Intervista a John Taylor, a cura di Anna Belozorovitch.
Nato a Des Moines, Iowa (USA) nel 1952, John Taylor si è trasferito nel 1977 in Francia, dove risiede attualmente.
È autore di due raccolte di poesie: If Night Is Falling (Bitter Oleander Press, 2012) e The Apocalypse Tapestries (Xenos Books, 2004). Le sue altre pubblicazioni includono libri di racconti e prosa breve. È stato tradotto in francese, italiano, greco, tedesco , polacco, ucraino, sloveno.
In quanto traduttore, Taylor ha curato l’opera il tre volumi Paths to Contemporary French Literature (2004, 2007, 2011) e Into the Heart of European Poetry (2008). Più di recente, ha pubblicato An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960 (2015), selezione di testi di Lorenzo Calogero, che ha ricevuto la Borsa Raiziss/de Palchi della Academy of American Poets.
In quanto critico della letteratura contemporanea europea per lettori anglo-americani, Taylor è responsabile della rubrica “Poetry Today” della rivista Antioch Review ed ha collaborato a lungo con il supplemento letterario del Times.
Vorrei prima di tutto chiederle di raccontarmi del suo primo incontro con la poesia. Quali eventi o persone l’hanno portata a questo incontro, quando ha iniziato a scrivere?
Oltre alle filastrocche per bambini che certamente hanno avuto un impatto profondo su di me senza che io ne fossi nemmeno consapevole, quando, durante una malattia avuta attorno ai quattro anni e che mi ha tenuto a letto per diversi mesi mia madre mi leggeva moltissimi libri per bambini, il mio primo incontro con il potere del linguaggio poetico è stato sicuramente “Il corvo” di Edgar Alla Poe.
Evoco quel incontro in un breve libro di prosa intitolato If Night is falling, tradotto in italiano come Se cade la notte (2014). Avevo undici o dodici anni. Il nostro insegnante, a scuola, chiese a ognuno di memorizzare una poesia e assegnò “Il corvo” a me. Ma mentre tentavo di imparare il testo a memoria, mi sono improvvisamente reso conto che i miei compagni di classe sarebbero scoppiati a ridere quando avrei recitato quei versi in cui il corvo è “posato sul busto di Pallade”. “Busto” [bust] richiama il “seno” in inglese e io non ne conoscevo nemmeno il significato fino ad averlo cercato nel dizionario quella sera stessa. Inoltre, il “busto di Pallade” ricorre altre volte nel poema. Come se non bastasse, c’era un verso in cui gli occhi infuocati dell’uccello ardono nel petto [bosom] del poeta. Anche la parola “petto” può significare “seno”. Così, quando recitai il poema in classe, decisi di sostituire “busto” con “statua” e “petto” con “cuore”. Stranamente, l’insegnante non disse nulla delle mie “revisioni” indiscriminate al poema di Poe, come se pure lei avesse temuto le risate dei miei compagni di classe! Una scena segnata dal puritanesimo e patetica, per dirla nel migliore dei modi.
Ma ciò che da allora non ha mai smesso di perseguitarmi è stato il potere evocativo di certe parole. Una singola parola in un poema poteva scatenare un’emozione forte e inquietante. Da un poema poteva scaturire il rapporto più intimo che si possa avere con gli altri, con il mondo.
Molti anni dopo, quando ormai ero un giovane uomo, le poesie di Kavafis sono state tra le prime a commuovermi profondamente. Curiosamente, le mie prime poesie si ispiravano allo stile poetico di Kavagis ed evocavano i miei stessi antenati Puritani della Nuova Inghilterra del diciassettesimo secolo: quello stesso puritanesimo che era stato alla base della mia “revisione” del poema di Poe!
Che relazione c’è tra la sua scrittura in prosa e quella in poesia? Sono altrettanto importanti? Avvengono contemporaneamente? Mi racconti di più di queste diverse esperienze.
In verità, nonostante io abbia scritto poesia nei miei anni di gioventù come ho appena menzionato, i miei primi libri sono sempre stati in prosa, soprattutto di racconti. Eppure persino i racconti del mio primo libro, The Presence of Things Past (1992), erano molto più orientati verso l’evocazione che la descrizione, verso il frammentario in opposizione alla narrazione continua, all’emozione e non agli eventi. Mi focalizzavo sui dettagli e sui frammenti che restano del passato di ognuno, non sui fatti che possono essere descritti tramite il racconto. Era quella la “storia” che avevo da raccontare e certamente non si trattava di una storia. Non ho inventato nulla nella mia scrittura in prosa, non ho fatto narrativa, perché desideravo specchiare una realtà interiore: l’impressione preoccupante che avevo che soltanto pochi piccoli frammenti potessero essere recuperati del mio passato; nulla di completo, stabile o affidabile.
In maniera simile anche il mio libro The World As It Is (1998) evita per lo più lo storytelling. Include diversi esempi di ciò che io chiamo “percezioni”, ovvero brevissime evocazioni in prosa che tentano di ricreare lo stato d’animo di quando siamo stranamente consapevoli di essere nel processo di pensare o sentire; uno stato d’animo breve, sfuggente e auto-riflessivo che ci fa improvvisamente consci del nostro essere vivi. A causa di questa “ricerca” di qualche cosa di misterioso e oscuro che non può essere trattenuto tramite la narrazione, credo che tali testi in prosa siano simili alla poesia, nonostante non si possano davvero chiamare “prosa poetica”, al di là del loro stile lirico o “poetico”.
Sono ritornato alla poesia in maniera più decisa con The Apocalypse Tapestries (2004), tradotto in italiano come Gli Arazzi dell’Apocalisse (2007). Quel libro comprende alcune poesie in versi insieme ad altri testi di prosa, oltre a numerosi testi che si collocano “tra” poesia e prosa. Come Nerval, sono interessato al momento in cui la poesia “cade” nella prosa e vice-versa.
In tempi recenti, i miei numerosi progetti di collaborazione con l’artista Caroline François-Rubino mi hanno indotto a scrivere in una maniera (per me) nuova: poesie molto brevi, utilizzando spesso versi troncati, enjambements e, ancora una volta, evocazioni frammentate. Penso in particolare alle poesie in Hublots / Portholes (2016) e in altre due nuove raccolte, Grassy Stairways e The Dark Brightness, le quali verranno pubblicate negli Stati Uniti tra circa un anno.
Dal momento che lei traduce poesia, mi piacerebbe che mi raccontasse qualche cosa sulle diverse esperienze del tradurre poeti diversi. Cosa significano per lei queste diverse esperienze? C’è stato per lei un “incontro” speciale con la poesia di un autore? Le è mai capitato che l’incontro fosse invece difficile, e per quale ragione?
Ho sempre avuto la fortuna di scegliere i poeti da tradurre. Li ho tradotti perché ammiro il loro lavoro e lo considero importante. Spesso questa operazione coinvolge la mia stessa poetica e il mio questionarmi spiritualmente. Ad esempio, il lavoro dei poeti Philippe Jaccottet e Pierre-Albert Jourdan mi ha a lungo impegnato poeticamente e filosoficamente, sia in quanto autore e sia come critico letterario, quando ho deciso di tradurli per tentare di comprendere le loro rispettive poetiche più in profondità.
La traduzione è la forma più profonda di lettura. Si può leggere un poeta per piacere, si può fare un passo oltre e leggere un poeta criticamente e prendere note per un saggio che aspiri ad essere un’analisi seria e coerente della sua poetica; ma la traduzione aggiunge ancora altro a questo piacere della lettura o a una simile analisi critica: trasporta verso un’intimità ancora maggiore con il lessico del poeta, con la sua sintassi, la sua ricerca della forma, e di conseguenza con l’andamento della mente del poeta, le sue emozioni e così via. Ogni virgola conta: significa e rivela.
Una volta, nel 2011-2012, l’esperienza di traduzione di qualche testo per un progetto di antologia di poesia svizzera ha lasciato su di me una impressione così profonda da farmi continuare a tradurre una selezione generosa di altri tre poeti inclusi in quell’antologia: Pierre Chappius, Pierre Voélin e José-Flore Tappy. E, dopo aver tradotto la raccolta di poesie di Tappy (Sheds, 2015), mi sono reso conto che il modo particolare in cui lei utilizza la sintassi nelle sue poesie brevi ha influenzato – dapprima in maniera inconsapevole – il mio stesso modo di comprendere questo elemento essenziale della poesia, nonostante fossero coinvolti due linguaggi diversi: il suo francese e il mio inglese.
In maniera simile, l’utilizzo notevole che fa della sintassi il poeta italiano Alfredo de Palchi nelle sue ultime poesie (per esempio in Paradigma, 2013) ha aperto la mia mente verso modi diversi di intendere le relazioni – o l’assenza di relazioni – tra unità dell’immaginario, del pensiero, dell’emozione.
Infine, ma non ultimo, Lorenzo Calogero! Ho dedicato moltissimo tempo a questo poeta difficile e affascinante. Ancora una volta, nel tradurre ero interessato a catturare la frammentarietà del suo lavoro dell’ultimo periodo e ne è risultato il progetto intitolato An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960 (2015).
Lei parla e utilizza molte lingue. Mi piacerebbe sapere come il fatto di essere un poliglotta affetti la sua percezione del mondo, il suo senso di appartenenza.
Il mio rimpianto è di non aver potuto iniziare ad imparare lingue straniere molto più presto, nella mia vita. Ma a Des Moines, dove sono cresciuto, questo sarebbe stato impossibile. E da bambino ho passato molto tempo a giocare a baseball! Eppure, quando ho iniziato a studiare la mia “prima” lingua straniera – il tedesco – con serietà, e avevo ormai diciotto anni, non avevo la possibilità di muovermi spesso lungo i sentieri che portavano verso quel mondo straniero. Col tempo, leggere traduzioni senza testo a fronte non poteva più bastare: non appena possibile, dovevo andare alla “sorgente”. Sfogliando un dizionario bilingue, tentavo di decifrare le poesie – niente meno che di Hölderlin! – che sospettavo mi avrebbero interessato, pur sapendo che la mia conoscenza della lingua tedesca non era ancora sufficiente a comprendere davvero il testo. Ma una volta che quella porta straniera, seguita da altre – il francese, il greco, l’italiano – era stata aperta seppure di poco, ero istintivamente portato verso “l’alterità”, spinto a superare la soglia. Questo sicuramente spiega perché, in quanto americano dal background essenzialmente mono-culturale, mi sono subito sentito a casa non appena arrivato in Europa, nel 1975. Guardando all’indietro, posso ora capire come e perché non mi sentivo totalmente a casa nel mio luogo di origine. Mancava l’alterità.
Ritiene che sapere diverse lingue sia uno strumento per creare legami tra individui che possono essere più forti di quelli formali (quali i confini di Stato, ecc.) o si tratta soltanto di un’illusione?
Simili legami linguistici sono in effetti spesso più forti di confini ufficiali, come mostra la Storia stessa (spesso in maniera tragica). Vorrei che la conoscenza di un’altra lingua potesse essere sempre positiva e umanizzante, assicurando il dialogo tra due persone che sono familiari con la lingua dell’altro, nel momento in cui le cose “cadono a pezzi” e si perdono i punti di riferimento; ma ancora una volta la Storia – quella europea in particolare – mostra che non accade sempre così.
Eppure a livello di relazioni interpersonali, è innegabile che conoscere almeno un po’ della lingua dell’altro è la condizione necessaria (se non la sufficiente) per fare ingresso e rispettare il mondo di quell’altro. Quando si viaggia in un Paese di cui non si consce la lingua, non bisognerebbe mai trovarsi senza un frasario. È una cortesia ed è la chiave…