Intervista a Tiziano Fratus, a cura di Paolo Polvani.
Questo mese vi proponiamo un’intervista al noto “scrittore degli alberi” Homo Radix, Tiziano Fratus.
I tuoi versi hanno spesso un incedere lento, il respiro di lunghe camminate. Viene il sospetto che nascano in connessione stretta col ritmo dei passi.
E’ un sospetto in parte fondato. Io sono lento un po’ in tutto, anche per limiti fisici. Se devo percorrere un sentiero di montagna, in un’area protetta, so per esperienza che è opportuno calcolare i tempi a disposizione, quel giorno, raddoppiati. Almeno. Non sono invece lento a scrivere: ho quarant’anni e ho pubblicato, fra libri per il teatro, raccolte di poesie in Italia e traduzioni all’estero, e libri della serie Homo Radix (quelli dedicati alla natura, agli alberi, ai viaggi e così via), una quarantina di titoli, ovviamente elaborati in questa seconda parte della mia vita. Camminare è respirare, respirare è guardare, assaggiare, ammirare, ricevere in dono. Scrivere è rielaborare tutto questo. Credo che esista un tempo universale che regola anche tutte le altre attività.
Come nasce la tua passione per gli alberi ?
Le radici sono diverse. Da una parte l’annebbiamento della famiglia naturale di cui ero parte, che è sfumata molto presto. Questa latitanza affettiva mi ha portato a cercare dimora altrove, ed una dimora possibile sono diventate le foreste, i boschi, nei quali hanno iniziato a rappresentare un richiamo i grandi alberi secolari o millenari. In California ho concepito il concetto di Homo Radix, Uomo Radice, che diventa cittadino del mondo e parente spirituale di ogni grande albero. Da uomo scisso dal paesaggio diventa parte del paesaggio stesso. Il resto è conseguenza di quel seme gettato nello spirito.
Il tuo nuovo romanzo, Ogni albero è un poeta, appena uscito, ha un bellissimo titolo, molto poetico.
Alcuni libri presentano in avanscoperta il titolo: tu, come potenziale autore, li prendi in consegna e li fai crescere, come se fossero dei cuccioli di gatto. O di drago. Altri ti crescono fra le mani e lavori per donargli un titolo opportuno. Altri ancora si formano completamente con un titolo che tu avevi in mente, anche se non ne eri sicuro, e poi il confronto con l’editore porta alla sua definizione. Il titolo di questo mio primo romanzo è nato dal confronto con l’editor. Inizialmente non mi persuadeva, poi ho sentito diverse persone che invece mi dicono che sia un titolo che apre un immaginario. Diciamo che ben rappresenta la pratica dell’alberografia che vivo (quasi) quotidianamente. Anche se negli ultimi due anni ho passato più giorni in casa a scrivere che non nei boschi ad ammirare.
Si tratta di un romanzo totalmente o solo in parte autobiografico ?
Molto di quel che scrivo parte da un dettato autobiografico. Già quando scrivevo poesie la fantasia aveva un ruolo importante, era uno dei motori che mi spingevano a elaborare figure e immagini. Durante i due tour fatti negli Stati Uniti per promuovere traduzioni delle mie poesie diversi poeti e docenti di letteratura evidenziavano la narratività dei miei versi, quindi era già allora evidente che avrei probabilmente finito per scrivere narrativa. Con questo nuovo libro ho ricevuto il compito di poter scrivere liricamente un romanzo, una storia. La sorpresa per me più grande è che questa proposta sia arrivata dal maggiore editore italiano, non da una piccola casa editrice che fa ricerca sperimentale.
Hai visto alberi in ogni parte del mondo. Parlano tutti la stessa lingua?
Ogni albero parla una propria lingua, ed ogni uomo può cercare di comprenderla. Riuscire a decifrarla o credere di riuscire a decifrarla ovviamente non sono la stessa cosa, sebbene credo che siano comunque due esperienze valide e spiritualmente innervanti. In realtà ho visto alberi in America del Nord, Europa, Maghreb e Sud est Asiatico. C’è ancora tanto mondo che non ho calpestato.
Un tuo verso, da Studi di letteratura sulle Orche volanti, recita: “Ma l’uomo era felice, viveva uno stato d’animo raro, ignoto al / pensiero acquatico della trota…”. E’ questo che regala la compagnia degli alberi? l’immersione prolungata nella natura?
Non mi ricordo questo verso, nemmeno il titolo ma è così strampalato che potrebbe essere nato da questa testa che mi porto appresso. L’immersione prolungata nella natura, la “natura” o “geografia profonda” come la chiamano gli studiosi americani e alcuni dei nostri più affascinanti camminatori – Davide Sapienza, Luca Gianotti, Riccardo Carnovalini ecc – ha anzitutto un potere lenitivo, lenisce parte del nostro carico di pene, di irrealtà, di angosce. Quindi può aiutarci a ricominciare a vivere tenendo con noi anzitutto quel che serve, l’essenziale, sgrassando tutto o buona parte del resto. Per alcuni poeti e alcuni scrittori poi è anche lavoro: è osservazione, è descrizione, è immaginazione.
In Autoritratto di paesaggio con gelso, i primi versi recitano: “Ho incominciato a respirare / nel tronco cavo di un gelso, / avevo varcato la soglia dell’età adulta”. E’ cominciata così l’avventura di cercatore d’alberi?
Questa la ricordo bene, per fortuna… Sì, è una delle mie preferite. E’ così, poeticamente rappresenta quel che mi è successo. Un gelso cavo rappresenta quel che ero: un albero maturato, invecchiato in fretta e già cavo, senza cuore. Mangiato dalla mancanza e da una vita che non si dovrebbe vivere. Poi ho ricominciato a respirare. Anche se il Paradiso resta molto distante.
Che significato attribuisci alla parola solitudine?
E’ una condizione molto presente nel mio tempo. Mi ha accompagnato lungo l’infanzia, si è presentata con volgarità nell’età di transito fra la giovinezza e la cosiddetta età adulta, e oggi talvolta me la riscopro appiccicata. Ci sono diverse specie di solitudine. Prima o poi le andrò a categorizzare. Un tipo di solitudine è adorabile, necessaria, è quella che ti consente di viaggiare, di respirare, di annusare, di ricevere tutto quel che hai intorno ed è la solitudine che indosso, nella quale mi immergo, quando viaggio, come è successo anche di recente andando per dieci giorni nelle città del Marocco. E’ quella che uso quando vado in montagna alla ricerca di foreste e alberi vetusti. Ne ho parlato molto ne Il libro delle foreste scolpite (Laterza). Una solitudine invece tutt’altro che desiderabile è quella che purtroppo mi accompagna quando ritorno alla società degli umani. Una solitudine non desiderata ma che spesso si presenta e mangia via ogni possibilità di comunicazione, o meglio, di comunione. Non so dire se sia un frutto del nostro tempo, se sia colpa del mio modo di percepire la realtà, o altro ancora.
Poesia e fotografia: che differenze riscontri nell’accostarti a queste due diverse forme di comunicazione?
La poesia è la mia prima forma di elaborazione, di creazione. Di immaginazione e decifrazione del tempo che vivo e dello spazio che abito. La fotografia è un hobby, è il piacere di portare a casa dei ricordi da quel che vedo. E’ un tipo di memoria. Metto da parte per l’inverno che arriverà.
La tua poesia non si occupa solo di alberi; in alcuni versi scrivi: “L’amore è una parola chiusa / che cerchiamo di spalancare, / è un giorno di festa e di canti..”
Sì, in questi anni sento molti commenti al mio lavoro. Anche direttori di festival o editori mi dicono che sono stato bravo a portare avanti un lavoro che per loro sembrava specialistico. Ma per me non è mai stato così. Io non scrivo di alberi, scrivo anche di alberi. Scrivo di tutto quel che vedo e vivo, e mangio e respiro. Scrivo di alberi come scrivo di uomini, scrivo di fantasia, di proiezioni come scrivo di oggetti, di case, di valli, di fiumi, di animali, di vita e di morte, di sesso e di amore. Dovremmo smetterla di separare sempre tutto, di relegare realtà, ed esperienze, in categorie da entomologi: in letteratura per me esistono le voci, poco mi importa se siano poeti, narratori, viaggiatori, saggisti, storici o sociologi.
Spendida intervista, condivido la sinergia che può nascere tra la poesia e la fotografia …e soprattutto
un elogio alla lentezza da ammirare, quel mettere da parte per l’inverno, custodire.