Intervista a Riccardo Frolloni sulla traduzione di Richard Harrison, a cura di Anna Belozorovitch

Intervista a Riccardo Frolloni sulla traduzione di Richard Harrison, a cura di Anna Belozorovitch.

    

    

Su questo numero pubblichiamo poesie di Richard Harrison, da lei tradotte. Ma insieme ad esse vorremmo far sentire anche la voce del traduttore.

In primo luogo, sono molto interessata alla sua esperienza di traduzione in generale. Lei stesso scrive, ha esperienza di veder nascere dei versi originali. Crede che ciò sia importante per poter tradurre poesia? Crede che ci sia, in questo, una differenza rispetto alla traduzione di prosa? Crede che sia importante un’affinità tematica o di stile tra la poesia che eventualmente scrive il traduttore e quella dell’autore tradotto?

Ungaretti tuonava “per essere un traduttore devi essere un po’ Dio e un po’ assassino”, la traduzione ha in sé il germe del tragico, un destino di fallimento insito nel suo farsi, necessaria e allo stesso tempo inevitabilmente frustrante. Vista da questo punto di vista, essendo una creazione artistica e quindi affine più al problema che alla soluzione, credo che la traduzione della poesia sia affare dei poeti. Non riesco ad immaginare un traslato per la poesia, probabile sia vero anche per la prosa, ma il verso, l’andare a capo, il ritmo, l’aria, necessitano di mani callose di versi. Poi i fatti mi smentiscono, ci sono moltissimi traduttori eccezionali che non sono poeti, Massimo Bacigalupo, gli amici Andrea Sirotti e Paola Del Zoppo, per citare i primi che mi vengono in mente. D’altra parte, leggo le traduzioni di Shakespeare di Montale, il Faust di Fortini, o le più recenti traduzioni del poeta Alessandro Ceni, e resto sbalordito. Leggo i grandi che nel passato hanno trattato dell’arte del tradurre, e il problema, il dilemma, è sempre quello che mi domandi: solo un poeta può tradurre un poeta? Ci diventi matto a pensarci. E’ l’amore che rimescola sempre le carte a suo favore, e così rispondo alla seconda domanda: devi amare la poesia, quella di quello specifico autore in quel momento della tua vita, nel miracolo del vostro incontro, per tradurla, dirti che è necessario farlo, sarebbe un delitto se non lo facessi. Credo questo sentire sia molto affine alla creazione, ma alla fine si commette sempre omicidio, cerca almeno di essere delicato.

     

Prima ho menzionato la “nascita di versi originali”. Quanto è “originale”, secondo lei, il testo poetico tradotto? Mi piacerebbe chiederle se questo confine (e nello specifico nel caso di queste poesie di Richard Harrison) la sfiora, se lo intravvede, se è fonte di inquietudine. Vi è un sentimento di possesso nei confronti dei versi che traduciamo? È un sentimento utile o necessario, o piuttosto il contrario?

Il testo tradotto è un po’ come un gemello siamese, è legato indissolubilmente all’originale ma vive anche di vita propria, obbedisce ad una logica altra, quella della poesia italiana contemporanea, del suo verso. E’ una soglia labile, mi sto inoltrando in terra straniera, riconosco che la geografia, la forma degli edifici, i volti delle persone sono comunque diversi da quelli che passano per casa mia, eppure anche qui mi sento a casa, mi piace, mi ritrovo, ma come lo spiego ai miei amici? Così mi invento una lingua, è come quando racconti un sogno, hai un tono, uno sguardo specifico, strano; Ben Lerner parlerebbe della discrepanza tra poesia virtuale, ispirata, e poesia reale, quella scritta. E’ sicuramente fonte d’inquietudine, non pensi mai di esserci riuscito, sono poi gli altri, i lettori, che ti dicono sì, ho capito, qualcosa si è mosso. Il possesso c’è ma in qualche modo più discreto. Penso a quando lo scorso giugno abbiamo presentato Harrison a Bologna e il pubblico, finita la lettura, voleva anche il mio autografo. Ne ridevo, è comunque lui l’autore, il poeta. Eppure molti di loro sono stati toccati dalla mia traduzione, rimanendo estranei alla lingua originale. Credo che sia più utile credere nel servizio che si sta dando, il tributo ad una poesia che si ama.

      

Vorrei chiederle qualcosa di più specifico riguardo i testi che pubblichiamo su questo numero di Versante Ripido. Le avevo suggerito di inviarmi testi che avessero rappresentato per lei una maggiore sfida, o le avessero dato maggiore soddisfazione, nel tradurre. Da cosa è data questa soddisfazione? Cosa ha costituito maggiore sfida? Come potrebbe descrivere il suo rapporto con questi testi?

Riprodurre il parlato, il linguaggio piano, credo sia una sfida per chiunque, quella naturalezza, quella leggerezza che nella poesia diventa poi un macigno di significato. Così ho trovato maggiore difficoltà nei passaggi più delicati, quelli dove la dolcezza si faceva scandalosa, come succede sempre con la grande poesia, mi sono sentito molto piccolo e inesperto, nei miei versi non avevo mai raggiunto quella maestria, quella precisione. Come dicevo non mi sono reso conto del risultato finché non ho visto la reazione di chi ascoltava quelle poesie per la prima volta. La soddisfazione è dovuta anche dal duro lavoro, che ha coinvolto diverse persone, amici, poeti, intorno ai passaggi più ostici, ma anche il supporto psicologico, vedere questi fieri del tuo lavoro. Una volta uscito il libro ho rimosso subito la fatica, le ansie, e anche la mia traduzione, mi tornavano in mente solo quei versi meravigliosi di cui ero ancora innamorato, finché anche la mia poesia non ne è uscita trasformata, figlia di quella.

        

Quanto è utile “capire” del poeta, della sua persona, per sentire di poter trasmettere immagini e pensieri di cui lui è autore? Tradurre un poeta vivente significa anche poterlo interpellare per ottenere chiarimenti. Ciò è avvenuto nel corso del suo lavoro di traduzione? Lo ritiene un passaggio necessario?

Aver avuto un fitto carteggio online con Richard è stata un’esperienza essenziale, mi ha sostenuto per tutta la stesura, ha dato fiducia a un giovane poeta apparso improvvisamente nella sua vita, poteva benissimo non interessarsi di me, forse io nei suoi panni non lo avrei fatto. Così gli chiedevo di chiarirmi le ombre, i significati nascosti, e anche questo credo sia stato per lui una bella sfida, tradurre in altre parole ciò che aveva già detto in poesia una volta. Quando ci siamo incontrati per la prima volta all’aeroporto di Bologna, non sapevo cosa aspettarmi, lui non sapeva di trovarmi lì ad aspettarlo, ci siamo riconosciuti e abbracciati, non tutti i canadesi sono espansivi, è stato un gesto importante. Nei giorni successivi abbiamo mangiato, sbevazzato, parlato della poesia contemporanea italiana, del suo momento di passaggio, della rabbia di noi giovani poeti, e lui ne è rimasto affascinato. Ancora oggi siamo in contatto per nuovi progetti, nuovi possibili incontri, approfondimenti, scambi. Mi dice che vuole imparare l’italiano, che prenderà lezioni questo autunno.

           

Lussia di Uanis, "Autoritratto espressionista" - in apertura "Madre"
Lussia di Uanis, “Autoritratto espressionista” – in apertura “Madre”

 

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