Zirudelle: intervista ad Adriano Simoncini a cura di Emanuela Rambaldi
Adriano Simoncini è nato a San Benedetto Val di Sambro, nell’Appennino bolognese, primo di dieci fratelli. È stato insegnante e direttore didattico. Da quarant’anni si occupa di cultura contadina. È condirettore della rivista Savena Setta Sambro.
Opere principali sono Il crepuscolo della civiltà contadina (Grafis,1983), Ugone eroe (Mondadori,1990), Il tempo delle favole (Edagricole,1992), Ai cancelli del vento (Faentina,2001), Vacanza erotica con rapina … e altri racconti (Faentina,2006), Fòia tonda. Detti e fatti della montagna d’un tempo (SSS, 2006).
L’ultimo suo libro, La compagna di banco (SSS, 2015), ne racconta la vicenda adolescenziale vissuta in due collegi della Ciociaria. E dunque i compagni dai dialetti babelici, l’ottusa disciplina, le letture onnivore, gli impossibili amori, le incontrollabili mutazioni somatiche, i primi rovelli dell’inquietudine esistenziale.
Cosa significa zirudella?
Premessa doverosa: sono un montanaro di San Benedetto Val di Sambro che ha scritto sulla cultura contadina delle valli dal Savena al Setta, raccogliendone le testimonianze superstiti fin dagli ’70 del secolo scorso; m’accompagnava e accompagna l’amico e fotografo Mauro Bacci. E rispondo alla domanda. Ho letto che il vocabolo “zirudella”, componimento rimato bolognese (poetico è aggettivo che lo sovrastima) parrebbe derivare da “ghironda”, strumento musicale a corde di origine medievale. In merito non mi pronuncio. A orecchio, noi montanari pensiamo piuttosto a qualcosa che ruzzola, come appunto il dettato in rima della zirudella.
Quando e perché sono nate le zirudelle? In quale territorio e in quali circostanze?
Mi riferisco sempre alle nostre zirudelle montanare, in dialetto zirudèla e zirudèli. Nate quando non so. A memoria d’uomo sempre ne sono state recitate, forse a imitazione dei cantastorie bolognesi che alle fiere di paese salivano da noi a imbonire gli astanti con le loro zirudelle per vendere poi paccottiglia. Imbonitori che rimavano soprattutto storie vere o presunte di accadimenti straordinari e di personaggi eroici nel bene o nel male, ma anche vicende da ridere, di furbi e di sciocchi. Le nostre invece trattavano – e trattano, perché c’è chi ne compone ancora – di quotidianità paesana.
Dunque esistono ancora… Chi le recitava e chi le recita, e in quali occasioni?
Le recitava gente comune, non necessariamente colta, ma dalla parola spicca – come diciamo noi montanari – di intelligenza vivace e di buona memoria. Si trattava infatti di materiale orale. In quali occasioni? Le più varie. Ti propongo un primo esempio, forse sorprendente, che ha esattamente 122 anni. È stata infatti composta quando fu ultimato il nuovo campanile del mio paese, alto 50 metri e fabbricato tutto in bozze d’arenaria lavorata a scalpello, a meraviglia e invidia dei montanari delle altre parrocchie. L’ho recuperata solo in parte quarant’anni fa, me la recitò il nipote di chi la compose oralmente, tal Rumanín, rimasto nella memoria comunitaria per le sue doti di fantasioso ‘folaio’.
E campanél l’è grand e bèl | Il campanile è grande e bello |
e l’è fat tótt ed scalpèl. | ed è fatto tutto a scalpello. |
Quei ed Muntagό pò ien dal stóri | Quelli di Monteacuto poi hanno delle storie |
i dìsen che e campanél | dicono che il campanile |
e pend vers Muntόri. | pende verso Montorio. |
Ma i muradόr i l’en piumbà | Ma i muratori l’hanno piombato |
dis che e va ben cum e sta | dice che va bene come sta |
e s’a psén finìl ed paghér | e se possiamo finire di pagarlo |
e campanél a s’à da drizér. | il campanile di deve drizzare. |
S’avlì savél chi a vlà messa sό: | Se volete sapere chi ve l’ha messa su |
Tanesi ed Caiaia e quii ed Muntagό… | Tanesi di Caiaia e quelli di Monteacuto… |
A miglior comprensione preciso che in montagna il campanile era, ed è, il simbolo del paese, quasi popolare stemma araldico. Ma del nostro si malignava che pendesse a causa del grosso debito che noi si aveva contratto, per costruirlo, con un signore di Montorio. Da qui la necessitata zirudella laudativa.
Del resto la rivalità fra i borghi era sempre latente, necessitate dalla penuria di beni – si viveva tutti di una faticosa e avara agricoltura – beni che dovevano essere protetti dalle possibili ruberie dei vicini, rivalità che si esprimeva anche oralmente con motteggi e appunto zirudelle. Come la seguente (Qualto è un antico borgo un tempo isolato fra cupi boschi di castagni e la sua gente n’era manifestamente condizionata nel carattere):
Qualtaròt a sé a sé | Qualtarotti a sei a sei |
ien al diével sotta ai pé | hanno il diavolo sotto i piedi |
Qualtaròt a sèt a sèt | Qualtarotti a sette a sette |
ien al diével sotta e lèt | hanno il diavolo sotto il letto |
Qualtaròt a òt a òt | Qualtarotti a otto a otto |
ien al diével sotta a e capòt. | hanno il diavolo sotto il cappotto. |
Zaccanesca, invece, arroccata su un balzo nella sponda sinistra del Savena, veniva canzonata per il clima scorbutico:
Zirudèla a són cuntént | Zirudella sono contento |
che a Zaccanesca a i tira e vént | che a Zaccanesca tira il vento |
l’avèrra i óss, e stiènca i véder, | apre le porte, spacca i vetri, |
ei chèva l’aqua d’int i calzéder. | fa uscire l’acqua dai secchi. |
Questa la risposta autocelebrativa:
Arcurdév che a Zaccanesca | Ricordatevi che a Zaccanesca |
al don a gl’in bèli | le donne sono belle |
e l’aqua l’è fresca. | e l’acqua è fresca. |
A proposito, dimmi delle donne. Erano oggetto di zirudelle o comunque di rime e motteggi?
La donna, in particolare le giovani da marito, era il bene più prezioso per il maschio montanaro, patrimonio della comunità non cedibile. Tant’è che i giovani di fuori, che tentavano approcci con le ragazze, venivano minacciati e addirittura malmenati, la notte, lungo la via del ritorno al loro borgo. Quelli di Qualto, di cui s’è detto, vantavano: al noster ragacini a li sragacén da nû / le nostre ragazzine ce le “sragazziamo” da noi.
Del resto le esortazioni dei vecchi fermate in proverbi erano chiare:
dòn e vac e bó | donne e vacche e buoi |
tulili ai paés só | prendeteli ai paesi vostri. |
Ovviamente non potevano mancare zirudelle e rime a spregio o a lode di questa o di quella. Un esempio, a rivalsa, rimato certo da chi aveva azzardato un corteggiamento in paese non suo:
Castèl Nóv dal bón campén | Castel Nuovo dalle buone campane |
i òmen bèc al dón putén | gli uomini becchi, le donne puttane. |
Un altro, più ironico e meno spregioso:
Zirudela adesi adesi | Zirudella adagio adagio |
a cgnusì i Gragnanesi | conoscete quelli di Gragnano |
ai è un brenc ed ragazeli | c’è un branco di ragazze |
che lor as pensen d’eser beli | che si pensano d’essere belle |
ma s’ai avì fat chés | ma se ci avete fatto caso |
ai è cl’à i bafi sotta a e nés | c’è chi ha i baffi sotto il naso |
Nella zirudella seguente invece, che veniva festosamente cantata, ci si compiace assieme al marito della briosa bellezza di una sposina, appunto soprannominata
la Cionfa
Il ventiquattro agosto | Il ventiquattro agosto |
l’è la festa ed Vigatera | è la festa di Valgattara |
e la Cionfa l’as prepera | e la Cionfa si prepara |
per andér a Cà dei Mor. | per andare a Cà del Moro. |
Quent l’ariva in t’la via fonda | Quando arriva nella via fonda |
lei si mise tutta in onda | lei si mise tutta in onda |
e Daniel cu i è per dré: | e Daniele che le è per di dietro: |
che spuslota c’aiò mé! | che sposotta che ho io! |
Quent l’ariva in t’la Puzóla | Quando arriva nella Poggiola |
l’ai mustreva la pataióla | gli mostrava la pataiola |
e Daniel cu i é per dré: | e Daniele che le è per di dietro: |
che stciuflina c’aiò mé! | che stciuflina che ho io! |
Quent l’è a Cà di Malagìg | Quando è a Cà di Malagigi |
l’ai fè vèder ai paradìs | gli fece vedere il paradiso |
e Daniel cu i è per dré: | e Daniele che le è per di dietro: |
che stciuflina c’aiò mé… | che stciuflina che ho io… |
Chiarisco per i non montanari che la pataióla è quella parte della camicia che copre il di dietro. Sull’argomento “donna” potrei continuare, ma mi sto dilungando.
Ci sono regole metriche nelle zirudelle?
Si componeva “a orecchio”, certo non contando le sillabe, ma comunque in maniera che i versi scorressero musicalmente. In pratica v’era quindi il rispetto di una metrica, diciamo settenari, ottonari, novenari a seconda degli accenti tonici.
Ci sono temi ricorrenti?
In parte ti ho già risposto – la donna, le rivalità paesane, importanti accadimenti comunitari – poi occasioni familiari: matrimoni, battesimi… Io stesso, consentimi l’autocitazione, ancora oggi ne scrivo e recito, ma in lingua italiana, preziosissimi per coloro cui sono dedicati. Questi montanari, di dura cervice ma sentimentali…