Intervista a Michail Šelechov, a cura di Anna Belozorovitch.
Michail Šelechov nasce nel 1954 a Plotnica, paese della regione di Brėst (Bielorussia) in una famiglia di insegnanti. Dopo la facoltà di giornalismo presso l’Università Statale Bielorussa, termina il Corso superiore per sceneggiatori e registi di Goskino (Commissione di Stato Sovietica per il Cinema) e il Corso superiore di letteratura all’Istituto A.M. Gorkij di Mosca.
Poeta, sceneggiatore, drammaturgo, saggista, autore di prosa, ha lavorato presso redazioni giornalistiche e televisive e collaborato con studi cinematografici.
Autore di cinque pubblicazioni in poesia («Слово ненастное, слово лазурное» [Slovo nenastnoe, slovo lazurnoe / Parola piovosa, parola azzurra], «Ангел уличный» [Angel uličnyj / Angelo di strada], «Песни родильного отделения» [Pesni rodil’nogo otdelenija / Canti dal reparto di maternità], e, in lingua bielorussa, «Сын яблынi» [Syn jablyni / Figlio del melo]) ha scritto numerose opere teatrali e romanzi. Oltre alle sceneggiature cinematografiche, ha scritto diverse favole, molte delle quali hanno dato origine a film d’animazione.
Vincitore del Premio letterario A. Gorkij (1988) per l’opera d’esordio, è stato premiato anche per la letteratura d’infanzia (Zavetnaja mečta 2007), ha ricevuto riconoscimenti internazionali (Russkij STIL-2009, Germania), ed è stato finalista in diverse sezioni (poesia, prosa, drammaturgia) di numerosi importanti premi russi (si ricordano tra questi i riconoscimenti dell’Unione degli scrittori russi, 2005 e 2010, per le monografie su A. Puškin e F. Tjutčev). Ha inoltre ricevuto diversi premi per la sceneggiatura, sia da enti sovietici, sia russi.
Sue poesie sono uscite su diverse riviste letterarie sovietiche, come Novyj mir, Družba narodov, Junost’, e in antologie dedicate alla poesia russa del XX e XXI secolo.
La mia prima domanda è sulla sua storia come poeta. Mi racconti di come ha cominciato a scrivere. Quando ha scoperto dell’esistenza della poesia? Come l’ha distinta da altro? Che cosa significava per lei, inizialmente, comporre versi e come è cambiato con il tempo?
Il mio primo componimento, fatto di due soli versi, nacque quando avevo tre anni attraversando il ponte sopra un fiume:
А под мостом –
баба с хвостом.
E sotto il ponte
una donna con la coda [i versi sono rimati in originale]
Avevo intravisto nel fiume una sirena, una fata delle acque, e gridai dall’emozione. I miei genitori se lo ricordarono e me lo raccontarono. Quindi, i miei primi versi sono stati dedicati a una donna. E ciò è normale. La donna è l’altra metà dell’uomo. Ho sempre scritto a partire dall’emozione verso una donna. O dal dolore, dato dalla perdita di una donna. O dall’angoscia, data dalla ricerca di una donna. È stato questo l’algoritmo dei miei versi. L’immagine della donna, l’attrazione che esercita, la sua bellezza, sono stati e restano la parola chiave della mia vita e del mio essere. Ho conosciuto sirene, driadi, ondine, fate, streghe e fattucchiere. E di tutte loro ho scritto.
Solitamente, scopriamo dell’esistenza della poesia grazie alle canzoni: le canzoni sono poesia. La poesia è musica. Le mie prime canzoni sono diventate le mie poesie. Più tardi avrei preso la chitarra e cantato le mie canzoni: ne ho scritte molte. Non le so suonare bene, ma posso cantare a cappella.
E quando invece è subentrato l’intelletto, la ragione, quando ho iniziato ad amare la filosofia e la religione, è arrivato il momento della prosa. La prosa è arrivata un passo dopo la poesia e ha cominciato a conquistarmi. Sin da quando ero bambino mi sdoppiavo: mi piaceva inventare storie, favole, parabole. Alle donne regalavo le mie favole e ne ho inventate a centinaia. Alcune sono diventate cartoni animati, mentre la gran parte riposa nei miei cassetti.
Là riposano anche romanzi, opere teatrali, saggi filosofici. Ma ancora più poesie: quindicimila almeno. Non male, come grafomane! Ebbene, non sono mai stato pigro: né con una donna né di fronte al foglio di carta, in quanto entrambi sono tabula rasa, una macchia bianca, mentre l’uomo è un eterno Ulisse e non ama le macchie bianche.
Mi piacerebbe sapere di più della sua esperienza come sceneggiatore e drammaturgo. Come partecipa, se partecipa, secondo lei, la poesia in questo tipo di lavoro? Avrebbe scritto le stesse sceneggiature e gli stessi testi teatrali se non avesse scritto poesia?
I grandi della cinematografia considerano una sceneggiatura come un’opera poetica. Io me ne sono reso conto nella pratica. Una buona sceneggiatura porta in sé la formula poetica, la musica, la laconicità e il ritmo della poesia. E ancora, una buona sceneggiatura è un romanzo, e il segreto dei grandi romanzi, ancora una volta, sta nella poesia, nella strofa poetica che dà inizio al tutto. Può essere una citazione dalla Bibbia, da Omero, da Confucio, da Dante, da Shakespeare, da Nietzsche. Ma vi è sempre obbligatoriamente una magica pietrina poetica.
E ancora, il cinema è fatto di quadri, tanti quadri. E quindi bisogna amare i quadri, essere un pittore. Io stesso ho disegnato, sono stato grafico, ho sperimentato la pittura, poi abbandonata. Ma l’esperienza resta. Ho terminato a Mosca dei corsi d’elite per sceneggiatori e registi nel 1984. Avevamo come docenti i migliori cineasti dell’Unione Sovietica. Andrej Tarkovskij veniva da Parigi a farci seminari, da Pietroburgo arrivava il celebre filosofo Lev Gumilev.
A partire dalle mie sceneggiature sono stati girati cinque film e una serie per la televisione, mentre le favole si sono trasformate in una decina di cartoni animati. Ho scritto anche numerosi testi per il teatro ed ero ispirato da Shakespeare, dai cinque atti in versi, da dimensioni e tradizioni classiche: per me era il maestro. Nessuno di questi testi è andato in scena però: non sono un grande venditore delle mie opere. Per me l’importante è scrivere. Dopo inizio un nuovo progetto. Nella creazione sono un Don Giovanni, vivo l’incanto della novità.
Il romanzo, l’opera teatrale, la parabola o la favola, sono sempre per me poesia in prosa. Tutte le persone, tutti gli animali, le piante, elementi e oggetti del Mondo si esprimono attraverso la poesia, solo che non se ne rendono conto. Io me ne sono reso conto, e grazie a ciò ho vissuto tante vite.
Lei è bielorusso, per gran parte della sua vita è stato cittadino sovietico, scrive in russo ma ha anche composto in bielorusso. Quale considera essere la sua lingua madre? Quale significato ha per lei scrivere in una o altra lingua?
Mia madre è russa, una donna mora con occhi scuri, una cosacca del Don; mio padre è bielorusso, chiarissimo, con capelli d’oro e occhi azzurri. Queste due forze diverse mi hanno formato. Nella nostra famiglia ci sono ucraini e tatari, c’è anche sangue caucasico: osseti e circassi.
Inoltre, ho amato donne di tante provenienze e ho scritto di loro. Questa è stata per me una spinta: ho scritto in russo, bielorusso, ucraino, polacco, ho provato a farlo in serbo, in inglese, in francese e in ebraico. E le poesie riuscivano. Perché? Perché sentivo la musica della lingua straniera e giocavo con le parole. La rima viene sempre come un gioco e spinge il pensiero.
Per me tutte le lingue sono materne, amo ascoltare le parole degli altri, sfogliare libri di altri posti del mondo. In ogni lingua ho espresso una sfaccettatura dell’anima, sono diversi miei volti.
Sono sempre felice di andare in Cina e l’amo come se fosse una mia patria alternativa. Potrei parlare della Cina all’infinito, per me è lì l’inizio del mondo. La Bibbia dice che il mondo è stato distrutto da un’inondazione. La mitologia cinese parla di antenati che hanno vinto l’inondazione: la Cina non ha conosciuto la morte. E perché no? A me piace questo ottimismo. Purtroppo, non ho imparato il cinese eppure ho un obiettivo: arrivare a conoscere i caratteri e comporre dei versi.
Gesù Cristo è la parola, Dio è il verbo. Questo dice tutto. I versi in lingue diverse sono abiti dello stesso Dio-parola e la parola è una.
Il nostro prossimo numero è dedicato al tema della città e della paura. Che cosa pensa di questo accostamento? Secondo lei la città è il luogo della paura?
La città e la paura sono fratelli gemelli. La prima metropoli è sorta in Cina, poi altre sono state costruite nel Medio Oriente. Le città nascevano per proteggersi dal nemico, ma il nemico ha raggiunto gli uomini dentro la città, come il cavallo di Troia.
Tutti i peccati della città sono nati in antichità, quando non esisteva l’elettricità, la radiazione, i campi magnetici: eppure già allora le città erano cloache, piene di criminalità e psicosi. Perché è la stessa folla a generare, con la propria bioenergia, la corrente elettrica, la radiazione, l’istinto suicida, la cellula tumorale, e via dicendo.
La città è il contenitore delle fobie. E di fobie ne esistono a centinaia: ambulofobia – la paura di girare a piedi; amaxofobia – la paura di guidare un mezzo, amatofobia – paura della polvere. Le persone hanno paura di prendere gli ascensori, hanno paura delle scale mobili della metro, hanno paura dei ponti; gli automobilisti hanno paura dei carri attrezzi. La gente teme i ragni, i parrucchieri, i ghiaccioli: quelle formazioni di ghiaccio appuntite che pendono dai tetti e che forse in Italia non esistono per niente.
Anche gli uomini più potenti della Storia hanno sperimentato la paura, ed anche loro erano abitanti delle città. Giulio Cesare temeva il tuono, Napoleone i cavalli bianchi, Goethe era acrofobico, Gogol’ era terrorizzato di venire sepolto vivo, Stalin non poteva prendere l’aereo.
Gli abitanti delle metropoli sono portati a percepire tutte le catastrofi in maniera più critica rispetto agli abitanti delle piccole città: cadono aerei, avvengono esplosioni nelle metropolitane. I tedeschi temono le lampadine a basso consumo energetico in seguito a una trasmissione televisiva secondo la quale tali lampadine, che fanno utilizzare in tutta Europa, potrebbero essere cancerogene. Gli esperti della trasmissione consigliavano di non utilizzarle per la lettura e di posizionarle lontano dai bambini. Là, le lampadine normali quasi non si trovano più. La gente di campagna non conosce queste angosce, la vita è più povera e più semplice. Negli Stati Uniti oltre un milione e mezzo di persone soffre di un qualche tipo di fobia. Vale a dire, più dell’un percento dei maggiorenni. Ciò significa, però, che la maggioranza delle persone non ne soffre e che la città non la terrorizza.
Molto più triste è il fatto che nelle città non si vedono stelle cadenti, quindi non si possono esprimere desideri. Questo è un peccato. Non soltanto per un poeta. E poi c’è il Grande Internet che permette di stare seduti nella posizione del loto su una cima da qualche parte in Tibet e conversare con il mondo. Credo che le città, con la loro vecchia architettura, i loro orrori e lo smog, siano già arcaiche e destinate al passato.
In questa nostra uscita pubblichiamo una selezione di suoi testi. Potrebbe raccontarci di come sono nati? Sono legati a un unico pensiero, un unico momento della sua vita, un unico libro?
Sono poesie che parlano di angoscia. E sono totalmente reali. Sono stato spesso solo, ho vissuto in città diverse, senza un pezzo di pane o un tetto sulla testa. Mi sono portato dietro soltanto i miei manoscritti. Sono andato verso il fondo e mi sentivo solo contro tutto: il cielo e la terra. Ho molte poesie dove discuto con Dio. Non vi è nulla di strano: l’etimologia di Israele, ad esempio, è “che combatte con Dio”. Ed è il nome di un intero Stato.
L’uomo deve combattere e morire per qualcosa di importante. Qualche volta questo accade nella vita, qualche volta sulla carta.
Nei miei testi ci sono molti combattimenti con la vita e con la morte. E proprio di questo parlano le poesie scelte: “La fabbrica dei trattori” descrive la fabbrica di Minsk, così come l’ho vista io. Tutte le fabbriche sono spaventose; gli operai sono ostaggi e schiavi del nastro trasportatore. Così anche i minatori. La civiltà è spaventosa nel suo insieme, ma presto passeremo dalle rovine della Babilonia al mondo dei mostri di Lovecraft o di Stephen King: quando il mondo di Dio verrà sostituito da organismi geneticamente modificati. Che ne sarà dell’uomo? Il mondo è stato travolto dalla fantascienza profetica, gli uomini attendono una catastrofe globale. Eppure anche la Bibbia parla di Apocalisse. Come allontanarla? Bisogna inchinarsi alla Natura, vedere il cosmo in una goccia d’acqua. Imparare il linguaggio degli uccelli, degli animali e degli alberi. Altrimenti ciò che ci attende è il mondo alla “Matrix”, Cthulhu al posto di Dio, ecc… L’Apocalisse parla di tempi in cui Dio volterà le spalle agli uomini. E gli angeli puniranno il mondo, distruggendo la terra, l’acqua e l’aria. Bisogna rivolgersi a Dio: proprio per questo gli uomini compongono versi. Perché Dio possa sentire che ancora esistiamo al mondo.
Grazie mille.
Grazie a lei, Anna, per la possibilità di condividere pensieri e sentimenti nella splendida e dolce lingua italiana.
Grazie per questa intervista che ci fa conoscere un autore poliedrico, incantato e fantasioso.