’immagine in una poesia, ma rimane quel suono, la poesia è quella. Con un suono diverso sarebbe un’altra cosa. Avrei un’altra poesia. Quando vado a capo in un certo modo, quando unisco il verso a quello dopo in un certo modo, è per aprire a più significati possibili, l’andare a capo in certo modo velocizza un testo o lo collega in modo che vi sia un significato che rimanda a più cose. E’ il senso dell’aperto. Il lettore forse fa un po’ più di fatica ma in cambio ne ha anche una scoperta del testo che può fare più sua.
La lettura di poeti della tradizione, Dante, Leopardi, Foscolo … ecc. è un modo di avere mondo quando si è senza mondo. E’ importante nella formazione umana e nel capire cos’è la lingua. Noi siamo la lingua che parliamo. Dobbiamo aver cura delle parole.
Quali sono gli autori che hanno segnato di più la tua formazione? E, oltre a questi, a che autori ti senti più vicina?
Per la formazione sono stati importanti diversi autori del primo 900. Non ne indicherei uno o due, direi nell’insieme, del resto erano voci diverse, ma voci che nell’incontro ti danno la misura di cosa è stato in poesia il 900 italiano.
Autori che sento vicini sono Caproni, Mesa e Di Ruscio. Ma ne amo anche altri senza sentirli vicini o sentendoli vicini in un modo che non saprei come definire e penso a Rebora. Altri autori mi sono vicini perché amo i loro libri senza abbiano affinità col mio lavoro.
E’ stato importante anche il confronto con la poesia di altri paesi. Da giovanissima ho letto tantissimo in traduzione i poeti russi Cvetaeva, Mandelstam, Achmatova, Brodsky… e il passo di tanta poesia americana e inglese ha a lungo accompagnato il mio (Bishop, Moore), mi ha fatto sentire meno in perdita l’essere isolata. Un anno in Scozia e un periodo in California, hanno aggiunto l’esperienza di un altro modo di vivere. La poesia è fatta di tante cose, letture si, ma sopratutto il mondo che incontriamo e come lo incontriamo. La formazione è sempre su più piani. Con Il mondo nelle cose ho ripreso, rivisitate, le figure di Crusoe e Venerdì e Venerdì porta con sé tutta la queerness che è stata tanto importante nel mio vissuto, politico e umano.
Il tema di questo numero di Versante ripido e’ “La società dello spettacolo”. Quanto credi che la poesia del ventunesimo secolo soccomba o riesca a superare le dinamiche spettacolari e pubblicitarie?
Per quanto si legga non si può leggere tutto, quindi difficile dire qualcosa. In parte la poesia del XXI secolo si difende bene, anche perché non vende o vende pochissimo ed è marginale rispetto alla società dello spettacolo. Se poi per spettacolo intendiamo un certo modo di fare, di porsi, questo dipende forse dall’influenza della musica e penso al rap e a certe icone musicali che hanno fatto tendenza. Senz’altro possono aver influenzato qualcuno. C’è comunque una ricerca seria in atto che mette insieme versi, musica e immagini e con risultati notevoli. Inoltre c’è internet che ci dà possibilità che fino a due decenni fa non potevamo immaginare.
E’ un mezzo potente e pericoloso, in un certo senso in rete tutto è spettacolo o se non tutto molto, e tutto è presto consumato… Internet è l’apoteosi dell’usa e getta e nello stesso tempo conserva ogni traccia… questo doppio, oblio e memoria, deve farci pensare e bisogna avere una grande attenzione, stare veramente attenti.