Intervista a Giovanni Gianluca Asmundo, a cura di Paolo Polvani

Intervista a Giovanni Gianluca Asmundo, a cura di Paolo Polvani

       

 

Partiamo dal titolo dell’opera con la quale hai vinto il Premio Versante Ripido 2019, sezione poesia inedita: “Disattese – Coro di donne mediterranee”, e dai versi posti in esergo di G. Ritsos.

Questa raccolta, che sono davvero felice veda la luce, nasce come un ritratto plurale e un esercizio di immedesimazione. Attualmente, provare a indossare i panni degli altri mi sembra una forma di resistenza.
Sono convinto che da molte figure femminili possiamo imparare delle lezioni in termini di risposte pacifiste. Penso anche a coloro che desideravano portare avanti una lotta per i diritti delle donne che fosse unita alla lotta antimafia “contro la violenza degli uomini”, per usare un’espressione di Simona Mafai; e, in questo momento storico, contro quella del populismo. L’idea di riprendere in mano la silloge mi è venuta in mente proprio l’8 marzo scorso e sono tornato a completarla sentendo un’esigenza di risposte nonviolente.
Il termine “Disattese” gioca con il doppio riferimento a un’idea di obblighi non assolti e a un senso di attesa. Vuol essere una riflessione sull’incasellamento della condizione femminile in tòpospreconfezionati e una critica al linguaggio burocratico, di cui forse dovremmo superare alcune contraddizioni nel segno di una reale parità dei diritti.
Al contempo, la silloge corale è un omaggio alla donna mediterranea. L’intreccio di voci e situazioni ha contorni spaziali e temporali sfumati, in cui le figure potrebbero essere antiche quanto contemporanee, con un fine di denuncia delle loro condizioni troppo spesso mai realmente mutate. Ma soprattutto desideravo mettere in luce la straordinaria irriducibilità della donna mediterranea.
A proposito di poemi corali, in esergo alla prima sezione della silloge, intitolata “Permanenza”, ho fatto riferimento a un libro che amo, “Le vecchie e il mare” di Ghiannis Ritsos, il quale mi ha accompagnato per anni, una quintessenza di umanità, salsedine, catarsi. I versi che ho trascritto giungono da quella che mi appare la terza bocca anziana di un unico corpo collettivo.
La seconda sezione, dal titolo “Migranza”, invece, si apre con la voce di Antigone, della quale ho cercato di rendere dall’originale alcune sfumature legate alla natura empatica e costruttiva.

    

“Velate aspetteremo sulla riva/ l’amaro ritorno delle cose perse”: sono versi che raccontano una dolorosa, tragica attualità.

Grazie per avere scelto questi versi, per me rappresentano un condensato di vari temi che attraversano la raccolta, un’immagine che desideravo fosse senza tempo: da una barca carica di lupini ai fotogrammi di Visconti, dalle anziane consunte di Ritsos ai pezzi di scafo sverniciati che ho preso in mano sulle battigie dell’ultimo lembo d’Europa.

     

“In un’estasi d’aglio e prezzemolo”: nei tuoi versi circola molta atmosfera mediterranea. Qual è il rapporto della tua poesia col paesaggio?

Il paesaggio mi accompagna sempre, tra stanze d’isola, promontori, palinsesti, dissolvenze; nella poesia ho trovato forse, nel tempo, uno strumento per trasformare nostalgie e riflessioni in luoghi positivi e, spero, accoglienti.
In questa raccolta provo ragionare sui temi dell’appartenenza, della visione e della costruzione collettiva dello spazio identitario. Le figure sono sempre parte di quello straordinaio contesto antropologico e al tempo stesso emozionale che è il paesaggio. Esso diviene sia quinta scenografica del teatro metaforico delle figure del coro, sia geografia interiore e strumento di rappresentazione della stessa.
Cerco di mettere a fuoco contemporaneamente il primo piano e lo sfondo, come un doppio soggetto, osservando cosa può nascere dal loro dialogo.

    

Lo stile della tua poesia affonda le radici, con evidente tenacia, nella tradizione novecentesca. Ci sono poeti dei quali ti senti debitore?

Trovo affascinanti alcuni processi di sedimentazione e metabolismo della memoria. Per la poesia, il Novecento è un orizzonte in cui amo spaziare, è stato attraversato da diversi autori per me di riferimento per averli studiati e tradotti; o ai quali sono grato perché mi abbiano spalancato lo sguardo su qualche angolazione diversa di luce.
Il mio primo libro di poesia è stato “Ossi di seppia”, mi affascinava incredibilmente. Rileggendo Quasimodo, riscopro dei mondi come riemergessero da un passato onirico e semidimenticato, ma dal sapore familiare. Mi piace fare lunghe camminate per le lande di T. S. Eliot e ultimamente mi sto dedicando alla lettura di Lorand Gaspar. Adoro la prosa lirica di Dino Campana, Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo; e mi rifugio spessissimo nella letteratura e al teatro antichi.

     

La tua poesia è ben radicata nel presente. Pensi che l’arte in genere, e la poesia in particolare, ne possano scalfire le asperità?

Sì, cerco di pensare alla poesia come un’occasione di dialogo e come uno strumento di contatto con la realtà, funzionale e costruttivo.
Mi interrogo spesso sui limiti delle possibilità concrete d’incidenza sul reale attraverso la scrittura. Ma credo, sì, che l’arte e la poesia possano scalfire le asperità del presente. Se poi non vi fossero ricadute immediate, sarebbe comunque come lasciare un messaggio aperto: scriverlo mi sembrerebbe meglio che non farlo. E magari, di labbro in orecchio, giungendo altrove nello spazio e nel tempo, quel testo potrebbe avere effetti imprevisti.
Ad ogni modo, credo fermamente nella poesia come prezioso ed efficace contributo all’avere cura.

     

“Disattese” non è il tuo primo libro. Che progetti hai per il futuro?

Disattese” porta a parziale compimento un processo decennale di scrittura, del quale questi testi sono un “capitolo”, al pari delle raccolte pubblicate in precedenza in “Trittico d’esordio” e “Stanze d’isola”. La seconda sezione invece è nata negli ultimi due anni e ne ho approfittato per condensare e dare forma a un fermento di temi sui quali sto portando avanti delle riflessioni.
Attualmente, sul blog “Peripli”, ho in corso diversi progetti: vi sto pubblicando per capitoli un libro/reportage dal titolo “Periplo delle Repubbliche Marinare o dei porti aperti”; da un anno ho creato “Portofranco”, uno spazio aperto all’invio di contributi sui temi dell’accoglienza, insieme a “Radio Peripli libera” in streaming.
Per il futuro: continuare a resistere e insistere con poesia, in una piccola battaglia nonviolenta, nella direzione in cui si renderà necessario. Sempre dalla parte della parola aperta, a fianco di chi è costruttivo e positivo.

     

Raccontaci di Gianluca Asmundo, del rapporto con la poesia, del rapporto con la professione di architetto.

Ho sempre cercato di utilizzare la poesia come strumento per costruire lo spazio e aver cura dei luoghi, raccontarne la stratificazione per recuperarla in quanto valore condiviso.
Nella seconda parte di “Disattese” uno dei temi centrali è la costruzione di uno spazio comune e trasmesso, fondato sul linguaggio, con l’idea che da un’oralità aperta, attraverso lo scambio, possa nascere una nuova tettonica.
Questa seconda metà della raccolta, “Migranza”, è nata dagli ultimi due anni di viaggi silenziosi attraverso l’umanità. Dall’ascolto di una molteplicità di storie raccolte da un capo all’altro del Mediterraneo.
Concepire e partecipare attivamente alla costruzione di uno spazio aperto, collettivo, libero, diviene sempre più una questione di democrazia. La poesia o la matita in questo senso possono avere il medesimo obiettivo, se per progetto intendiamo il lanciare qualcosa in avanti e osservare cosa succeda, il tentare di mettere in forma e rappresentare una capacità di visione. Un esercizio che, insieme a una dose d’ironia, mi appare indispensabile in tempi di necessità urgente di lavorare sul futuro.

   

Emiliano Barbieri, Cile

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