Intervista a Rosario Bocchino, a cura di Flavio Almerighi.
La poesia ha avuto, specie nel decennio scorso, la grande opportunità del web che la veicolò e rese più vicina e fruibile a una platea molto più vasta di quella tradizionale. Sono nati, cresciuti, finiti, nel breve volgere di pochi anni innumerevoli blog e siti di scrittura dedicati al “fenomeno poesia di massa” che per un po’ tenne banco più che altro come fatto di costume. Molti di questi siti costituivano vere e proprie “piazze” virtuali dove molti col pallino o l’alibi della scrittura si sono trovati, hanno dispensato gioielli o consumato enormi nefandezze, spesso non capiti migliaia di utenti autori. E’ stato il periodo del commento seriale, del “bello mi piace”, della community virtuale e della non scuola. Un tempo che non è durato a lungo, anche se alcuni siti dedicati alla poesia e aperti alle pubblicazioni degli utenti sono ancora vivi e vegeti ai margini dei social network. Uno degli incontri per me più significativi è stato “sarino” questo il nick name utilizzato da Rosario Bocchino, autore mai pubblicato su carta, sconosciuto ai circoli ufficiali della poesia, il cui talento e continuo approfondimento arricchito da molte letture, lo hanno trasformato in un autore che ben poco ha da invidiare ad altri autori magari più paludati, conosciuti e “ufficiali” di lui. Nell’occasione ho avuto il piacere di intervistarlo.
Rosario, come è stato il tuo approccio con la web poesia e cosa ne hai tratto?
Tutto è nato quasi per caso, da uno scambio di vedute con un’amica sulle potenzialità e opportunità del web. Così tra siti e forum cominciai a girovagare su internet alla ricerca di una sponda dove attraccare e finalmente trovai quella che mi sembrava adatta o più corrispondente alle mie modeste capacità. Un sito sul quale ancora scrivo e che reputo una stanza confortevole in termini di aggregazione e cultura. Per chi, come me, aveva coltivato la passione della scrittura nel modo più intimo e silenzioso, trovare un confronto -sebbene a tratti complicato- divenne un esercizio mentale alquanto impegnativo ma enormemente stimolante: era giunto il momento di fare due chiacchiere con le mie emozioni e convincerle a diventare maggiorenni.
Cosa ha significato per te l’impatto con altri autori e soprattutto come ha contribuito alla tua crescita?
Credo che alla base di un confronto sano, diretto ed efficace, prodromico e consequenziale, affinché risulti bagaglio e sperimentazione diretta, ci debba essere un’interazione fattuale e percettiva/emozionale che prescinda dalla capacità di riconoscersi unici ma riconosca e valorizzi la poliedricità e la diversità di pensiero. Detto questo posso affermare che alcuni autori conosciuti in rete si sono rivelati fondamentali per la mia crescita, in qualche hanno saputo modellare quella texture poetica che necessitava (come necessita tuttora) di alcune smussate e/o limature, sebbene il tratto nativo sia rimasto fondamentalmente quello originale. Naturalmente una di quelle persone è Flavio Almerighi.
Spesso accompagni le tue poesie a video musicali, come nascono le tue poesie e questi accostamenti?
Io penso che la voce al pari della musica sia un pentagramma, una sorta di luogo ideale dove dichiararsi idea, impressione, ispirazione e non importa se in maniera scritta, parlata o musicata, perché diventi “canto” emozionante/emozionale basta la magia di un determinato momento, quell’attimo in cui tutto è possibile. Credo che il matrimonio musica/scrittura riesca a miscelare meravigliosamente la seduzione dei versi e l’eufonia delle note. Ritengo che scrivere con un sottofondo musicale provochi una sorta di trance in cui perdersi è sinonimo d’evasione, libertà, spiritualità. Personalmente ho un rapporto viscerale con la musica e sebbene non sappia suonare alcuno strumento, trovo nella “poesia/musicata” un sorta di assoluzione, in qualche modo è come se i versi surrogassero una chitarra o un pianoforte.
Quali sono i poeti del tuo personalissimo Pantheon?
Indubbiamente la voglia di conoscenza mi ha portato ad esplorare stili e correnti alquanto variegati, ma ho una particolare predilezione per la poesia legata al sud del mondo. Sorvolando su mostri sacri come Pessoa, Neruda o Borges amo molto Juan Ramón Jiménez, Titos Patrikios, Alejandra Pizarnik, Reinaldo Arenas, Izet Sarajlic. Ma potrei elencarne molti altri.
Come vedi lo stato di salute della poesia nell’Italia attuale?
Non possiedo il background necessario né la capacità espositiva adeguata per risponderti ma almeno una riflessione mi pare doverosa. Penso che attualmente ci sia poco spazio per la poesia nell’accezione più alta, mi pare che la scrittura -in senso lato- sia ammantata di troppa e “rumorosa” tecnologia, che se in linea di principio si presta ad essere un ottimo viatico per comunicare, molto spesso diviene sinonimo di brutta divulgazione, a tratti fredda e distaccata, troppo autoreferenziale e dispersiva per essere veramente aggregante e partecipativa. Detto ciò, mi piace pensare che onorare la parola rappresenti ancora una missione in termini di comunità, socialità, corrispondenza.
Alcune sue poesie:
mediani
il cuore era abbastanza nuovo
per innalzare castelli
noi del resto apparivamo giganti
accettavamo le rimesse
come fossero diagonali e ripartenze :
il campo aveva le porte di mare
due reti per riempire il mondo
e qualche calcio di scogli
ci rendeva capitani
non conoscevamo panchine
le tattiche di contropiede
erano le prospettive per resistere
soprattutto in scia a ragazze timide
alla fine ci dimenticammo dei gol
ma amammo senza dubbio il vento
e le ali da mediani
-dell’unico cambio di maglia
ricordo il batticuore di Anna
e le sue gambe da estremo difensore-
solo il buio preme per un diverso confine
è una luce di traverso la vista dei finestrini
umidi di pioggia attraversano il modo della strada
come fossero solitudini
il fiato invece ha solo il rumore del vetro
al prezzo della salita
del resto l’asfalto si pone sempre in disparte
solo il buio preme per un diverso confine
ringhiere e tornanti assistono
una luna di traverso
la ragazza appoggiata ai suoi anni
non ha misure invidiabili
ma riassume il gesto del tempo
in un vuoto di maglietta che non necessita
di alcuna scalata
le mani spese in tasti e codici
assomigliano al grigio dei muri
scomposte e confuse
dettano chissà quali delusioni
dagli alberi nessun cenno
nemmeno la conoscenza del vento
la panchina intanto raccoglie un po’ di peso
il modo intimo di scegliere i passi
quando il lato disinvolto del mondo
è mestiere da grandi
la parola ha voce d’inverno
solo il modo intimo di scegliere i passi
diviene conterraneo e vicino
tanto da sentirsi ancora bambini
a volte però non rimane
che disfare giochi
perché di quel senso smarrito
di corse e occhi
rimane un oggetto di vetro
troppo fragile per non sentirsi barlume
come le assenze delle panchine
che contrastano il tempo
con inganni di legno
in distanze di volti
quando in distanze di volti
mancarono gli anni dei vecchi
furono lacrime i marciapiedi
i passi durarono alle ombre
come in mancanza di foglie
e le altitudini vissero
una misera intrusione d’alberi
venne il vento che in nome di altri
non decise per alcuna voce
e la pioggia grigia d’emozione
volò in cadenza
anche il silenzio
inverso e condominiale
scelse panchine e un fuori orma
lungo la strada
i volti riempirono d’assenza
le traiettorie e non ebbero sorrisi
i corpi tra la gente
nemmeno per dettare una stagione
poi in abitudine al tempo
gli uccelli si fermarono a nutrire sogni
ribadisco quanto detto nell’altro articolo riferito alle mie poesie. Grazie!