Intervista a Paolo Valesio a cura di Anna Belozorovitch

Intervista a Paolo Valesio a cura di Anna Belozorovitch.

    

    

Caro Paolo, mi piace sempre chiedere del primo incontro con la poesia. Potrebbe raccontarci come è stato per lei? Ricorda il momento in cui ha scoperto dell’esistenza della poesia? E, successivamente, come è accaduto che cominciasse a scrivere?

Il primo incontro… sono stati tre —rispettivamente: con l’opera di Eugenio Montale, Arthur Rimbaud ed Ezra Pound; peraltro a vari anni di distanza l’uno dall’altro. Tutte e tre queste esperienze mi hanno riempito d’ammirazione per la poesia —e hanno bloccato il mio impulso a scriverla, per un senso di inadeguatezza. Dopo questi incontri, che hanno avuto luogo tra la mia adolescenza e la prima giovinezza, ho cominciato a scrivere prosa narrativa: un primo romanzo (rimasto inedito) e un secondo, pubblicato nel 1978. Poi, dietro un’esortazione improvvisa di Roberto Roversi a scrivere poesia (e anche in seguito a un incontro con la scrittura di un notevole poeta, che però mi causava meno soggezione: Philippe Jaccottet), pubblicai nel 1979 il mio primo volume di poesie. Insomma, ho cominciato a scrivere veramente poesia a metà dei miei trent’anni.

Da allora ho continuato a scrivere senza interruzioni: soprattutto poesie (una ventina di libri pubblicati finora), oltre che narrativa (racconti, ancora un romanzo) e saggistica. Ripensando a questo inizio relativamente tardo nella scrittura poetica, credo che una delle ragioni fondamentali sia stata una sorta di pudore o timore di esprimere liberamente le mie pulsioni e ispirazioni subconscie. Avevo adottato come difesa un atteggiamento extra-razionale verso la vita e la letteratura, che guidò la scelta della mia professione (studi e insegnamento universitario: linguistica, critica letteraria). Dopo un lungo lavoro di scavo, ritengo di essere riuscito a trovare un accettabile equilibrio fra l’atteggiamento propriamente intellettuale (importante comunque, per la scrittura poetica) e l’accoglimento pieno delle emozioni e delle esperienze sensoriali (che per la poesia non è semplicemente importante: è indispensabile).

     

Vorrei domandarle come la percezione della Poesia, di ciò che significa e ciò che può fare, sia cambiata nel corso della sua vita, e a cosa ritiene che questi cambiamenti siano stati legati.

Sì: la mia percezione della poesia è molto cambiata, così come è cambiato il corso della mia vita  (che comprende fra l’altro una formazione italiana, vari decenni di vita statunitense, il ritorno definitivo in Italia). Sintetizzando la posizione cui sono giunto, direi così: non potrei scrivere poesia se non fossi convinto che esiste una cosa molto più importante della poesia —qualcosa che chiamerei il rapporto con la trascendenza. Ciò significa che la poesia è per me una forma di realizzazione spirituale al servizio di una forma più alta di vita  — ma senza dimenticare nemmeno per un istante la durezza, la bellezza, il fascino sensoriale, della realtà di tutti i giorni. In effetti, la mia non è una poesia religiosa: è piuttosto un continuo dialogo (in uno spirito che definirei di equanimità) fra il sacro e il profano.

     

Mi piacerebbe chiederle di come avviene il processo della scrittura. Si tratta di un impegno regolare o di qualcosa che “avviene”? Come vive i momenti in cui scrive e/o riesce a scrivere? Che cosa le dà maggiore soddisfazione: l’attesa, la produzione, la conclusione del testo?

Scrivo quando posso, non quando voglio, fra vari altri impegni. Tutte e tre le fasi che lei descrive sono stimoli di vita (senza i quali la noia rischierebbe di distruggermi), ma per nessuna delle tre userei il termine “soddisfazione”: l’attesa è eccitante ma incerta, la produzione dà un senso di autorealizzazione nel lavoro ma è molto faticosa (abbozzi, revisioni, ecc.), e la conclusione è sempre precaria.

      

In questo numero proponiamo la sua intervista insieme a quella a Todd Portnowitz, che l’ha tradotta in lingua inglese. Vorrei quindi concentrarmi sull’esperienza di essere tradotti, quindi anche sulle emozioni che ha provato o che prova in altre simili occasioni di vedere i propri versi prendere una nuova forma. Quanto ritiene che sia importante il dialogo con il traduttore? Quanto ritiene che sia importante la presenza del poeta in questa fase e che apporto può dare, se può darlo?

Comincio dalla seconda parte della sua domanda. Il dialogo con il traduttore è sempre essenziale, anche se è meglio che la presenza del poeta sia discreta; c’è, per così dire, una poeticità del traduttore che dev’essere rispettata. Nel corso del tempo ho lavorato più o meno occasionalmente con vari traduttori, da cui peraltro sempre ho appreso qualcosa. Negli ultimi anni, il dialogo  si è fatto più serrato e fecondo, con traduttori che sono poeti e scrittori, come Todd Portnowitz e Graziella Sidoli (senza dimenticare collaboratori per progetti più brevi, come Michael Palma e Barbara Carle).

“Vedere i propri versi prendere una nuova forma”, come lei dice, è qualcosa di così coinvolgente e misterioso che va ben al di là di quella che potrebbe essere una momentanea soddisfazione narcisistica; e in effetti non vi è qui nulla di narcisistico, perché la poesia efficacemente tradotta è un’occasione in cui il poeta ripensa criticamente alla propria poesia originale; e nei momenti migliori giunge perfino a veder emergere un’entità poetica particolare. È come se si fosse verificata una fusione in cui il confine fra originale e traduzione (che naturalmente non si perde mai) può essere, per alcuni intensissimi momenti, temporaneamente messo da parte in favore di una contemplazione dove viene alla luce un discorso nuovo. Un discorso che realizza la poesia in generale (poetry, per dirla all’inglese), trascendendo l’esistenza del singolo testo (il poem); e anche in questa esperienza io vedo la presenza dell’ “altra dimensione” —quella del trascendente.

Dopo essere stato tradotto anche in francese e in spagnolo, oltre che in inglese, l’esperienza cui sto pensando adesso è quella di autotradurmi in inglese —anche se il mio rapporto fondamentale, per opere più lunghe, sarà sempre la collaborazione con traduttori e traduttrici.

     

PAOLO VALESIO
foto di Paolo Righi

Saggista, poeta e narratore, Paolo Valesio è Giuseppe Ungaretti Professor Emeritus in Italian Literature dell’Università di Columbia a New York, dove ha concluso la sua carriera accademica dopo gli insegnamenti a New York University e a Yale University; dal 2013 è Presidente del Centro Studi Sara Valesio – CSSV a Bologna (www.centrostudisaravalesio.com). A Yale, Valesio ha fondato e diretto lo “Yale Poetry Group”, riunione bisettimanale di discussioni e letture poetiche (1993-2003). Ha inoltre fondato e diretto la rivista “Yale Italian Poetry – YIP” (1997-2005), che dal 2006 a Columbia è divenuta “Italian Poetry Review – IPR” e che opera fra New York, Firenze e Bologna. Valesio presiede la giuria del Premio Internazionale di Poesia Piero Alinari a Firenze, dirige la collana di teatro “Persona” per puntoacapo Editrice. Collabora al quotidiano online “ilSussidiario.net” e tiene un blog di critica e letteratura (www.paolovalesio.wordpress.com).
L’area di ricerca di Valesio include la letteratura italiana (moderna e contemporanea) su sfondo comparativo; retorica e spiritualità; teoria e pratica della scrittura creativa.
Ha scritto saggi e libri di critica (fra cui Gabriele d’Annunzio. The Dark Flame), curato e co-curato testi letterari (fra cui il romanzo postumo Venezianella e Studentaccio di Filippo Tommaso Marinetti) e collabora a varie riviste e giornali. È autore di tre romanzi: L’ospedale di Manhattan (1978) e Il regno doloroso (1983) e Dialogo coi volanti (1997); di una raccolta di racconti, S’incontrano gli amanti (1993), di una novella, Tradimenti (1994), e di un poema drammatico in nove scene, Figlio dell’Uomo a Corcovado, rappresentato a San Miniato (1993) e a Salerno (1997) e parzialmente pubblicato in rivista.
In particolare, Paolo Valesio ha pubblicato 21 raccolte di poesie: Prose in poesia (1979), La rosa verde(1987); Dialogo del falco e dell’avvoltoio (1987); Le isole del lago(1990); La campagna dell’Ottantasette (1990); Analogia del mondo (1992, Premio di poesia “Città di San Vito al Tagliamento”); Nightchant (1995), Sonetos profanos y sacros (originale italiano e traduzione spagnola, 1996); Avventure dell’Uomo e del Figlio (1996); Anniversari(1999); Piazza delle preghiere massacrate (1999, Premio “DeltaPOesia” – rappresentato in versione teatrale a Roma e a New York), Dardi (2000); Every Afternoon Can Make the World Stand Still / Ogni meriggio può arrestare il mondo (originale italiano e traduzione inglese, 2002, seconda edizione 2005 – rappresentato in versione teatrale a Forlì e a Venezia); Volano in cento (originale italiano, traduzione spagnola e traduzione inglese, 2002); Il cuore del girasole(2006, Premio “Colli del Tronto”, 2007); Il volto quasi umano(2009); La mezzanotte di Spoleto (2013; seconda edizione riveduta e corretta (2018); pubblicata in versione bilingue: Midnight in Spoleto / La Mezzanotte di Spoleto,  con testo originale italiano e traduzione inglese di Todd Portnowitz (2017)); l’antologia bilingue Il servo rosso / The Red Servant (2016), curata da Graziella Sidoli e tradotta da Graziella Sidoli e Michael Palma; Esploratrici Solitarie. Poesie 1990-2017 (2018).
Valesio ha vinto, fra altri, il Premio Speciale alla XXIX edizione del Premio Letterario Camaiore (2017) con Il servo rosso, il premio alla carriera “Civetta di Minerva”, Starze di Summonte (Avellino), 2018 e la sezione di poesia “Lorenzo Calogero” del premio letterario Rhegium Julii in Reggio Calabria, 2018 con Esploratrici solitarie, 2018.
Sue poesie sono state tradotte in inglese, spagnolo, francese e romeno
La sua Tetralogia in corso è costituita da un insieme di quattro diversi “romanzi quotidiani”, in massima parte ancora inediti.

       

Paolo Figar, Appena assopita, 2016

      

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