Intervista a Antonio Rossi e tre poesie, a cura di Rosa Pierno

Intervista a Antonio Rossi e tre poesie, a cura di Rosa Pierno.

    

    

antonio rossiAntonio Rossi, nato nel 1952 a Maroggia (Canton Ticino), ha studiato letteratura italiana alle Università di Friburgo (Svizzera) e di Firenze.
Ha pubblicato le raccolte di poesie Ricognizioni (Bellinzona, Casagrande, 1979, prefazione di Giovanni Raboni; 2aediz. 2001), Diafonie (Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro di Vanni Scheiwiller, 1995, prefazione di Stefano Agosti), Sesterno (Castel Maggiore-Bologna, Book Editore, 2005) e Brevis altera (Ro Ferrarese, Book Editore, 2015); con il pittore Samuele Gabai ha realizzato il volume di poesie e acqueforti Glyphé (Mendrisio, Stucchi, 1989).
Si è occupato di poesia italiana del Quattro-Cinquecento, in particolare del poeta-musico Serafino Aquilano, delle cui opere ha curato l’edizione commentata (Le rime di Serafino Aquilano in musica, Firenze, Olschki, 1999, in collaborazione con Giuseppina La Face Bianconi; Strambotti, Milano-Parma, Fondazione Pietro Bembo-Ugo Guanda, 2002; Sonetti e altre rime, Roma, Bulzoni, 2005).
Ha tradotto la raccolta Gedichte (1909) di Robert Walser (Poesie. Con le illustrazioni di Karl Walser, Bellinzona, Casagrande, 2000) e, del medesimo autore, una scelta di microgrammi (ospitata nel catalogo della mostra Robert Walser, I microgrammi, a cura di Antonio Rossi, con la collaborazione di Anna Fattori e Simone Soldini, Mendrisio, Casa Croci, 2015). Ha inoltre tradotto Sage (Leggenda) di Paul Wühr (a cura di Nanni Cagnone, con tempere su carta di Sandro Chia, Modena, Edizioni Galleria Mazzoli, 2015) e L’homme flottant (L’uomo flottante) di Jean Flaminien (Ro Ferrarese, Book Editore, 2016).
Abita ad Arzo (Canton Ticino).

Vi proponiamo un’intervista che Antonio Rossi ha concesso a Rosa Pierno per Versante Ripido e tre sue poesie da Brevis altera (Ro Ferrarese, Book Editore, 2015).

       

Oltre che poeta, sei anche traduttore sia dal tedesco (le poesie di Robert Walser, Paul Wühr e Magdalena Rüetschi) sia dal francese (Jean Flaminien). Hai inoltre compiuto studi sulla poesia italiana del Quattrocento e del Cinquecento, in particolare su Serafino Aquilano e hai da poco curato la mostra I microgrammidi Robert Walser, effettuando anche la traduzione di una scelta di testi, tenutasi presso Casa Croci Mendrisio nel 2015-2016 e testimoniata da un pregevolissimo libro-catalogo. A che cosa stai rivolgendo attualmente la tua attenzione? Quali progetti per il 2019?

In questo periodo non sto lavorando a uno specifico progetto; vi sono sulla scrivania degli abbozzi di poesia, la versione appena avviata di alcuni testi di Robert Walser, una serie di appunti su poesia e musica nel Rinascimento. Diciamo che mi dedico a singole, e per me autonome, entità, che un giorno entreranno forse a far parte di un più vasto e articolato organismo. È questa, peraltro, una situazione che può in sé rivelarsi vantaggiosa; anche se mi è accaduto, naturalmente, di essere coinvolto in progetti che fin dall’inizio erano provvisti di un loro (sia pure indicativo) perimetro.

       

Raffinatissimo e misuratissimo nella produzione poetica, i tuoi libri si susseguono con una cadenza più o meno decennale, e ogni libro esprime un contenuto che è stato fuso in una forma espressiva originale. Scrivere per te è saggiare i limiti della sintassi, forgiando le parole che meglio concorrono a dissolverne i prevedibili andamenti. Si ha la sensazione, infatti, che la tua sia una poesia che richieda al lettore di non accettarne mai supinamente il dettato, ma di porsi domande e di avere il coraggio di svellere il noto per affrontare insieme a te, alla lettura delle tue poesie, l’ignoto.

Per la mia prima raccolta di poesie (uscita nel 1979) avevo scelto il titolo Ricognizioni, intendendo così porre in risalto il senso che per me aveva avuto l’elaborazione di quei testi, ossia un’esplorazione, attraverso la scrittura, del rapporto fra se stessi e il reale; una ricerca dei confini della propria interiorità e, anche, delle potenzialità espressive della lingua e delle strutture verbali (a cominciare dalla sintassi). Questo, all’incirca, il significato che la pratica della poesia per me rivestiva, e che tuttora riveste. Tanto più efficace sarà ai miei occhi la scrittura poetica, quanto più saprà far emergere di volta in volta punti di vista, indizi, elementi in precedenza non considerati o immaginati; evitando, per quanto possibile, di appoggiarsi a contenuti largamente acquisiti, se non logori.

     

Sei un poeta attentissimo al dettato logico e alla digressione, pur di ampliare la ricchezza e la complessità semantica. Abbiamo visto in atto, in particolare nella raccolta Brevis Altera, Book Editore, 2015, un modo particolarissimo di costruire lo sviluppo argomentativo delle poesie sia affiancando verbi dal significato opposto (“incidere o lenire”) sia immettendo elenchi di oggetti a cui i due verbi si riferiscono, sì che il ragionamento sembra di fatto sabotato dall’interno. A tal punto che ogni poesia si chiude con un’ipotesi. È una vera e propria presa di posizione rispetto al reale, alla possibilità che abbiamo di ordinarlo e dominarlo, non proprio uno scacco, ma la denuncia di una difficoltà irrisolvibile. Ce lo confermi?

In effetti, lo sviluppo argomentativo dei testi di Brevis altera è caratterizzato da un andamento frastagliato e mutevole. Spesso un’immagine, o affermazione, o tema, o costruzione formale, vengono messi in forse, trasformati oppure negati da un elemento contiguo (o distanziato), che a sua volta è sottoposto a questo processo. Del resto, quella della contraddittorietà è una realtà che ogni giorno ciascuno può ampiamente sperimentare. Non vi è, da parte mia, l’intenzione di provare a ordinare l’instabile e inafferrabile complessità. Mi interessa, per contro, registrarne i movimenti, gli scarti, le oscillazioni in un determinato spazio e tempo; e, anche, avere la sensazione di aderirvi, di interagire con essa. È questa, aggiungerei, una situazione pure ravvisabile nelle precedenti raccolte; ad esempio, Diafonie (1995) rinvia fin dal titolo alla dimensione della dissonanza e del contrasto di suoni e voci.

    

Le tue raccolte poetiche paiono delle boe posizionate nella tua esistenza, veri e propri punti saldi, traguardi raggiunti, testimonianza di stadi di comprensione della realtà e di te stesso. Ciò è anche espressione di una posizione morale legata alla scrittura?

I testi “messi da parte” nel corso dei mesi e degli anni possiedono una vita (e una storia) autonoma; tuttavia, si fa strada a un certo punto il desiderio di riunire questi testi in un aggregato all’interno del quale essi possano sia esprimere se stessi, sia entrare in relazione con altre composizioni. L’immagine della boa (un segnale che affiora da una realtà sotterranea) rispecchia fedelmente il significato di questo procedimento. Per quanto riguarda la posizione morale: sì, avverto la necessità di una componente etica strettamente congiunta alla propria scrittura. Come questa esigenza si manifesti in concreto non è facile da determinare. Forse una risposta potrebbe essere la ricerca di un rigore nel lavoro sulla parola, di una sua essenzialità e “inderogabilità”; anche, la diffidenza nei confronti degli allettamenti provenienti dai vari “ambienti”.

      

Sei presente nelle riviste italiane e hai collaborato spesso con Anterem, rivista attraverso la quale ho avuto la possibilità di conoscere il tuo lavoro. Non ritieni sia importante un maggiore incremento della tua voce in Italia? Oppure ritieni che la dimensione appartata sia per te la più congeniale?

La Galassia Gutenberg descritta da Marshall McLuhan si è allargata a dismisura, da tempo viviamo immersi in un perdurante ingorgo comunicativo. In tale situazione è indispensabile delimitare degli spazi entro cui praticare la scrittura; la dimensione “appartata” rappresenta perciò una condizione necessaria. Sono la persona meno indicata per dire se sia importante una maggiore conoscenza della mia poesia in Italia. Ho avuto sin qui lettori e interpreti originali e raffinati, diversi fra di loro per formazione, esperienze e attività svolte; confido di averne anche in futuro. Magari nella prospettiva suggerita dall’autore bernese Kurt Marti: «Quasi ogni scrittore dichiara di scrivere per se stesso. Ma proprio in tal modo egli scrive per tutti coloro che, allontanandosi dal proprio io, sono incuriositi da questo suo “scrivere per se stesso”».

      

La traduzione, che tu alterni alla tua scrittura poetica, è un modo per allontanarti da te e avvicinarti a cose distanti ma stimolanti? Che tipo di occasione e di esperienza è per te la traduzione?

Trovo utile guardare oltre il ristretto habitus personale; è ciò che accade, ad esempio, attraverso il lavoro di traduzione, che richiede un confronto con autori appartenenti a lingue e culture diverse. Per quanto mi riguarda, tradurre credo sia una risposta al desiderio di avere un contatto il più possibile ravvicinato con un testo. L’opera viene all’inizio percorsa nella lingua originale, interrogata, qua e là tradotta; segue a volte un lavoro più ampio ed accurato, fino a giungere a una versione, si spera, “presentabile”. Nel “trasportar di là” (secondo l’etimo di tradurre), sarà opportuno andare alla ricerca della parola (della frase) “giusta”, di un registro linguistico-stilistico plausibile, nonché del tono, del “respiro” che contrassegna il testo di partenza; e ciò nonostante la consapevolezza che il “proprium” di quest’ultimo rimarrà probabilmente intrasportabile, tenacemente ancorato al suo punto d’origine.

     

Fra le tue amicizie si contano molti artisti e persone che lavorano attivamente nel mondo dell’arte e tu stesso la segui con grande attenzione, vero?

Nel periodo degli studi universitari ho incontrato diversi pittori e scultori, la maggior parte dei quali frequentava (o aveva frequentato) l’Accademia di Brera; spesso vi era con essi uno scambio di opinioni ed esperienze. Il confronto (e talvolta la collaborazione) con artisti che operano in territori contigui a quello letterario è poi proseguito negli anni. Seguo l’arte, ho viaggiato (e viaggio) per vedere le opere nella loro concretezza e “veridicità”. E può succedere che qualcuna di queste, durante la giornata, all’improvviso riaffiori: da Siracusa il Seppellimento di Santa Lucia del Caravaggio, dal Kunstmuseum di Basilea La morte e la fanciulla di Hans Baldung Grien, da Santa Felicita di Firenze la Deposizione del Pontormo, dal Prado il Cane interrato nella rena di Goya, da Città di Castello le Combustioni di Burri; o anche, da Arles, il portale di Saint-Trophime…

*

     

Una particella di fuoco
da un braciere fuoriuscita
e a ovatta puntualmente
sorretta o illesa capigliatura
sfuggita forse impoverita non è
se aspetto di perlina o luminosa
goccia non assume ma esente
da fidato interlocutore suo
tragitto compie.

*

Lama e vertice
quale propensa superficie
con esattezza incidere
o lenire senza che uno strato
danno subisca o sfregio
così che intatto rimanga
nella frequente penombra
forse già sanno.

*

Nei roveti cosa indugia?
Di una tunica il frammento più sgargiante
un manufatto pensile dei carboni
vilipesi una rete che il perdigiorno
delude
o su innocuo traliccio una concisa
luminaria; in disuso
è un oblò spaiato un mocassino
e vistosa infiorescenza ha la pianta perenne.

*

                   

opere di Natalia Bondarenko
opere di Natalia Bondarenko

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