Intervista a Vladimir D’Amora, a cura di Claudia Zironi.
Bentornato sulle pagine di Versante Ripido Vladimir. Desidero porti alcune domande che certo saranno di interesse per i tuoi numerosi estimatori e per i nostri lettori.
Quando hai iniziato a scrivere?
Ho iniziato a scrivere nell’adolescenza, quando respiravo i conflitti veri del corpo mio assunto come ghiaccio: in quel giro di anni senza più un’infanzia, preferivo ricostruire l’esistenza nei segni e nell’immaginazione, ogni escrescenza degli accadimenti, e ogni loro radicazione, la circondavo di appunti e di corrispondenze e di dediche… Mi stordivo di scrittura, lo comprendevo così, il mio corpo… Ricordo che ho desiderato con tenacia immodica che il mio corpo potesse scrivere storie, in cui l’altro mi cadesse tra le mani, allora scrivevo come battendo forte i piedi nel vuoto dell’aria, a saltare in alto, lungo la verticale… Per ricadere.
Ti occupi di arte, di filologia, di filosofia, di politica. Tutto ciò è propedeutico alla tua scrittura o la scrittura è un accessorio?
Tutto ciò di cui mi occupo, vive nella scrittura e della scrittura… Per me la filologia, che certo si destina nella costituzione di scienza, come un sapere e positivo e archeologico, è una intensità: l’amore dei logoi è la carcerazione della forma entro le forme, della scrittura che si affaccia alla scrittura: nelle idee con le idee e per le idee… La scrittura è una filologia capace di parodiare ogni inizio che si presenti come un inattingibile potere fisso e immobile… La città, l’incontro, il contatto, la memoria e il ri-ferimento, quella politica che ci costituisce come una relazione che manca, nelle misologie apparecchiate e in quelle sempre rinnovabili, trovano il rimando a presupposti che agiscono come fantasmi gravosissimi e, insieme, destinati meramente a non lasciar essere, a identificare, a appropriare – una filologia come intensità di scrittura, credo che invece liberi degli agi, lasci insorgere limiti, esposizioni di potenza, di deboli traiettorie di caduta e oblique: interroga l’uomo come se fossimo ancora da determinare: sempre una specie dell’evento.
Ti esprimi unicamente attraverso la scrittura o pratichi altre forme artistiche?
Non amo la versatilità, la polymathìe, la multi-scienza: non oso essere un eclettico, né confido nella utilità delle categorizzazioni disciplinari, se non per una intelligenza storica del testo, per la storia delle testualità… Una volta disegnavo con le matite grasse e con quelle tecniche, mi lasciavo soggiogare dalla presenza, ora invece…
Sei molto attivo in rete, in particolare sui social network dove la velocità del vortice, che tutto inghiotte e sedimenta in proto reperto archeologico, rende le produzioni artistiche che ad essi si affidano estremamente volatili rispetto all’attenzione dei fruitori. Hai mai pubblicato su carta o affidato a supporti di conservazione e diffusione i tuoi scritti? Come mai operi prevalentemente in rete?
No, non ho mai pubblicato investendo nella carta e nella definitività: forse ho paura anche della chiarezza… Forse amo complicarmi la vita nelle risorse facili e sciolte di questa contemporaneità innominabile cui ci assegniamo come in una sorta di esercizio storio-grafico perenne e triviale, speso anche futile… Intrattengo con il fruitore della mia scrittura una relazione di sospensione: il mio con-sumatore è un lettore distratto, deve rifarmi, imitarmi, annientarmi… Come se la mia scrittura gli fosse l’occasione per mettersi in scena come uno assoggettato allo schermo, che è un contraccolpo, un ostacolo: gli si apre, al mio fruitore, la possibilità di scorgere pezzi di senso – o di una certa risonanza di bellezza… Per me la Rete… è lo schermo nel suo contraccolpo, nella potenza di ostacolo, un invito e la provocazione a stare nel contro-balzo di una immagine, di un senso…
Quando possiamo trovarci a guardare uno schermo, per lo più capita che ciascuna sua visualità sia tanto piena, da potersi lasciare svuotata da quella a essa più prossima come dalla più distante. Lo schermo, quasi ogni schermo, lascia che le immagini, per lo più facce, e non volti, anzi, i visi possano vicendevolmente, ma non istantaneamente né simultaneamente, spegnersi. Gli schermi, insomma, contraggono – contraggono solidificate(si) possibilità – tanto che la potenza stia possibilità, tanto che divenga potere…
Ora, lo schermo, e il suo paganesimo irriconoscibile (perché entro un contrarsi è schermata non altro, che decidibilità), lo schermo elude ogni sostanzializzazione del medium come del mezzo. La veglia degli schermi attende alla modernità, alla sempre recente scissione, alla sempre riprendibile separazione.
La scrittura è medializzazione di una traccia: la scrittura ripete in quanto non è un mezzo – la scrittura istituisce in quanto non è una forma. La scrittura opera quella apertura in cui, solamente, la vita e una misura di spazio e di ritmo stanno – mai insorgendo. La scrittura è mediale traduzione, una intensità tradotta: la vita non è data, ma ri-versata… La scrittura in quanto traccia, ripercuote scissioni – ma non le modella come in-decidibili. La scrittura elude la solidità tanto strumentale quanto mediale – la scrittura insedia sé come esposizione al e del limite. La giustapposizione immaginale qui si smarca da ogni filosofia: dal pensiero che si acquieti nella focalizzazione di una insorgenza. Il nuovo, nella sua debolezza, irrompe solo come operazione che, non attardandosi presso alcuna disponibilità, e gestibilità e tolle-rabilità, può non ripiegarsi né in un affaccio (monadologico) né in una partecipazione (monistica)…
La scrittura, quindi, può – la libertà, qui e ora in gioco, non è né uno schermo-di-nichilismo né una neutralizzazione – questa libertà è la flagranza.
Se al bambino, quand’è bambino, togli il destarsi, cresciuto, crescendo, non esperirà alcun assoggettamento.
Perciò qualsivoglia critica meramente passa alla segnalazione di una esigenza: alla indimenticabilità di una lotta e alla immemorialità di una mediazione…
Trattare, avere a che fare con disfattismo e lassismo, fa segno a una scoperta inapparente, essa stessa, di mondi non misurabili – un mondo che impara.
L’immagine, libera alla sua insignificanza, è uno schema…
Questa immagine di lotta, l’immagine lotta perché libera non per né dalla vita, ma nel vivere – presso la vita…
Non ami che la tua scrittura in versi venga definita poesia. Ci puoi spiegare?
Io non scrivo versi, né in versi… Se, poi, mi si chiede se io faccia o meno poesia, rispondo che cado nella poesia, interrompendo l’informazione per attimi di spaesamento categoriale, per un equivoco di ricezione posso definirmi poetico nella mia scrittura: lascio insorgere una riconoscibilità di forma, lo scorgere lo spazio para-testuale come una specie di incontro con una possibilità di scambio personale e di aggregazione formale… Non scrivo poesia perché mi limito ad aprire per prosa la poesia: non riesco a sostenere il peso, e il compito, dell’origine: non so avvitarmi compiendo la frase nella sua scaturigine: lascio insorgere delle svolte, come ai tornanti di montagna…
Ho potuto notare la grande varietà di argomenti che tratti nelle tue opere. La ricorrenza di alcuni in particolare mi ha colpito: Napoli, la tua città; i dolori che hai subito e altri percorsi autobiografici e familiari; il nazismo e la guerra; l’amore; i rapporti umani e la natura umana. In particolare vorrei chiederti del nazismo: memoria o rivisitazione estetico-filosofica? come mai lo riporti sempre a “nuova luce”?
Qui devo, avrei dovuto…, dilungarmi parecchio… Perché nei pressi del nazismo ne va ancora di noi e perché… allora, dico così, quanto al nazismo… Il nazismo è la costante storica e antropologico-politica del Ventesimo secolo: è il coinquilino scomodo e, insieme, specioso e anche netto, di ogni abitare novecentesco… Il nazismo è il campo: è la bio-politica che si traduce immanentemente, che non significa: immediatamente…, in tanato-politica… E’ la messa a fondamento, ossia a distruzione, di una speciale, ossia degna di nota ed evidenza, configurazione dello stare nella storia e nella comunità dell’uomo: di una forma d’uomo… Il campo è lo spazio, la spazialità politica dell’Occidente: ammessa una certa elementarità ed elementalità, si passa a trattarla, ossia l’ammetterla è il suo stesso assumerla e gestirla: come un campo d’impoliticità: come una risorsa, un fondo di appropriazione attraverso cesure e divisioni instancabili: ariano e tedesco, ariano ed ebreo, tedesco e occidentale: degno e indegno: uomo e oggetto, cosa e trascendenza: dio e immagine: spettacolo e vita… Il nazismo mostra indiffettibilmente, ossia fino al suo autoannichila/imento, il farsi immagine della morte e del morto: la cui residua consistenza è una cenere degna forse di infiammare uno schermo, o una tela, di impossibili guardate: di scomode e, insieme, digeribilissime occhiate di male!
Hai figure di pensiero di riferimento? Cosa rappresentano per te Heidegger e Agamben?
Heidegger è/vale… Heidegger e la Pubblicità: il Nazismo alla prova di Auschwitz.
Mentre Agamben è, per me, meno un filosofo, che un intelligentissimo saggista: un filologo pensante.
Sono segnavia paradigmatici: non-detti da interpellare e da situare sempre di nuovo…
Ti consideri uomo di fede?
Per me la fede non ha a che fare con il mistero e con l’arcano e con l’indicibile, con il mistico e le sue figure e apprensioni… Piuttosto la fede, persino quella così detta religiosa, è una esperienza di parola… Ho fede, quindi, per una parola che né enunci opinioni sulle cose né ponga se stessa come un fatto… A una sì fatta parola, capace di restare senza esaurirsi come accumulazione di sapere né imporsi come performazione, una parola sì debole, ma insieme compiuta proprio nell’eccedere ogni detto come ogni dire, non può che corrispondere non altro, che il sempre e comunque inespresso e insignificante…
Una parola che meramente la testimoni, l’in-possibilità del negativo, il negativo come irreparabilità, sospendendolo da ogni cattura materiale ed immateriale, restituendolo al suo mero uso, ossia ri-aprendo in possibilità, e non già reificando, ogni condizione — questo vuoto-di-parola è o, meglio, sarebbe culmine d’umanità.
Una mera curiosità dell’intervistatrice: ci spieghi come mai in rete l’iconografia personale reperibile su di te è scarsissima e ti fai rappresentare in ambito Facebook da un autoritratto del pittore Albrecht Durer?
Duerer, questo Duerer come avatar, è una imago christi: è una operazione di rappresentazione: è una segnatura che copre un corpo: è un campo di tensioni vive ancora, forse ancora vive, ciò cui rinvia questa faccia-di-schermo… Perché è un riuso che chiude, un rinvio che perseguita!
La tua arte segue una progettualità? Ci anticipi qualcosa che vorresti perseguire nel futuro?
Non ho un’arte, sono un rifacitore di pseudo-concetti e uno scopiazzatore di posture che un tempo si sarebbero dette intellettuali… La mia scrittura è il progetto della vita mia: cum ira ac studio…
Che ne dici di concludere questa intervista con un tuo scritto in versi significativo dell’essenza di Vladimir D’Amora…
io – la poesia – non si capisce: essa non pensa
e vivo ma non posso: parola non fa cosa
e pende a intatto punto e persa nel volere
come ripossa il segno, il desiderio è nato
di nuovo senza torso, tutto nel suo dolore
la forma è stretta a forza, è la più fonda fuga
nessuno che fluisce, di questo aggancio al fare
precipita nel tempo, si dona già fattizio
l’arresto conosciuto, il manto è tenebroso
conosce chi s’illude, il volto è nel silenzio
è l’assordante andare,
al fondo disparito
può questa vita un vuoto, nell’altro imbarazzato
e poi si tiene incontro, il verso che si muta
rifiuta la parola, che io ridico sola.