Intervista a Sotìrios Pastàkas: una poetica dello sguardo, a cura di Massimiliano Damaggio.
Sotirios Pastakas è nato nel ’54 a Làrissa e ha studiato medicina a Roma. E poeta apprezzato internazionalmente. Dal 1994 è membro della Società degli Scrittori Greci. Nel giugno del 2001 ha rappresentato la Grecia a Verona in occasione della fondazione dell’Accademia Mondiale della Poesia. Collabora con la Casa della poesia di Baronissi. E’ fondatore e condirettore della rivista elettronica Poiein (www.poiein.gr), fra le più importanti del panorama greco. E’ traduttore di poeti italiani quali Vittorio Sereni, Umberto Saba, Sandro Penna, Alfonso Gatto.
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D) Un anno fa, più o meno, in una libreria di Atene hai festeggiato l’anniversario di Poiein.gr, il sito internet di cui sei fondatore. Perché è stato creato? Che impatto pensi abbia avuto nel panorama della poesia greca? In cosa si differenzia dagli altri?
R) L’indubbio successo di Poiein si deve in parte al fatto che è riuscito a rimescolare le carte e a intralciare i giochi fatti, accademici o editoriali che, molte volte, vanno di pari passo, vanno a braccetto. Il motivo esatto della sua creazione è stato questo. Avendo lavorato fin dal 1980 in alcune delle maggiori riviste letterarie (To Déntro, Planodìon ecc.), agli inizi del 2000 avevo capito che si stava esaurendo la loro forza: proponevano soltanto un perfetto e inappuntabile nulla, e cominciai ad andare in cerca della parola scorretta dei primi siti che nascevano proprio in quel periodo. Il mio impegno è di chiudere il sito nel caso dovessimo diventare “accademia” anche noi… La nostra importante differenziazione sta nei commenti aperti e nel continuo “gioco” di ciò pubblichiamo, penso.
D) In un’intervista, hai definito quello che secondo te è un poeta non è: non un filosofo, non uno psicologo, ad esempio.
R) …e nemmeno un teorico della letteratura, aggiungerei. Per il semplice motivo che ciò che può essere scritto in prosa senza perdere il proprio valore non è poesia, come diceva il mio caro Umberto Saba. Certo, il poeta può essere quello che vuole, per contratto e per il pane quotidiano, ma tutto ciò non deve condizionarne la poesia.
D) Hai detto, a proposito di Hirschman: Mi ha cambiato la vita. Intendi anche da un punto di vista creativo? Se sì, in che modo? Dico questo perché la tua è una scrittura lineare e coerente nel corso degli anni, fin dal tuo primo libro; non vedo traumi ma una costante evoluzione di un corpo che da bambino diventa adulto.
R) “Jackone”, il grande Jack, quando lo conobbi a San Francisco nel 2003 era poverissimo (viveva in 20 mq che gli facevano da ufficio, camera da letto, salotto e biblioteca, e per i bisogni personali doveva scendere 2 piani, dal quarto al secondo, dove gli mettevano a disposizione gratis un bagno), ma era felicissimo e creativissimo. Io ero un ricco dottore intrappolato in un matrimonio fallito e bloccato nella scrittura (“Preghiere per gli amici”, che avevo cominciato nel 1995, si era impantanato). Grazie a quest’incontro, che per me è stato una sorta di sartori, ho piano piano sbloccato la mia vita privata e mi sono anche liberato nel modo di scrivere: fino ad allora avevo pubblicato in tutto quattro raccolte poetiche, e invece dal 2003 fino ad oggi ne ho fatte almeno altre dieci.
D) Ogni volta che ci siamo visti, mi sono sentito fra amici, non fra poeti. Intendo: l’atmosfera che tu e gli altri create è molto diversa da quella che si vive frequentemente in Italia, è più informale e rilassata.
R) Forse perché la Grecia è piccola (risata). La verità è che conosciamo molto bene il valore l’uno dell’altro e non c’è posto per vanterie e orgogli fasulli. Questo non vuol dire che le dispute letterarie e i litigi non siano un fenomeno quotidiano anche qui da noi. O, per parlare in modo arguto, semplicemente la nostra compagnia detesta i seriosi…
D) La prima impressione che ho avuto di te, è che tu sia un “animale da compagnia”, che cioè per te la condivisione della tua vita con gli altri sia fondamentale. E che questo carattere/bisogno sia parte fondamentale della tua poesia. Così come mi sembra che tu abbia un carattere disponibile e aperto, come la tua poesia. E’ giusto o mi sbaglio?
R) Trovo straordinariamente vitale per me trovarmi fra la gente, e conoscere persone estranee fra loro e lasciarle parlare così che io possa trarre nutrimento dalle loro conversazioni. Le osservo e le ascolto, anche quando sembro distratto o pensieroso. Hai perfettamente ragione e sono d’accordo con te, Max.
D) Qualche giorno fa, un amico italiano ha letto qualcuna delle tue poesie e mi ha scritto: “Un poeta, dalla scrittura chiara e capace di riconciliare il pubblico con la lettura; la vita quotidiana, le cose di tutti i giorni, che meraviglia riconoscersi finalmente nei versi di una poesia, non doversi interrogare sui reconditi significati!” E’ quello che vuoi sentirti dire? O vorresti altro?
R) Lo giudico un grande complimento. Sì, se davvero ce l’ho fatta, mi giudico fortunato. In sostanza, direi che sono per una “poesia che succede” piuttosto che per una “poesia che deriva”.
D) Ma la tua poesia è davvero così semplice?
R) La cosa più difficile è parlare semplicemente. C’è un serio grado di difficoltà perché si può scivolare nel semplicistico, nel chiacchiericcio e nell’insipido. Scrivo molto difficile perché mi pongo diversi gradi di difficoltà: allitterazioni, numero di versi e di poesie… tutta una cabala personale, inventata da me stesso solo per rendermi difficile lo scrivere. Devo confessare che per me la scrittura è compulsione al grado massimo.
D) In un altro articolo di Versante Ripido presentiamo l’intera raccolta Sissìtio (Rancio). Tutto gira intorno al cibo, in un modo o nell’altro. Perché? Mi fai tu una breve introduzione a Rancio?
R) Con la crisi economica si sono riattizzate e sono riemerse nell’inconscio collettivo le paure che dominano l’uomo, come la fame. Il nutrirsi non ha smesso di essere uno dei più basilari istinti umani. Un altro è il sesso e la riproduzione. In più, con la crisi economica abbiamo riscoperto la comprensione reciproca e l’altruismo. Non dimentichiamoci che la solitudine dell’uomo contemporaneo è politica, prodotto e ricetta del capitalismo. E’ il sistema capitalistico che cioè sovvenziona l’individualismo e la solitudine di ognuno. “Rancio” è stato scritto, senza che ne avessi coscienza, secondo queste due traiettorie: da un parte l’impasse economica e dall’altra, come soluzione alla paura della fame, la collettività. Molti mi hanno detto perché non ho scritto anche questo o piuttosto quell’altro, perché la fame è un’inesauribile fonte d’ispirazione, dalle tragedie così come anche delle commedie di Charlie Chaplin e Totò. Non volevo fare un dottorato su questo tema. 22 poesie mi sono uscite, chiedo scusa se sembrano poche.
D) Da questo ciclo di poesie, esce anche un’immagine di te un po’ “flaneur”. Quale e “quanto” è il rapporto fra te e l’ambiente che ti circonda? E come ambiente intendo anche le persone e le situazioni contingenti.
R) La verità è che, essendo andato via di casa molto giovane, s’è radicato in me lo sguardo del vagabondo e del nomade. Ho sviluppato una personale filosofia dell’anacoretismo e una conseguente capacità di vedere la “situazione umana” come con gli occhi di un moribondo. Un moribondo che ogni momento afferra bulimicamente il meglio che può dagli uomini e dai luoghi.
D) Ovviamente, i lettori si aspettano di leggere i commenti del poeta sulla situazione greca. A me sembra che i grandi avvenimenti entrino nei tuoi scritti in “punta di piedi”. Ma so che hai una chiara visione politica delle cose.
R) Sono passati diversi decenni dalla “poesia schierata”, un intero secolo. La poesia-manifesto non è il genere di poesia che più amo. Perché anche la politica è diventata molto più complessa di prima, e i suoi tentacoli arrivano ovunque, così credo che abbiamo il dovere di risponderle con mezzi molto più subdoli: non con una poesia che chiede uno scontro frontale, ma ingannandola con i movimenti avvolgenti delle molte poesie e dei molti compagni d’amore (risata).
D) La tua poesia che più mi piace è Grecia Papàki, perché ci trovo la Grecia che esisteva, di cui sono diventato parte, che ancora (r)esiste e che è difficile , direi impossibile comunicare a chi non la vive. E’ la sospensione del tempo, dove l’uomo può prendere coscienza di sé? E che cosa aggiungeresti, o toglieresti, oggi, a questa dichiarazione d’amore?
Grecia papàki [1]
La Grecia viaggia a quaranta all’ora
come un papàki sul lungomare.
La massima velocità possibile
coincide con la possibilità
dello sguardo innamorato:
di registrare, di saziarsi,
di ricordare. La luce nelle minime
sue inclinazioni, l’ondeggiare
del mare, la direzione del vento.
La Grecia e il suo passeggero
che la abbraccia, chiudono
gli occhi insieme:
non saprà mai che cosa fosse
lui per lei, nemmeno lei
tutto quello che le deve.
Grazie alle basse velocità
la Grecia è il solo paese
dove il tramonto
verso Sùnio, o al ritorno,
può durare una vita intera.
R) Le dichiarazioni d’amore, quando le fai, non puoi più rimangiartele… e non voglio nemmeno cambiare nulla. Semplicemente, perché l’amore rimanga vivo, a volte commettiamo delle infrazioni: personalmente, questa sospensione del tempo, la ricerco oramai nella Grecia di provincia, a Làrisa, dove sono tornato a vivere negli ultimi mesi.
D) Nei tuoi testi ricorrono spesso la casa e le terrazze. Molte volte scrivi della tua terrazza e dei tuoi vasi di piante ma lo sguardo va raramente, o quasi mai, aldilà della ringhiera.
R) Socrate non uscì mai da Atene, non andò nemmeno a Salamina. Picasso diceva di non amare viaggiare perché preferiva che fossero i luoghi a visitarlo nel suo atelier. Fellini girava soltanto a Cinecittà. Se Leopardi non fosse stato limitato dalla siepe, non ci avrebbe mai trasportati nell’infinito (risata). Voglio dire che sì, hai ragione nel senso che nelle mie poesie c’è la registrazione di ciò che vedono i miei occhi. Una poetica dello sguardo.
D) Tu sei anche traduttore dall’italiano: Penna, Sereni, Saba, ad esempio. Mi sembra che ci sia una forte somiglianza poetica fra te e loro. Quale poesia, e di quale parte del mondo, meriterebbe una maggiore attenzione in Europa?
R) Ti ricordo che sono andato in Italia quando avevo 18 anni e ci sono vissuto per dieci anni consecutivi. Avrebbero potuto influenzarmi anche altri poeti, che d’altronde amo moltissimo, ma s’è fatta sentire l’idiosincrasia personale, come per tutte le cose che ci portiamo dietro nella vita, il colore degli occhi, e l’ereditarietà delle malattie. In provincia, la poesia tarda a consumarsi o, se vuoi, declina con ritardo. Se allora consideriamo come “centro” le lingue dominanti (inglese, francese, tedesco), che sono cadute nel letargo della produzione poetica, le altre hanno ancora molto da dare perché non è sfiorita la loro possibilità espressiva. L’Europa non deve che guardare alla vicina periferia con l’attenzione che ancora non ha mostrato: Turchia, Romania, Bulgaria, Ungheria ecc. Forse anche un po’ più in là, dall’altra parte del Mediterraneo, in Africa ad esempio.
[1] Il “papaki” è un motorino dalla leggendaria lentezza.
Commento di Gabriella Modica riportato da penultimo Orizzonte:
Guardare più vicino al proprio mondo, tirare fuori tutto il reale dal proprio quotidiano, per comprendere e vivere meglio il proprio rapporto con tutto il resto. Conoscere tutto quel che accade nel resto del mondo e avere la pretesa di non poter essere presenti al proprio vivere, invece, sembra la tendenza del mondo di oggi. E le due condizioni possono, approfondendole, rendere tutto più chiaro. Affascinante la sensazione leggendo l’intervista e leggendo la poesia di Pastàkas, di continuare a seguire un discorso colloquiale, completamente svincolato da un tono “poetico” canonico.
Gabriella Modica
Interessantissima intervista. Mi soffermo su queste dichiarazioni a me del tutto congeniali, rilasciate da Pastàkas.
Devo confessare che per me la scrittura è compulsione al grado massimo.
La poesia-manifesto non è il genere di poesia che più amo.
Socrate non uscì mai da Atene, non andò nemmeno a Salamina. Picasso diceva di non amare viaggiare perché preferiva che fossero i luoghi a visitarlo nel suo atelier. Fellini girava soltanto a Cinecittà. Se Leopardi non fosse stato limitato dalla siepe, non ci avrebbe mai trasportati nell’infinito…